Gli psicologi aprono un negozio

SEGNALAZIONE

Spettabile Osservatorio,
guardate cosa mi ha inoltrato un mio amico.
http://milano.corriere.it/milano/notizie/cronaca/11_novembre_11/psicologo-centro-commerciale-1902125720791.shtml
Io lo trovo raccapricciante. Non credo che si faccia così la psicoterapia accessibile a tutti. Che vergogna.
Lettera firmata

COMMENTO REDAZIONALE DELLA DR.SSA GABRIELLA ALLERUZZO
L’articolo segnalato (che non riproduciamo per rispetto del copyright) annuncia l’apertura di un negozio di psicologi in un centro commerciale di Milano, e introduce un argomento che non è banale come sembra.
E’ un dato di fatto che la disoccupazione o la sottooccupazione degli psicologi è quantitativamente consistente. Ancora 3 anni fa l’Osservatorio aveva lanciato un allarme sulla clamorosa assenza di una politica professionale in presenza, invece, di un numero di psicologi – tra iscritti all’Albo e in formazione nelle Università – chiaramente sovradimensionato rispetto alle possibilità di assorbimento da parte del mercato del lavoro, quanto meno in campo clinico. Da allora, se la situazione è cambiata non è certo migliorata. Nel più grande ateneo italiano, Psicologia è confluita a Medicina e con la finanziaria 2011 pare si voglia estendere l’obbligo degli ECM (Educazione Continua in Medicina) agli psicologi. Una professione quindi che sembra assumere con sempre maggior connotazione il profilo sanitario, quello più logoro, anche se gli ambiti di applicazione della psicologia sono potenzialmente moltissimi.
Da questo punto di vista, le iniziative che mirano a inserire maggiormente gli psicologi nel tessuto sociale sono interessanti e meritano un’osservazione ravvicinata, evitando giudizi affrettati.

E quale luogo è più centrale oggi, per la socialità, delle cattedrali del consumo di cui i centri commerciali sono il prototipo? Come ha ben puntualizzato il sociologo George Ritzer, sono dispositivi che consentono, incoraggiano e ci “costringono”a consumare beni e servizi, non-luoghi di falsa aggregazione finalizzati a spingere l’iperconsumo contemporaneo fino a soddisfare (apparentemente) qualunque bisogno, novelle istituzioni totali dall’aria scanzonata e un fondo di ferocia. Quando si va in un centro commerciale, anche ogni giorno, è possibile non interagire con nessuno, e la sua struttura è organizzata in modo da convogliare i consumatori in percorsi predefiniti, che mentre favoriscono l’isolamento allettano al consumo. Un negozio di psicologi collocato in un centro commerciale sembra quasi un ossimoro. In ogni caso, qualunque studio professionale è sottoposto a valutazioni da parte del cliente che riguardano anche la competenza del professionista come ha rivelato una recente ricerca dell’Università di Columbus, Ohio. Se le persone giudicano le capacità del terapeuta in base all’aspetto dello studio, quale sarà il messaggio che trasmette il negozio che vediamo in fotografia? Si presenta in modo colorato, accattivante e dinamico con una grande scritta: “L’esperto RISPONDE”. Un luogo in cui trovare soluzioni rapide e a buon mercato, sembrerebbe.

Per approfondire un po’ gli aspetti relativi al setting e alle ricadute “meta” sulla professione, abbiamo chiesto a Giorgio Blandino, professore di Psicologia Dinamica presso l’Università di Torino, di esporre il suo punto di vista sull’iniziativa, e con lui concludiamo: vedremo.

PARERE DEL PROF. GIORGIO BLANDINO
E’ apparsa recentemente sul Corriere della sera una curiosa notizia dal titolo: “Gli psicologi aprono il negozio”. Si tratta, come si legge nell’articolo, di una sorta di Pronto Soccorso Psicologico ubicato in un negozio che si affaccia su una via commerciale di Milano e sulle cui vetrine fa bella mostra di sé la scritta “L’esperto risponde” a indicare che, entro questo negozio-studio, vi lavora un team di psicologi e psicoterapeuti. Le persone che hanno problemi possono entrare, senza appuntamento, e a costi ridotti, per parlare dei loro problemi potendo, in questo modo, come recita l’articolo, “superare l’imbarazzo dell’«ultimo miglio» vale a dire la telefonata a una segretaria, la diffidenza del primo incontro”.
Questa iniziativa non rientrerebbe, a rigore, nel campo di attenzione dell’Osservatorio Psicologia nei Media, se non per il fatto che viene segnalata su un giornale. Merita tuttavia di essere presa in considerazione perché mette in gioco il ruolo pubblico e la percezione della nostra disciplina e professione che è proprio ciò l’Osservatorio vuole monitorare. Immagine messa in gioco anche da recenti iniziative, che lasciano tanto sorpresi quanto perplessi, come quelle di certi psicologi che si sono inventati di vendere i loro servizi in “pacchetti” scontati su Groupon (ma l’Ordine sta per pronunciarsi in merito sulla falsariga di ciò che ha già fatto l’Ordine dei Medici).
Per quanto riguarda l’iniziativa milanese è indubbio che si presenta come tanto sorprendente quanto problematica, più che critica in senso stretto, nel senso che ha alcuni pro e molti contro.
Cominciamo dai pro.
E’ da accogliere con simpatia, lo spirito di iniziativa dei giovani colleghi in specie oggi che il mercato del lavoro (e non solo quello psicologico) è così drammaticamente fermo. In altri termini è da accogliere con benevolenza (non paternalistica), una certa qual fantasia nell’inventarsi nuovi modi di svolgere la professione.
E’ da condividere il tentativo di desacralizzare la psicologia togliendole un po’ quell’aura mistica, che talvolta permane presso il pubblico, e una certa soggezione che l’incontro col professionista può ingenerare in specie nelle persone un po’ più sprovvedute culturalmente, ma egualmente bisognose di aiuto. Magari questa iniziativa potrebbe andare incontro a tutti quegli extracomunitari che non sono bene informati sui servizi. E’ da apprezzare quindi lo sforzo di portare la psicologia verso un pubblico più vasto.
E’ ancor più da apprezzare che si vogliano demistificare e decolpevolizzare le problematiche personali presentandole per quello che sono: situazioni che fanno soffrire e che necessitano di un aiuto per essere risolte.
Ma, a fronte di questi pro, ci sono altri elementi che, a mio modo di vedere, sono criticabili: tre di ordine professionale e due di ordine strutturale.
In primo luogo trovo discutibile, molto discutibile, che, quando si parla di psicologia, qualcuno si presenti non solo come un “esperto”, ma addirittura come uno “che risponde”. Ho sempre pensato che la psicologia sia una scienza delle domande piuttosto che delle risposte. Ho sempre pensato che lo psicologo dovrebbe aiutare il suo interlocutore a trovarsi le risposte da solo, piuttosto che fornirgliele al posto suo, già confezionate. E ho sempre dubitato che lo psicologo sia un esperto. Esperto di che? Della condizione umana? Dei problemi della vita? In altri termini, presentarsi come persone che sono esperte e danno risposte, mi pare un tantino – come dire? – onnipotente e quindi tale da incrementare proprio quella falsa idea della psicologia, come di una scienza, onnipotente appunto, che tutto sa e per tutto ha risposte. Questo è proprio quell’atteggiamento così diffuso, così stigmatizzabile e, devo dire, anche così insopportabile, che si osserva in gran parte dei media quando si parla di psicologia. Perciò non si fa un bel servizio alla nostra scienza e alla nostra professione presentandola in tal modo, vale a dire si va a colludere proprio con le idee più sbagliate che spesso l’opinione pubblica ha della psicologia. Ora qui il problema è: sono consapevoli di questi rischi i giovani colleghi milanesi che si sono inventati la psicologia pret-a-porter on-the-road? O no?
In secondo luogo trovo discutibile il proporre “tariffe scontate” (vedi Groupon di cui sopra). E’ vero che si va verso la liberalizzazione delle professioni, l’abolizione degli Ordini, l’eliminazione delle corporazioni, la fine dei tariffari, la libera concorrenza, il meraviglioso futuro del libero mercato ovvero tutto ciò che renderà l’Italia una luminosa e moderna democrazia senza più debiti e deficit (quante cose può fare la libera concorrenza; o no?). Ma l’abbassamento delle tariffe con la scusa di aprire la psicologia a un pubblico più vasto e meno abbiente, e in un contesto/setting come quello descritto poi, mi sembra più una operazione da supermercato (prendi tre paghi due) che una operazione professionalmente qualificata.
In terzo luogo l’idea di aggirare la fatica della prima telefonata per superare “l’imbarazzo dell’ultimo miglio” mi sembra quantomeno ingenua. Infatti, com’è noto a chi svolge attività psicoterapeuta, la prima telefonata di un paziente apparentemente costituisce il primo momento per quanto riguarda il contatto con lo psicoterapeuta prescelto, ma, di fatto, è l’ultimo passo di un processo tutto interiore di riflessione cominciato da lungo tempo. In altri termini la prima telefonata presuppone un lungo lavorio psichico antecedente che implica una presa di coscienza delle proprie difficoltà e la scelta di volerle affrontare. Aggirare questo momento non è facilitare l’incontro, ma trasformarlo in una operazione superficiale, come se all’ingresso del “negozio psicologico” ci fosse un immaginario cartello con su scritto: entrata libera. Ma cosa si fa quando si entra liberamente in un negozio? si va a vedere, non necessariamente per comprare, piuttosto per mera curiosità. Ma questo è ben diverso che responsabilizzarsi rispetto ai propri problemi e ricercare un aiuto. Altro che ultimo miglio: qui non abbiamo iniziato neppure il primo passo.
Fin qui gli aspetti strettamente professionali. Ma ci sono, a mio modo di vedere, due radicali obiezioni da muovere che fanno riferimento ad aspetti strutturali di fondo, nel modo di intendere la psicologia e i servizi che eroga.
Mi trovo infatti totalmente dissenziente di fronte allo psicologo che parla genericamente di psicologia senza precisare di “quale” psicologia parla. Non si fornisce un bel servizio all’utenza in questo modo, anzi si incrementa la confusione e/o si fa una operazione manipolatrice. Sarei curioso di sapere se in questo tipo di servizio sono a disposizione del pubblico le informative sulle varie teorie, tecniche e metodi che gli psicologi usano e se, agli utenti, si spiega quali siano le teorie e i modelli clinici cui fanno riferimento quei colleghi, in linea con le direttive dell’Ordine Nazionale che, due anni fa, ha firmato un accordo con le associazioni dei consumatori proprio per salvaguardare gli utenti, non tanto da possibili abusi, ma da confusioni o disinformazioni. Fornire un servizio o una consulenza psicologica non vuol dire nulla: bisogna sempre precisare all’interlocutore quale specifico servizio viene fornito (psicodiagnostico, psicometrico, psicoterapeutico, consulenziale, didattico, formativo ecc. ecc.), e, soprattutto, dichiarare preliminarmente a quale modello, metodo e tecnica si fa riferimento. Personalmente penso che se uno psicologo non dichiara al suo utente, qualsiasi esso sia, il proprio modello di riferimento psicologico, sia uno psicologo di cui diffidare perché o non sa cosa sta facendo, o è impreparato, o è un manipolatore o pensa che il proprio modello sia l’unico valido. In ogni caso compie una operazione deontologicamente scorretta.
Dunque anche in questo caso parlare genericamente di servizio  psicologico non significa nulla.
L’altra obiezione che si può muovere a questa iniziativa (e ad altre consimili) è che, contrariamente alla loro apparente modernità, sono non solo riduttive ma “vecchie” perché riguardano solo e sempre la clinica nel senso più tradizionale del termine e non la capacità di inventare spazi nuovi, nuovi forme e nuovi compiti per la psicologia, al di là del rapporto duale in senso stretto. Nel recente testo di Claudio Bosio, Fare lo psicologo (pubblicato da Raffaello Cortina nell’ambito di una neonata collana professionale promossa dall’Ordine degli Psicologi del Piemonte), l’autore, sulla base delle sue ricerche condotte negli ultimi cinque anni sulla situazione della psicologia in Italia, mette clamorosamente in luce proprio questo dato, anzi questo limite degli psicologi odierni, ovvero la perdurante e inestirpabile abitudine a pensare la psicologia (e la stessa clinica) esclusivamente in termini di studio professionale, così da andarlo a riprodurre dovunque, anche laddove occorrerebbe immaginare nuove modalità di intervento psicologico e nuovi setting. Questo comporta di imparare a pensare e usare la psicologia, e la stessa clinica, più come funzione della mente che non come ruolo (mi si permetta al riguardo di citare il mio recente testo intitolato proprio Psicologia come funzione della mente. Paradigmi psicodinamica per le professioni di aiuto, UTET Università, Torino, 2009). Il che non significa negare il ruolo, anche legale, dello psicologo ma lavorare invece, come professionisti del settore, per promuovere capacità psicologiche (la funzione psicologica appunto) in ruoli che psicologici non sono. In questo tipo di iniziativa si che gli psicologi avrebbero molto da dire e anche, per parlare in termini più materialistici, un vastissimo e innovativo mercato, per giunta senza concorrenza di altre professioni contigue, com’è invece adesso per il campo della clinica individuale, dove si patisce la concorrenza, in buona o cattiva fede che sia, dei counselors e dei consulenti filosofici.
In conclusione allora che dire? Mi restano molti dubbi, per i motivi che ho indicato perché, malgrado l’apparente originalità, nella sostanza, l’iniziativa nasce concettualmente vecchia e per niente innovativa. Piuttosto un escamotage per fronteggiare la crisi del lavoro (che s’ha da fa’ pe magnà) e in particolare di quello psicologico. Comunque: vedremo.

Chiara Santi

Author: Chiara Santi

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4 Comments

  1. Egregio prof. Blandino,
    certo vedremo, ma vorrei cortesemente ricordarLe che proprio la psicologia ci insegna a diffidare di chi si considera- attraverso le sue osservazioni – depositario della Verità. Mi riferisco alle Sue considerazioni:” Personalmente penso che se uno psicologo non dichiara al suo utente, qualsiasi esso sia, il proprio modello di riferimento psicologico, sia uno psicologo di cui diffidare perché o non sa cosa sta facendo, o è impreparato, o è un manipolatore o pensa che il proprio modello sia l’unico valido. In ogni caso compie una operazione deontologicamente scorretta.” Cioè a dire se il paziente non risolve il suo problema non adattandosi al modello teorico di riferimento più o meno pedissequamente seguito dal terapeuta, tanto peggio per il paziente. Al riguardo mi permetto di farLe osservare che ogni intervento psicoterapico costituisce una “manipolazione” provvisoria del soggetto, ovviamente NON nel senso deteriore del termine, svelando successivamente in che cosa è consistita la “manipolazione” come insegnano la psicologia strategica-comportamentale e la PNL.
    Cordiali saluti.
    Luigi Romano

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  2. Cari colleghi,

    quando per la prima volta ho letto questa notizia, ho pensato che l’unica cosa poco azzeccata è il claim “L’esperto risponde”, perché non so se specifichi di quale categoria merceologica si tratti. Noi sappiamo che si tratta di esperti di psicologia umana, ovviamente, ma la gente dove lo trova scritto? immagino che da qualche parte lo si dica. Ma è nota di stile, e tutto sta in quanto e come questa formula attivi un circuito commerciale.

    Già… che brutta parola, “commerciale”. Eppure, una parte della nostra professione è commercio. Poi esiste qualcosa del magico rapporto fra due o più persone che travalica lo scambio commerciale per entrare nel mondo delle cose non comprabili. Come posso comprare la sincerità dell’ascolto? l’interesse? e come posso venderlo? in questo, siamo nella medesima posizione del barista o del benzinaio a cui raccontiamo qualcosa che ci ha colpiti nell’animo, perché troviamo l’impalpabile affettività delle relazioni umane.

    Non credo sia il negozio di psicologia il vero problema della psicologia. Semmai è l’illusione che un servizio psicologico di qualunque tipo, da quello clinico, a quello diagnostico, a quello neuropsicologico, fino a quello consulenziale di marketing, ergonomia o di orientamento di carriera, possa risolversi con un sapere tecnico. Ma questo è un peccato originale di tutta la psicologia, e nasce dal’università e dalle scuole, non certo dalla splendida iniziativa di questi intraprendenti colleghi a cui plaudo, perché finalmente hanno compiuto una scelta originale nel settore della clinica.

    La gente va dallo psicologo come va dal macellaio, affidandosi con un atto di fiducia che non si compra. La posizione del negozio e il tipo di pubblicità (Groupon, Google o lo sportello gratuito Caritas) sono variabili che influiscono sul primo incontro (scelgo i pelati Cirio o i pelati CONAD?), ma non sull’atto puramente relazionale che è la fiducia fra persone che stanno compiendo uno scambio commerciale.

    Sui prezzi, non so che dire. Ci si offre gratis da anni, e nessuno ha detto nulla. Non comprendo perché si debba dir qualcosa se ci si offre a prezzi bassi. Per quanto ne so, dopo qualche centinaio di pazienti seguito nei più diversi contesti, l’unica cosa che posso dire è che il prezzo spesso lo fa la relazione, il contesto, il cliente: ho chiesto molto denaro a pazienti che non ho amato, compensi ridotti a persone socialmente e psicologicamente bisognose, ho ridotto la frequenza piuttosto che i prezzi, ho regalato molto denaro a Pagine Gialle, non ho mai lavorato gratis, e trovo Groupon un buon metodo pubblicitario perché paghi solo se ti arriva il paziente (poi, chiaramente, diventa una questione relazionale in cui Groupon non c’entra più nulla).

    Le teorie… le tecniche. Si. L’informazione. Qualche paziente mi ha chiesto qualcosa in proposito, un paio di volte in dieci anni. Mai nelle istituzioni, sempre e solo in studio privatamente e solo da parte di persone molto preparate sulla teoria della psicologia, ovvero ben difesi e con una domanda manifesta di tipo tecnico, che nascondeva una domanda latente tanto affettiva quanto indicibile.
    I colleghi invece tanti, tutti. MI chiedono sempre che teoria seguo. Ma non ho il dono della fede, e quindi con un certo imbarazzo debbo rispondere che sono ateo, pur avendo visitato tutte le chiese e le moschee della nostra professione ed essendomi addirittura avventurato nelle terre ignote della filosofia della scienza, dove qualcuno mi ha detto che le teorie non sono modelli della realtà (come si pensava nell’800), ma accordi sociali e sindacali fra gruppi di lavoratori di un certo settore.

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  3. /
    Sono riconoscente alla persona che con la sua lettera ha aperto uno spazio di riflessione su un tema che mi sta a cuore, sollecitando le risposte della dott.ssa Gabriella Alleruzzo e del prof. Giorgio Blandino, che conosco e stimo per la sua competenza e per l’eticità della sua professionalità.
    Sono presidente dell’Associazione Area G di Milano, della quale fanno parte alcuni dei colleghi che hanno, prima pensato, e poi realizzato l’iniziativa “raccapricciante” cui fa riferimento la lettera.
    Ci tengo a sottolineare che scrivo in veste assolutamente personale. Desidero comunicare alcune sintetiche riflessioni rispetto alle questioni sollevate dalla lettera e dai successivi commenti/pareri, questioni che richiederebbero un confronto più ampio e diretto così come sarebbe importante entrare nel negozio e fare un’esperienza reale per valutare la professionalità e l’eticità dei colleghi che vi operano, e non fermarsi all’aspetto esteriore dello studio che, come tutti gli studi, può piacere più o meno, sollecitare fantasie differenti e veicolare un messaggio che può essere letto in tanti modi in relazione alle caratteristiche personali di ciascuno.
    Comunque al di là di questi aspetti di maquillage, mi sembra importante confrontarsi sul significato e sull’opportunità o meno di uscire dallo studio per andare incontro alle persone là dove esse sono. Si può vedere questo movimento verso l’esterno come un movimento costruttivo, che offre la possibilità di utilizzare un aiuto psicologico a persone che magari diversamente non ne fruirebbero, o come un movimento distruttivo per le persone e squalificante per la psicologia. Ci possono essere differenti argomentazioni tutte degne di attenzione, ma è sicuramente superficiale e riduttivo incasellare un’iniziativa di cui si conosce solo l’aspetto esteriore in un modo per far fronte alla “sottoccupazione” e per “fronteggiare la crisi del lavoro”
    Mi presento: la mia formazione è psicoanalitica in linea con la posizione, attualmente per lo più condivisa sia in ambito nazionale che internazionale, che sottolinea la necessità di un modello biopsicosociale complesso e sfaccettato, capace di cogliere la complessità dei fattori coinvolti nell’apparato psichico e di pensare-come sottolinea Raymond Cahn-al funzionamento psichico non solo in relazione alle vicende infantili, alle dinamiche intrapsiche, ma anche agli stimoli e ai messaggi che provengono dalla realtà esterna.
    La mia esperienza clinica e di formazione, oramai pluriennale, mi ha portato più volte a riflettere sul fatto che molto spesso le persone, in particolare gli adolescenti con i loro genitori o i giovani adulti, arrivano nei Servizi di salute mentale o negli studi professionali quando il sintomo è invalidante o quando la sofferenza psichica é devastante, pur avendo avuto precedentemente segnali di disagio che non hanno potuto/saputo cogliere non solo per resistenze di varia natura, ma anche per una mancanza di conoscenza o per una difficoltà ad individuare a chi potersi rivolgere. Sempre sulla base della mia esperienza ho riscontrato che è piuttosto raro, se si escludono gli addetti ai lavori, che le persone giungano al clinico dopo un “ processo tutto interiore di riflessione cominciato da lungo tempo” che li porta a scegliere di fare una psicoterapia. Certamente alcune persone arrivano con questo tipo di motivazione, ma si tratta di un numero esiguo di persone che hanno gli strumenti per svolgere quel “lavorio psichico”, che, come sottolinea il prof. Blandino con il quale su questo punto evidentemente concordo, è necessario per intraprendere un lavoro psicoterapeutico serio. Per molte altre persone, invece, è necessario essere aiutate a dare un abbozzo di senso a un malessere al quale non sanno dare un nome, a immaginare che si possa fare qualcosa per soffrire un po’ meno, a “responsabilizzarsi” rispetto ai loro problemi. Queste persone sono molto lontane dal’aver svolto quel lavoro intrapsichico che porta a fare la famosa telefonata e sono tanto più lontane dall’idea di scegliere un particolare psicoterapeuta. Non mi sembra perciò affatto “ingenuo” pensare di uscire dalla stanza per andare là dove queste persone sono e per offrire loro uno o più colloqui clinici-sottolineo clinci e non psicoterapeutici- per aiutarli a trovare una strada per prendersi cura di sé. D’altra parte non si tratta di un’esperienza isolata, sono oramai numerosissime l’esperienze attuate al di fuori della con ottimi risultati-io sono a diretta conoscenza soprattutto di quelle rivolte ad adolescenti ed ai loro genitori- ed è oramai condivisa la posizione che vede nella teoria psicoanalitica un modello di riferimento di indubbia ricchezza per interventi clinici che non necessariamente si traducono in un lavoro psicoterapeutico.
    Seguendo questa linea di pensiero io ritengo che sia di indubbia utilità sociale uscire dalla , quindi modificare il , costituito dall’insieme degli elementi spazio-temporali, dalle regole che creano la cornice per adattarlo ai contesti che le persone frequentano. Si tratta cioè di costituire di volta in volta setting esterni adeguati alle singole situazioni, mantenendo un setting interno flessibile ma psicoanaliticamente orientato. Ciò significa mantenere sempre attiva, riferendomi a Bion, , cioè un assetto mentale che antepone il comprendere , il pensare all’agire e che vede nell’altro, nel paziente il . E’ questo assetto interno che fa del clinico di formazione psicodinamica un “esperto”, cioè un professionista con una specifica preparazione che lo rende capace di utilizzare come strumento se stesso e di ascoltare la persona che ha di fronte non inquadrandola in schemi predefiniti, ma prestando attenzione a ciò che racconta, al suo modo di essere, di sentirsi, insomma alla sua soggettività, risultato della sua storia, delle sue esperienze, ma anche della cultura e delle caratteristiche sociali e valoriali in cui vive. Si tratta di una modalità di ascolto, frutto di una lunga e continua formazione personale, che ha l’obiettivo di aiutare l’altro a riflettere su di sé, a responsabilizzarsi, a cercare le proprie risposte, a individuare ciò di cui ha bisogno per poter soffrire meno e-osando un po’-per poter vivere meglio . Questo professionista è molto distante dal’esperto “onnipotente” che offre risposte preconfezionate: è un professionista che aiuta a utilizzare gli strumenti che ciascuno ha per poter pensare a se stesso.
    Ringrazio ancora molto per gli stimoli e lancio una proposta: perché non organizzare una giornata di studio su questo tema?
    Eugenia Pelanda

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  4. Gli “Esperti” RISPONDONO:

    Ringraziamo i colleghi dell’attenzione posta all’articolo inerente il nostro progetto e cogliamo l’occasione del dibattito apertosi in merito per presentarci: siamo un’équipe di psicologi e psicoterapeuti provenienti da esperienze e campi di applicazione differenti che operano da svariati anni in strutture sia pubbliche che private del territorio di Milano e hinterland. Condividiamo la stessa formazione presso la scuola di specializzazione in psicoterapia psicodinamica per adolescenti e adulti Area G di Milano (www.areag.net) che ci ha fin da subito sostenuto nel portare avanti il progetto dandoci il loro patrocinio. La scuola, con sede a Milano, dal 1991 si occupa del benessere psichico di adolescenti ed adulti, attraverso attività di ricerca, prevenzione, interventi clinici e formazione.

    Quando abbiamo aperto il servizio, eravamo consapevoli che avremmo incontrato/affrontato il pregiudizio che il basso costo sia sinonimo di bassa qualità, come anche i luoghi commerciali che, come sottolineava il collega Blandino, propongono spesso lo stile tre per due. Troppo facili queste associazioni per non scattare subito nella mente almeno di alcuni di quelli che avessero visto il nostro negozio psicologico: ce lo aspettavamo, così come la possibilità di essere soggetti a troppo facili critiche. Abbiamo comunque pensato di affrontare questi luoghi comuni sicuri del servizio di qualità che proponiamo.

    Come sostiene la Dott.ssa Alleruzzo: “le iniziative che mirano a inserire maggiormente gli psicologi nel tessuto sociale sono interessanti e meritano un’osservazione ravvicinata, evitando giudizi affrettati”. La scelta della location (sotto gli occhi di tutti) presuppone proprio questa possibilità di confronto, dibattito, parola, incontro anche solo per la curiosità, anche se scettica, di capire di cosa si tratti.

    PSICOLOGOACCANTO (questo il nome del nostro progetto) nasce dalla scelta di assumere un assetto mentale flessibile e aperto al nuovo per accogliere ed integrare i cambiamenti dell’epoca moderna e adattarsi alle sue nuove esigenze, proponendosi all’utenza con modalità fruibili, accessibili e inserite nel tessuto quotidiano.

    Esiste un “bisogno di psicologia” che non sempre trova risposte all’interno dei tradizionali spazi di cura: noi ci proponiamo come luogo intermedio tra i servizi socio – sanitari pubblici e gli studi privati degli psicologi con l’intento di offrire uno spazio psicologico che vada incontro alle persone ed ai loro contesti di vita quotidiana: farci trovare lungo le strade e nei luoghi che le persone frequentano quotidianamente.

    Il nostro intento è quello di essere facilmente accessibili non per imporre, ma per offrire. Offrire un’esperienza di ascolto attento e di qualità, in uno spazio ad accesso libero e costi contenuti.

    Il fatto che si possa entrare per “curiosare” crediamo possa essere un vantaggio in quanto possibilità di attivare o facilitare nuove richieste di aiuto anche da parte di coloro che, per svariati motivi, non accedono agli spazi di cura tradizionali.
    Nel momento in cui un paziente “si affaccia” e, con uno “psicologo accanto” riesce anche solo ad essere un po’ più consapevole di aver bisogno di aiuto crediamo di poter dire di aver iniziato un buon lavoro…

    Vorremmo proporci agli utenti come osservatorio su di sé, come lente di ingrandimento emotiva, alla ricerca di nuove chiavi di lettura, proponendo un confronto che speriamo sia utile a meglio utilizzare gli strumenti che ciascuno ha per poter pensare a se stesso senza alcuna onnipotente velleità.

    Vorremmo entrare nella cultura della nostra società dicendo che non tutti quelli che hanno una domanda da fare sono pazzi o malati. ‘Saper chiedere’ può talvolta aiutare semplicemente a vivere meglio.

    Concordiamo pienamente con l’intervento della Dott.ssa Pelanda e con l’opinione del collega Federico Zanon, soprattutto in merito all’ultimo capoverso legato alla chiarezza di tecniche e teorie di riferimento.

    Restiamo sempre aperti a dibattiti costruttivi e ringraziamo l’Osservatorio Psicologia nei media per averci dato l’opportunità di spiegare più nel dettaglio chi siamo e come lavoriamo.

    Cordiali saluti
    L’équipe di “Psicologo-Accanto”.

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