Q.I. E MALATTIE INFETTIVE: una nuova frontiera per lo studio dell’intelligenza e della stupidità

Parere del Prof. Santo Di Nuovo

Periodicamente si assiste al solito lancio di stampa che riguarda l’intelligenza e qualche suo correlato che gli scienziati ritrovano mediante solide ricerche empiriche. Qualche tempo fa la relazione riguardava la collocazione geografica (nord-sud Italia) e altre variabili sociali (istruzione, nutrizione, persino altezza). Stavolta lo strillo di agenzia è “Le malattie infettive abbassano il quoziente intellettivo”.

Entrando nel merito leggiamo: “Le malattie infettive colpiscono inaspettatamente anche il cervello e mettono a rischio tutte le persone che vivono nei paesi più poveri del mondo, dove il tasso di malattie infettive è risultato strettamente correlato al quoziente intellettivo medio della popolazione. E’ quanto emerso da uno studio della University of New Mexico, Albuquerque, pubblicato dalla rivista Proceedings of the Royal Society – Biological Sciences (n. 277 – 2010).

“Sviluppare e mantenere il cervello nei neonati richiede l’87% dell’energia di tutto il corpo, mentre nei bambini di 5 anni richiede il 44%. Al contempo combattere un’infezione costa un’enorme quantità di energia che di conseguenza nei bambini viene tolta da quella necessaria per sviluppare il cervello. I ricercatori hanno analizzato i dati provenienti da 192 paesi in tutto il mondo ed è emerso che nei paesi in cui è più alto il rischio malattie infettive il quoziente intellettivo è mediamente più basso. Le malattie sono risultate più strettamente legate al quoziente intellettivo rispetto a ogni altra variabile, come il PIL, l’istruzione, la nutrizione”.

Stimolato dalla originalità della spiegazione del perché si abbassa il livello intellettivo delle persone (se me l’avesse detto un collega al bar, non ci avrei creduto) sono subito partito alla ricerca della fonte, cioè dell’articolo originale, che è stato pubblicato online in anteprima rispetto alla versione cartacea. E scopro così il primo miracolo: gli autori (Christopher Eppig, Corey L. Fincher e Randy Thornhill), sono tre biologi che sono riusciti a farsi pubblicare l’articolo su una rivista con elevato ‘fattore d’impatto’ dunque con rigoroso e severo sistema di referee, in soli 33 giorni: l’articolo risulta infatti ricevuto il 6 maggio 2010 e, dopo una revisione per la quale gli autori ringraziano i referees, accettato – e immediatamente pubblicato – il 9 giugno. Miracolo, perché in genere una pubblicazione su riviste del genere richiede mesi (se non anni) di attesa, revisioni (se non rifiuti) in cui vengono fatte le pulci su tutti gli aspetti teorici e metodologici. Qui invece in un mese si è risolto tutto, evidentemente la metodologia è stata riconosciuta perfetta fin dall’inizio.

Presuntuosamente, mi permetto di contestare alcuni presupposti teorici ma soprattutto di metodo e tecniche usate, che anche i biologi dovrebbero rispettare se si avventurano nel terreno della psicologia: a meno che l’intelligenza e il QI non siano ritenuti domini esclusivo della biologia!

Gli autori – sulla scorta di quel Lynn di cui contestammo l’aberrante articolo sulle variazioni regionali del’intelligenza, in questa stessa sede qualche mese fa (Il QI degli Italiani)- usano misure del QI “nazionale medio”, e già questo lascia alquanto perplessi. E’ già un problema misurare i QI individuali: risparmio al lettore i problemi riguardanti l’errore standard di misurazione, che come è noto è stimato in 5 punti QI in più o in meno, e gli altri aspetti tecnici che il buon Wechsler e tutti i suoi seguaci hanno esposto in dettaglio nei manuali del test; do’ per scontato il dibattito sulla molteplicità delle forme di intelligenza e del peso dell’emotività (Gardner e Goleman sono autori che forse i biologi hanno diritto di ignorare, gli psicologi no); evito il riferimento alle critiche sulla quantificazione di aspetti psicologici che sono troppo complessi per essere ridotti ad un numero come il peso e l’altezza o la pressione arteriosa (ho richiamato Gould e il suo ‘Mismeasure of man‘ nel precedente articolo).

Ma non posso non far rilevare come in questo articolo la misurazione del QI “medio della popolazione” (!) viene dedotta da altri studi  (Lynn & Vanhanen, 2006) ai quali “si rinvia per i dettagli” senza neppure discuterne la validità. Si sa soltanto che “il QI è stato misurato direttamente in 113 nazioni, e stimato per altre 72 nazioni facendo la media dei QI delle nazioni vicine con QI conosciuto”. Lascio al lettore il giudizio sulla correttezza metodologica di tale ‘misurazione’ che è fondata – lo ricordo per chi non conosce abbastanza Lynn e i suoi originali metodi – sui risultati di test di apprendimento che secondo lui correlano con l’intelligenza generale: ho già commentato nell’articolo precedente la grave improprietà di questa deduzione. Aggiungo qui che mi pare paradossale che, dopo aver appreso da Lynn che si sono differenze significative di QI per latitudine, e quindi tra Nord e Sud del nostro paese, qui vengano dedotti i QI medi nazionali di certi paesi facendo la media di quelli limitrofi. Se un nostro studente scrivesse cose del genere in una tesi di laurea, non lo faremmo più laureare. Ma tant’è, Lynn fa scuola tra i biologi che non vedono l’ora di avere un numero per l’intelligenza da correlare con le loro variabili ipotizzate, fregandosene del significato generale di queste ‘misurazioni’. Problemi epistemologici su cui solo le ‘scienze deboli’ come la psicologia possono perdere tempo…

I tre biologi prendono per buono tutto quanto dice Lynn sull’intelligenza media dei popoli (verificando lui stesso la attendibilità e validità di questa ‘misurazione’) senza neppure citare che strumenti  sono stati usati per comporre il database dei QI nazionali qui usati.

Sgombrato il campo dai dubbi su come il QI viene misurato, anzi senza farsi neppure venire in mente i dubbi, gli autori disinvoltamente passano alla verifica della loro ipotesi: che siano le infezioni a determinare l’abbassamento dell’intelligenza delle nazioni. Nella presentazione teorica preliminare, citano a conforto altre ipotesi analoghe: Lynn (sempre lui!) e un tal Rushton hanno ipotizzato che – cito letteralmente, perché  il lettore non pensi che traviso per astio personale il pensiero degli ‘scienziati’ in questione – “la temperatura e il clima forniscono una importante pressione selettiva in senso Darwiniano sull’intelligenza: il clima freddo seleziona individui con alta intelligenza, in quanto la bassa temperatura pone alle persone più problemi relativi all’adattamento, problemi che possono essere risolti mediante mezzi che richiedono l’impiego di risorse cognitive, e mediante organizzazioni sociali più complesse”. Ancora l’ineffabile Lynn, e stavolta è il freddo che stimola il cervello, come se pure il caldo non ponesse problemi alle persone e alle società: ve lo dice chi è abituato a convivere spesso con 40 gradi e forte umidità: gli arabi inventarono una geniale architettura finalizzata proprio a ripararsi dal caldo, ma tant’è… sorvoliamo su queste amenità e lasciamo che i geni fioriscano oltre una certa latitudine, e per sicurezza rinfreschiamo spesso i cervelli nostri e dei nostri figli con condizionatori e ghiaccio secco.

Seguendo queste geniali tracce esplicative, i nostri autori si imbarcano nella dimostrazione dell’ipotesi che siano le malattie infettive le cause che deteriorano l’intelligenza, secondo i criteri giù ripresi nel lancio di stampa citato all’inizio. Vi risparmio i dettagli sulle diarree e i vermi intestinali che l’articolo descrive con grande precisione; mi soffermo invece su qualche altra chicca metodologica.

“La distanza dall’Africa centrale, definita come ambiente di adattamento evoluzionistico umano (environment of evolutionary adaptedness, EEA), è stata calcolata usando il teorema di Pitagora“.

Invece “la percentuale di matrimoni fra consanguinei non è stata usata come variabile in questo studio perché questa variabile (che implica l’intervento di fattori genetici, n.d.r.) non è in grado di spiegare la variazione internazionale dell’intelligenza“. Meno male, questa ulteriore correlazione della consanguineità con il QI ce le siamo risparmiata. Però l’uso originale del teorema di Pitagora non può lasciare indifferenti.

Evitiamo le (tante) altre ‘originalità’ teoriche e metodologiche e veniamo subito ai risultati, nel timore che chi legge sia già stato travolto da una crisi di risa convulsive e abbandoni precocemente la lettura.

Le correlazioni fra disturbi infettivi e QI medio nazionale vanno, a secondo le parametro biologico usato, da -0,76 a 0,82: quindi la relazione fra queste variabili è dimostrata con altissima significatività (p<0,0001). Ora, noi insegniamo ai nostri studenti a non fidarsi delle correlazioni semplici tra due variabili scelte arbitrariamente fra tante, quando il problema è complesso e ci sono tante variabili intervenienti o sovraordinate, ma per i biologi che si occupano di QI questa cautela forse non vale.

Vero è che gli autori affermano di aver poi controllato le correlazioni ‘depurandole’ da altre variabili come il grado di istruzione, ma tutti gli esperti in statistica sanno che solo una analisi multivariata può dire se e quali variabili vanno tolte o inserite nel modello globale; altrimenti il rischio di tenere dentro la correlazione variabili spurie o non controllate è altissimo. Ma di questo nessun referee della rivista si è accorto, dunque gli autori passano disinvoltamente alle discussione dei risultati e alle conclusioni.

La correlazione trovata fra l’intelligenza e le malattie infettive – affermano – “è superiore a quella con ogni altra variabile per la quale esiste una spiegazione causale precedentemente proposta”

E, per non smentire ex abrupto decenni di ricerche che collegano lo sviluppo dell’intelligenza agli apprendimenti, precisano: “un legame indiretto fra istruzione e intelligenza può esistere, in quanto una popolazione più istruita può essere più interessata a misure di sanità pubblica – che portano a incrementare il QI riducendo lo stress da parassiti – considerato che l’istruzione comprende informazioni sulle teorie dei germi e sulle infezioni”. Insomma: il livello d’istruzione non agisce direttamente sull’intelligenza, ma sulla capacità di trovare informazioni per ridurre le infezioni…

Per un rigurgito di prudenza interpretativa, gli autori ammettono ad un certo punto: “Va ricordato che non stiamo dicendo che la variazione globale dell’intelligenza è causata solo dallo stress da parassiti. Piuttosto, la variazione nell’intelligenza è probabilmente causata da una varietà di fattori, compresi quelli che abbiamo già menzionato e quelli che sono ancora sconosciuti”.

Qui un barlume di consapevolezza causalistica sembrerebbe trasparire… peccato che poi se ne dimentichino subito, e che considerino ‘sconosciuti’ tutti gli altri fattori che influiscono sull’intelligenza, studiati dagli psicologi da un secolo (e che loro però non conoscono).

Tra le conclusioni generali, segnaliamo la seguente frase: “I nostri risultati indicano che la variazione ereditabile nell’intelligenza può derivare da due fonti: la struttura del cervello e la qualità del sistema immunitario. Quindi, due individui possono possedere geni identici per la struttura cerebrale, ma avere differenti QI dovuti a differenze nella qualità del sistema immunitario che riflettono la loro personale allocazione di energia verso l’immunità nello sviluppo cerebrale”.

Insomma, per determinare l’intelligenza di base concorrono geni + sistema immunitario (connesso  alle infezioni). Restano da spiegare, mi si passi l’espressione naïf, come mai troviamo tanti cretini senza danni genetici e con un buon sistema immunitario.

E ancora: “Il fattore sconosciuto che collega il colore della pelle al QI – questa ci mancava (n.d.r.) – potrebbe essere proprio il disturbo infettivo”… Inoltre, “Molti studi hanno evidenziato una relazione positiva fra QI e simmetria corporea … (e quest’altra la sapevate? n.d.r.) … Vi sono prove che la simmetria corporea è una misura della stabilità nello sviluppo, una componente importante della quale è il ridotto contatto con i disturbi infettivi“. Ancora ipotesi sul QI a ruota libera… il QI – sempre “medio nazionale”, s’intende: non quello delle singole persone – correla con qualunque cosa si affacci alla fantasia dei ricercatori.

Consentitemi un’ultima citazione di carattere ‘politico’: “La democratizzazione incrementa il livello di istruzione, permettendo meglio agli individui di cercare e capire le informazioni che riducono le infezioni parassitiche.” Dunque, evviva la democrazia che aumenta il livello di istruzione e fa ridurre le infezioni (e quindi aumentare l’intelligenza)!

Mi fermo qui, invitando i lettori a scorrere loro stessi l’articolo, che come detto è reperibile online.

Solo una considerazione conclusiva: se gli psicologi si avventurassero nel campo dei biologi con ipotesi così avventate, troverebbero riviste disposte ad accogliere le loro sparate? O solo i biologi possono parlare di intelligenza in questo modo? Ma può la psicologia subire questa “cosiddetta scienza” senza reagire?

Chiara Santi

Author: Chiara Santi

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