Dove sta andando la Psicoterapia
Piera Serra e Luigi D’Elia
La natura delle psicoterapie e il loro destino sono quesiti che meriterebbero più di un ampio trattato: filtreremo pertanto alcune questioni qui salienti. Circa il che cos’è la psicoterapia, anziché riportare l’ampia letteratura espressa dalle diverse scuole, faremo riferimento al patrimonio di know-how della comunità degli psicoterapeuti. Per la questione del futuro della psicoterapia, anziché ripercorrere le iniziative relative alla sua collocazione istituzionale nei vari paesi, cercheremo di decifrare le tendenze in atto facendo riferimento a quanto emerge dall’esame delle segnalazioni che ci pervengono: vedremo come le distorsioni della realtà operate dai media quando si parla di psicoterapia veicolano al pubblico un medesimo, ripetuto messaggio.
Ebbene, sappiamo tutti quanto diverso possa essere il modo di lavorare di uno psicoterapeuta rispetto all’altro, per le differenze di formazione e per quelle di stile. Tuttavia gli psicoterapeuti concordano su alcuni punti: che la psicoterapia è un processo interpersonale finalizzato a un cambiamento psicologico profondo utile al superamento di una sofferenza, di una difficoltà o di una impasse, nel quale ogni decisione circa il se, perché, come e per quanto tempo è contrattata fra terapeuta e utente (contratto terapeutico). Risultano quindi conditio sine qua non della psicoterapia sia la partecipazione attiva dell’utente sia l’autonomia decisionale del terapeuta.
Se queste sono le coordinate dell’incontro tra il terapeuta e il cliente da cui prende forma ogni psicoterapia, esaminando i prodotti mediatici che vengono segnalati al nostro Osservatorio vediamo profilarsi il rischio di uno scenario piuttosto inquietante.
La psicoterapia viene menzionata all’interno di una sequenza logica che si ripete nei vari prodotti mediatici con una regolarità sorprendente. Vi sono due modalità di rappresentazione mediatica. In entrambi i casi si fa ricorso a un’intervista allo psichiatra o al neurologo e spesso vengono utilizzate immagini anatomiche come sezioni del cervello con aree colorate che dimostrerebbero la localizzazione dell’origine della patologia (sull’ambiguità di queste immagini, vedi, in questo sito, A. Benini, 2009 e A. Barracco, 2009). Inoltre, sempre viene citata esclusivamente la psicoterapia cognitivo comportamentale (CBT).
La rappresentazione più frequente è all’interno di un discorso che parte con la descrizione di un disturbo psichico, a volte una reale patologia, a volte la patologizzazione di un fenomeno normale come la paura di arrossire o la tendenza all’ansia. Si colloca poi l’origine principale del disturbo in disfunzioni della biochimica del cervello, con argomentazioni che talvolta contengono qualcosa di scientifico, ma più spesso sono solo ipotesi, quando non mere fantasie. Viene quindi sottolineata l’importanza dell’intervento farmacologico precoce e, infine, viene menzionata la CBT come utile o necessario complemento della terapia farmacologica: essendo la causa della patologia collocata innanzitutto nella sfera biochimica, la sua funzione finisce per apparire comunque accessoria. Tanto più che, come è stato dimostrato, quando il fenomeno psichico è abbinato a quello biologico, il primo resta sullo sfondo: la causa vera, certa e aggredibile appare quella biologica (P. Legrenzi e C. Umiltà, 2009).
Un’altra modalità divulgativa, di questi ultimi mesi, è la “notizia” che è stata dimostrata l’utilità della psicoterapia. Come? Attraverso l’uso della diagnostica per immagini per l’esame del cervello del cliente prima e dopo la cura. Per esempio, un utente affetto da una fobia specifica (A. Rossi, 2009) o clienti con disturbo ossessivo compulsivo o depressione (A. Beltramini, 2009) mostrano, all’esame eseguito prima e dopo la CBT, differenze specifiche. E come viene spiegato il fenomeno? Neppure un cenno al fatto che le modificazioni cerebrali rilevate possano essere il correlato di un cambiamento di pensiero ed emozioni a sua volta esito di una diversa relazione del soggetto con sé stesso e con l’altro da sé. La variazione visualizzata dopo la psicoterapia viene spiegata riaffermando l’origine principale della patologia all’interno del cervello: “la psicoterapia è in grado di modificare l’attivazione di aree specifiche cerebrali, permettendo all’individuo di gestire meglio le emozioni negative”, “ricerche con il neuroimaging hanno fotografato in pazienti depressi la ‘normalizzazione’ dell’attività cerebrale dopo una psicoterapia di qualche mese: l’effetto è paragonabile a quello dei farmaci antidepressivi, con precise basi biologiche” (A. Rossi, 2009). Nel caso di una compulsione a lavarsi le mani, “il circuito cerebrale ‘malato’ comprende la corteccia orbitofrontale, il giro cingolato anteriore e il nucleo caudato. La terapia introduce l’idea di andare in giardino invece di andare in bagno, attivando il circuito della pianificazione che coinvolge la corteccia prefrontale: … l’impulso biochimico può viaggiare nella via ‘andare in bagno’ o ‘andare in giardino’… Man mano che la terapia avanza, la via del giardino si rafforza… A fine terapia il paziente va regolarmente in giardino senza alcuno sforzo: il metabolismo cerebrale è cambiato” (A. Beltramini, 2009).
Ora, per dimostrare che una psicoterapia serve, è sufficiente una valutazione basata su interviste: ciò che viene divulgato è, invece, che la prova dell’utilità delle psicoterapie deve essere ricercata nel cervello degli utenti con una risonanza magnetica funzionale prima e dopo la cura. Mentre nella modalità divulgativa precedentemente descritta la CBT viene legata alla prescrizione di farmaci come fosse un complemento di tale terapia, in questa modalità divulgativa viene legata all’esame neurodiagnostico come se esso servisse per verificare se la psicoterapia ha ottenuto il risultato sperato.
Esito di entrambe le modalità di presentazione o, meglio, di affabulazione, è che la psicoterapia, nel momento in cui è valorizzata, è posta in subordine a prestazioni mediche.
Non è un caso che il neurologo o lo psichiatra intervistato dai media regolarmente si spinga a definire la durata che deve avere una psicoterapia per questo o quel tipo di patologia, come fosse una fisioterapia o un corso di psicoeducazione, ignorando che nelle psicoterapie i tempi sono in parte imprevedibili e comunque concordati caso per caso tra terapeuta e cliente all’interno del contratto terapeutico. Da rilevare che la CBT è regolarmente presentata come una terapia che agisce in poche settimane o pochi mesi anche per disturbi gravi. E nelle rare occasioni in cui a proposito di psicoterapia viene intervistato uno psicologo (S. Ginanneschi, 2009; A. Retico, 2009), vengono presentate tecniche in grado di offrire improbabili risultati stupefacenti nel giro di pochissime sedute.
C’è allora da domandarsi a chi e a che cosa questo battage possa giovare.
Ebbene, innanzitutto esso ha oggettivamente implicazioni economiche; infatti è di utilità alle industrie farmaceutiche: è evidente che gli psicofarmaci associati alla psicoterapia assumono un’immagine di maggior affidabilità. Inoltre, se l’operazione di inglobamento della psicoterapia nel campo medico avesse successo, l’approccio psicologico non sarebbe più un’alternativa. In terzo luogo, l’idea che si possano verificare con esami del cervello gli eventuali effetti di una terapia potrebbe incrementare l’acquisto degli esami di neuroimaging.
Tuttavia i motivi del battage possono essere anche ricercati altrove: nel grande cambiamento culturale indotto proprio dall’impulso impresso alla ricerca dalle tecniche di neuroimaging. Le immagini del cervello, con i disegni delle localizzazioni, in esso, di emozioni e pensieri, anche se spesso sono il mero esito pseudoscientifico di affabulazioni, stanno procurando all’idea di “mente” quello che l’immagine dell’embrione in provetta ha prodotto per l’idea di “vita” (sull’ecografia in gravidanza vedi B. Duden, 1994): ciò che era il significante di un’entità sfumata nei contorni spaziotemporali, misteriosa, immersa in una rete di relazioni, diventa sostanza racchiusa da un cranio/provetta, leggibile in tutti i suoi strati fino allo spessore della più piccola particella, assolutamente individuale.
Una conseguenza, per quanto riguarda la gestione istituzionale delle psicopatologie, è che l’ambito del non-organico, che contrassegna la competenza dello psichiatra vs il neurologo, tende a scomparire. Da qui la necessità, per lo psichiatra, di recuperare la competenza sul non-organico in ambito terapeutico: nelle psicoterapie. Ecco dunque la valorizzazione della psicoterapia e, contestualmente, il battage sui piani terapeutici integrati (psicofarmaci più psicoterapie) o la faccenda degli esami al cervello prima e dopo la psicoterapia.
La conclusione di queste considerazioni potrebbe essere che l’importante è che la psicoterapia sia accessibile a chi ne ha bisogno, non importa se psichiatrizzata. Peccato però che per farla rientrare all’interno della competenze della psichiatria la si debba ridurre a strumento terapeutico subordinato a una diagnosi medica. E peccato che a tale scopo debbano compiersi tre falsificazioni, che ritroviamo regolarmente nei prodotti mediatici: la prima è la individuazione della origine principale di ogni psicopatologia in disfunzioni biochimiche cerebrali. La seconda, conseguente alla prima, è la riduzione delle psicoterapie stesse a interventi di natura psicopedagogica o, come negli esempi sopra riportati, a una sorta di riabilitazione cerebrale. La terza, corollario delle precedenti, è l’aspettativa che le sedute terapeutiche debbano procurare benefici in poco o pochissimo tempo.
Si tratta di deformazioni che possono snaturare la psicoterapia rendendola inefficace: come potrà un cliente coinvolgersi nel lungo, complesso e faticoso processo di cambiamento relazionale necessario per superare l’origine del disturbo, quando è stato convinto, insieme ai suoi familiari, che la causa principale di tutto è in una disfunzione cerebrale?
Non meraviglia che così frequentemente l’unica psicoterapia indicata come scientificamente dimostrata valida sia la CBT e che soprattutto su di essa vengano fatte le verifiche di efficacia con studi controllati randomizzati (ovviamente, con intervalli di tempo per la verifica degli esiti che possono essere persino di 12 settimane per la depressione cronica: vedi per esempio J. C. Kelly, 2009): per il loro statuto epistemologico, le scienze cognitive e comportamentali su cui la CBT si fonda possono apparire le più assimilabili tra le scienze psicologiche alle scienze positive e quindi le più facilmente integrabili al linguaggio delle scienze mediche. Inoltre, le tecniche cognitivo comportamentali che prevedono interventi quali il problem solving centrato sulla situazione attuale, le prescrizioni comportamentali, l’intervento di desensibilizzazione all’esterno della stanza di terapia, possono apparire assimilabili a tecniche psicopedagogiche.
In realtà, tutto ciò è vero solo in minima parte: gli psicoterapeuti CBT non sono più “scientifici” degli altri psicoterapeuti se non per il fatto che compiono verifiche degli esiti dei propri interventi forse con maggior scrupolo e forse con strumenti standardizzati più completi. Inoltre, i vari interventi terapeutici, anche quando esteriormente appaiono meramente mirati all’insegnamento di singoli comportamenti, all’interno del rapporto terapeutico fanno invece parte di un processo complesso, che mira quando possibile al cambiamento degli schemi profondi che si presume siano stati acquisiti nelle relazioni significative precoci e possano sostenere i sintomi patologici.
Pertanto purtroppo neppure la CBT sarebbe in grado di sopravvivere incolume all’assimilazione alla medicina.
Gli psichiatri coinvolti in questi eventi mediatici pubblicizzano dunque un prodotto fasullo che entra in competizione con le psicoterapie vere: una psicoterapia che agirebbe “scientificamente” e in poche sedute o pochi mesi.
Ciò che è stupefacente è il silenzio delle comunità nazionali e internazionali degli psicoterapeuti in questa graduale deriva verso l’annullamento.
Bibliografia
Giorgio Agamben, Signatura rerum, Bollati Boringhieri, 2008
A. Barracco, “Neuroimaging e soggettività”, OPM.
Amelia Beltramini, “Liberare la mente”, Focus, Dicembre 2009. In “I limiti della Neuroimaging“, OPM
Barbara Duden, Il corpo della donna come luogo pubblico, Bollati Boringhieri, 1994
Sara Ginanneschi, “L’instant therapy? Chiamiamola instant counselling”, OPM.
Janis C. Kelly “No Added Benefit of Adjunctive Psychotherapy to Antidepressants Alone in Chronic Depression”, Arch Gen Psychiatry. 2009;66:1178-1188.
Paolo Legrenzi e Carlo Umiltà, Neuromania, Il Mulino, 2009
Alessandra Retico, “Ipnosi, è boom fa bene al sesso e aiuta la carriera”, La Repubblica, 6 Settembre 2009. In “L’ipnosi fa miracoli?“, OPM
Andrea Rossi “La psicoterapia cambia il cervello”, La Stampa, 23 settembre 2009.
19 dicembre 2009
sono daccordo con quanto affermi…aggiungo che se dessimo piu valore all’energia-essere- psiche umana (in sfera d’azione ecosistemica) potremmo tutti beneficiare di una migliore stabilita’invece che di crisi d’identita’, inquinamento psicoecosistemico,rivalita’inutile e guerre non solo sul piano cosiddetto scientifico ma anche intrapersonale, coniugale…condominiale..
e chiedo cosa accadrebbe se un qualche forma di psicoterapia basata solo sulla coscienza della psiche autogena) dimostrasse di risolvere un morbo di Chron, una grave insufficienza mentale,una colite ulcerosa in stato preoperatorio..o altri disturbi somatici, prodromici o post ad eventuali traumi fisici…insomma s’inchinerebbero forse i medici a studiare il perche’ di un nuovo evidente approccio o attaccherebbero il malcapitato al solito spiedo da rogo dissotterrato da piazza campo dei fiori dopo l’ultimo utilizzo con G. Bruno? ma il quesito vale anche per quei colleghi psicologi asserviti mentalmente all’ineluttabilita’del modello medico meccanoriduzionista.
20 dicembre 2009
Non riesco a capire l’antitesi organico non-organico, onestamente credo che le ultime ricerche abbiano ampiamente dimostrato la totale confluenza dei due termini in un unicum che e’ l’individuo con mente e cervello.
cio’ che lei cita come difetto delle neuroimmagini puo’ essere commentato e criticato in altri termini: e’ difficile individuare segmenti di un trattamento complesso da separarae in un prima e dopo.
cio’ che invece mi preoccupa ancora, e’ questa definizione degli psicoterapeuti CBT, laddove si dice
“In realtà, tutto ciò è vero solo in minima parte: gli psicoterapeuti CBT non sono più “scientifici” degli altri psicoterapeuti se non per il fatto che compiono verifiche degli esiti dei propri interventi forse con maggior scrupolo e forse con strumenti standardizzati più completi. ”
il punto e’ proprio questo e non e’ da scartare come insignificante vantaggio dei CBT: in tutte le terapie di ogni genere il punto di partenza deve essere stabilito e se si vuole parlare di percorso bisogna anche individuare un end-point. il punto di partenza non puo’ prescindere da alcune variabili: la valutazione del quoziente intelletivo e di alcune scale standardizzate sullo stato mentale e personologico. Ho visto purtroppo un numero eccessivo di adolescenti trattati per 3-5 anni da psicoterapeuti che non hanno indagato queste aree, e si sono rivelati poi affetti da ritardo mentale lieve, su cui mi domando quale sia stata l’impostazione e l’interpretazione delle sedute. e vedo ancora oggi bambini con Disturbi pervasivi dello sviluppo e loro genitori trattati con improbabili psicoterapie dinamiche analitiche e quant’altro, salvo poi essere lasciati nel nulla quando i disturbi comportamentali diventano ingestibili.
il punto, quindi non e’ che un approccio e’ meglio dell’altro. il punto e’ che prima di scegliere un terapeuta il paziente ha diritto ad accedere ad una diagnosi e ad un’impostazione rispettosa di quella diagnosi. e ha diritto di sapere quale sara’ l’investimento emotivo ed economico che dovra’ affrontare. Cito volutamente l’investimento economico perche’ mi sembra che le stia a cuore, ma non darei la responsabilita’ dell’interesse solo alle case farmaceutiche, visto che anche la psicoterapia ha dei costi notevoli, che potrebbero indurre un interesse nella categoria. Esistono linee guida che forse saranno influenzate dalla evidence-based medicine, (per me questo non e’ uno svantaggio, ma per altri potrebbe esserlo) ma almeno fanno un tentativo di strutturare e mirare gli interventi. credo che la chiusura nella lotta organico/non-organico o neurologo/psicologo/psichiatra sia inutile oltre che dannosa alle categorie di professionisti tutti e soprattutto ai pazienti a cui vengono date indicazioni proibizionistiche. sarebbe utile invece affrontarsi sul piano dei risultati, misurabili in qualunque modo purche’ si esca dalla autoreferenzialita’ di molti approcci (incluso quello farmacologico) e rimanere concnetrati sull’idea di equipe multidisciplinare in cui ogni professionista e’ rispettoso della sfera dell’altro e insieme si punta al paziente, piuttosto che alla difesa della categoria.
Io sono un neurologo e lavoro con psichiatri e psicologi in un’ottica di equipe e sono contraria alle lotte ideologiche di qualunque genere.
18 gennaio 2010
@luisa,
Sono perfettamente d’accordo con il commento del neurologo (Luisa. Ho visto troppi casi ad es. di Disturbi Specifici dell’Apprendimento che venivano “curati” da psicoanalisti, a mio avviso senza scrupoli, che sostenevano che una psicoterapia di stampo adleriano avrebbe risolto il problema, oppure medici di base che somministravano benzodiazepine per periodi indeterminati a pazienti con forte ansia causando irresponsabilmente più guai che rimedi. Concordo pienamente con l’idea che sia di fondamentale importanza ottenere una diagnosi precisa, possibilmente da più punti di vista. Solo un lavoro di equipe può tutelare il paziente da una parte e la serietà del professionista dall’altra. Svolgo la professione di psicologo, e lavoro in uno studio associato, fianco a fianco con una psicoterapeuta cognitiva, ma ci avvaliamo della collaborazione di uno psichiatra e di un neurologo. Siamo in contatto con grafologi, pedagogisti e insegnanti ogniqualvolta ciò serva. Insomma, la professionalità non può prescindere dall’umiltà. Così come non voglio che un neurologo faccia male il mio mestiere non vedo perchè io debba fare male il suo. La collaborazione è la risposta.
Damiano M.
20 dicembre 2009
Cara Luisa,
l’Editoriale di questo mese non concerne assolutamente la vecchia diatriba organico vs non organico, bensì l’uso mediatico delle recenti scoperte della neuropsicologia.
Per la questione mente/cervello abbiamo preferito citare quanto sul nostro stesso sito scrivono scienziati come il professor Benini e il professor Umiltà i quali riaffermano l’unicum, ma contestualmente mettono in guardia dal dar credito alle immagini delle scansioni del cervello trasmesse oggi dai media: le aree colorate sono solo ipotesi di localizzazione. La neuroimaging offre oggi la possibilità di compiere piccoli sondaggi in un pianeta ancora inesplorato: giustamente siamo tutti entusiasti, ma la divulgazione al pubblico di quelle immagini proposte come se dessero la possibilità di vedere pensiero ed emozioni nel cervello è una mistificazione fuorviante. L’Editoriale concerne le osservazioni che su queste mistificazioni abbiamo potuto compiere qui, nella nostra redazione OPM, grazie alle segnalazioni dei nostri lettori-collaboratori.
Su tutto ciò consiglierei vivamente la lettura di Neuromania (Legrenzi e Umiltà, Il Mulino, 2009, 9 euro). Leggo a p. 72: “Se il parlare del corpo si mescola con il parlare della mente, il corpo diventa ‘figura’ e la mente fa da sfondo”. Si tratta di una legge del funzionamento della comunicazione che gli operatori dei media ben conoscono e utilizzano.
Quanto poi al lavoro di équipe, lei sfonda un’altra porta aperta: esso fa parte da sempre del patrimonio professionale sia degli psicologi sia degli psichiatri: è proprio perchè vorremmo che continuasse che ci scandalizza il tentativo di far apparire una subordinazione dell’operatività degli uni agli strumenti diagnostici degli altri, subordinazione che in realtà non esiste.
Per quanto riguarda la scientificità degli psicoterapeuti CBT la ringrazio vivamente per la sua critica, che ci da occasione di chiarire meglio: quanto abbiamo scritto non intendeva sminuire l’importanza di usare metodi scientifici da parte degli psicoterapeuti. Anzi, proprio con la NewsLetter di questo mese lanciamo un dibattito sull’argomento. Il punto è che ormai, forse anche grazie all’esempio offerto dai CBT, tutti gli psicoterapeuti comprendono l’importanza di saper usare strumenti standardizzati per produrre la diagnosi e sempre più si sta diffondendo il buon uso di interviste o altri strumenti di valutazione degli esiti del trattamento. Si pensi che per i più renitenti recentemente l’Ordine degli psicologi dell’Emilia Romagna ha addirittura messo a disposizione un dispositivo elettronico gratuito.
Pubblicizzare i CBT come gli unici psicoterapeuti che utilizzano metodi scientifici è scorretto.
Dunque, sperando di aver risposto adeguatamente alle sue obiezioni, la ringrazio ancora per il suo commento.
21 dicembre 2009
Trovo l’Editoriale particolarmente interessante per il contenuto trattato e per la chiarezza di esposizione.
Per quanto riguarda la CBT, proprio in Italia, rispetto ai Paesi anglosassoni c’è una maggior ‘consapevolezza’ della complessità del proprio intervento, per cui certi Autori rappresentativi di questo approccio cognitivista parlano dell’importanza di agire in relazione alle “conoscenze ” (schemi emotivi, strategie relazionali ecc.). Non essendo di tale formazione (cognitivo-comportamentale) non so nella pratica come stiano veramente le cose (mi sono limitato a citare da un testo: “Psicologia clinica: trattamenti in setting individuali” a cura di Del Corno e Lang, Franco Angeli).
Un altro punto interessante dell’Editoriale è quando fa un discorso più ampio, culturale, sul riduzionismo della mente a un’immagine del cervello, così come la vita viene ridotta a un’immagine dell’embrione; nella nostra formazione psicologica/tecnica difficilmente siamo abituati a riflettere su aspetti ‘filosofici culturali’, mentre invece sono direttamente collegati alla nostra professione, in relazione all’impatto socio-culturale che ha.
Infine, per quanto riguarda la multidisciplinareità, sono un pò perplesso: dalla mia limitata esperienza, ma anche sentendo colleghi con altri vissuti e di regioni diverse, spesso la figura dello psicologo, quando c’è, è comunque trattata come subordinata ad altre figure, sicuramente informalmente ma anche formalmente.
22 dicembre 2009
Errore di stampa
in quanto ho scritto è ‘saltata’ una parola (non so perchè non è stata inserita). La frase è “conoscenze tacite” intese come non consapevoli, legate al vissuto emotivo globale dell’individuo.
22 dicembre 2009
Io ho sempre molto timore della “evidenza” di cui si ammantano alcuni trattamenti.
Nasconde solo il tentativo di imporsi sugli altri. Evidente? a chi? Meglio a volte un sano e consapevole dubbio sui limiti di quanto facciamo.Mantenere viva la curiosità e lo spirito di ricerca.
In ogni caso sinchè definiremo la psicologia clinica utile per intervenire su disturbi/malattie, secondo il modello medico, implicitamente sarà sempre più valido il trattamento orientato al modello medico. Perchè ad esso è orientato anche il modo di verifica degli interventi.
Già, è diverso se cechiamo di intervenire su un “disturbo d’ansia” o su una neomadre adolescente che, abbandonata dal ragazzo alla notizia della gravidanza, si ritrova alle prese con le “attenzioni” della madre e dei suoi familiari…… ecc. (ha appena lasciato il consultorio dove lavoro). Interveniamo sulle patologie “mediche” o sulle capacità di pensare sulle proprie motivazioni e affetti’
Concordiamo tutti sulla necessità di diagnosi complete, cara Luisa. Ma perchè quando si trascura la lettura delle emozioni, dei tratti di personalità “non fa niente, è come se la diagnosi fosse completa lo stesso”?
O no?
Giuseppe Fucilli
psicologo-psicoterapeuta
23 dicembre 2009
Rispetto al commento che precede vorrei esprimere forti dubbi.
In psicologia clinica non si interviene su patologie mediche, ma su psicopatologie, cioè su un livello ben diverso: non organico ma funzionale, in relazione a ciò che è mentale. Quando questo livello è disfunzionale tale da compromettere la salute globale della persona,inevitabilmente l’intervento si colloca su un piano propriamente di salute mentale: proprio in questi casi lo psicoterapeuta deve essere un operatore sanitario (medico o psicologo). Se così non fosse, se cioè il livello dei disturbi mentali non avesse bisogno di tale specificità, allora l’intervento d’aiuto non avrebbe bisogno di una figura con competenze così specifiche: di fatto però i disturbi mentali richiedono un know-how tecnico in senso proprio che non è riconducibile a capacità solamente educative o empatiche generiche.
Per quanto riguarda l’evidenze, queste sono necessarie innanzitutto per rispetto deontologico nei confronti dell’utente, paziente o cliente: gli garantisco che il mio intervento sarà utile per il suo benessere, e non semmai nocivo. Daccordissimo sul mantenere la consapevolezza che in campo psicologico le evidenze difficilmente saranno ‘tali’: un cambiamento a livello di neuro-immagine non mi garantisce che mi sento psicologicamente meglio!, ma anche su questo aspetto, se per ipotesi si dovessi dimostrare una forte correlazione fra modificazioni nei circuiti neuronali e miglioramento psicologico dopo psicoterapia, personalmente mi rivolgerei ad approcci psicoterapeutici che hanno avuto tali evidenze!, piuttosto che a quelle che non ne hanno avuto di nessun tipo.
Se l’ormai lunga storia della pratica psicoterapeutica non avesse mostrato serie difficoltà di efficienza in alcune aree di intervento, la psicoterapia non subirebbe attacchi così ‘violenti’ rivolti alla sua stessa ragion d’essere. Ma questa povertà epistemologica deriva proprio dalla complessità del mentale, che è ricchezza, risorsa, quando vissuto positivamente. Non si risolve il problema abolendo la psicoterapia, per rincorrere, è vero, false certezze: bisogna imparare a convivere col dubbio e la normale sofferenza, e mantenere sempre il confronto dialettico; ciò sia che si fornisca aiuto o che lo si richieda.
4 gennaio 2010
si, in quanto futura psicoterapeuta, sono all’ultimo anno di scuola, ritengo importantissimo il meccanismo culturale che è stato individuato dall’articolo, questi signori che vogliono ridurre tutta la complessità di una psicoterapia a mero fenomeno neurologico rientrano in quell’ideologia del pensiero unico che deve ridurre tutto allo scientifico, lo ritengo un approccio pericoloso proprio per noi psicoteraputi non cognitivisti che forniamo un servizio irriducubile ad una misurazione positivistica dei nostri risultati..sarebbe importante contrastare questo fenomeno, con una comunicazione più efficace da parte del mondo della psicologia che può essere data solo da un forte corporativismo che è ben lontano da quello che si vede oggi nella nostra comunità professionale, purtroppo.