Live and Let die. Parere del Dr. Giorgio Blandino

Il filosofo Abbagnano ricordava che la validità di una concezione del mondo si misura dal modo in cui considera la morte. Infatti parlare della morte vuol dire essenzialmente parlare della vita e interrogarsi sul senso e il significato della morte è quindi come porre gli interrogativi fondamentali sulla vita.

Il considerare la morte come condizione per  vivere una vita migliore appartiene dunque a tutta la tradizione filosofica alta da Seneca a Spinoza, da Montaigne allo stesso Freud.

Quanto a me – si parva licet! – proporrei addirittura un cambiamento dell’assioma cartesiano del “cogito ergo sum”, in “muoio ergo sum” vale a dire che è il morire, in quanto unica certezza, che ci dice che esistiamo, perché se non esistessimo non moriremmo. In altri termini se c’è una fine di un qualcosa ciò significa che c’è anche quel qualcosa. La certezza dell’essere e dell’esserci non è data dal pensiero ma dalla morte.

Ma se la morte è la certezza della vita questa è la base su cui fondare la vita. La morte dunque, in quanto destino sicuro di ciascuno, è l’unica certezza che abbiamo nella vita e il paradosso sta nel fatto che ciò che appare il limite della condizione umana, di fatto ne diventa la forza. Come dice Cioràn col suo stile lacerante: “La morte è ciò che fino a ora la vita ha inventato di più solido”

E tuttavia osserviamo che esistono innumerevoli dottrine, tra cui in primis quella cristiana, che sostengono l’immortalità dell’anima e che, di conseguenza la vita sulla terra è una preparazione o un avvicinamento a una vita diversa. Ad esempio, nel modello mitologico più frequente, la morte ha valore di “passaggio” o di “prova” per accedere a una vita diversa ma superiore.

Ed è qui che si manifestano le difese dal lutto: infatti l’idea della morte, intesa come fine definitiva e totale, o non trova spazio nella mente umana o si fa strada a prezzo di molta fatica, angoscia e sofferenza e comunque mai in modo chiaro. La mente umana cioè ha una capacità limitata di afferrare l’idea della morte intesa come dissoluzione ed estinzione corporale. Anche se appare accettabile e comprensibile sul piano razionale, l’idea della morte – e tanto più della propria morte – ci risulta inconsciamente incomprensibile.

Freud sostiene che per il nostro inconscio è inconcepibile immaginare una fine della reale nostra vita; possiamo pensare la morte solo razionalmente, ma emotivamente non ci appartiene. L’inconscio dunque considera la morte come la considera il bambino (e come viene considerata nelle culture primitive): una cosa temporanea, non duratura, tale da comportare una rinascita. Il meccanismo mentale che più facilmente, naturalmente direi, mettiamo in atto nei confronti della morte è dunque il diniego, la negazione.

Ma negare la morte – sul piano emotivo e inconscio, si badi, non sul piano razionale – significa che si fa la fantasia concomitante di poter continuare a vivere e quindi di non morire mai veramente. Peraltro il modo che ciascuno di noi ha di affrontare la morte dipende, come ci ricorda Jaques, da quella che è stata la sua relazione infantile inconscia con la morte.

Dunque pensare a una nuova vita dopo la morte è sia un residuato del pensiero infantile, sia un altro modo di considerare la morte nel proprio inconscio, cioè come qualcosa di inverso alla nascita, e quindi una sorta di ritorno nell’utero materno. La morte è così equiparata al ritorno a un’esistenza precosciente, prenatale, dalla quale comunque ricomincerà una nuova vita.

Ma soprattutto l’idea di immortalità è la più grande difesa dal lutto perché in tal modo la morte viene negata attraverso fantasie di sopravvivenza magica che nel mondo contemporaneo sembra realizzabile tramite gli strumenti elettronici e i social network

Ma così il problema viene solo spostato, la realtà della propria finitezza viene illusoriamente superata e l’ansia di morte può essere posta sotto controllo. La conseguenza è che l’oggi non è più così drammatico e urgente e si può perfino tollerare che sia doloroso: la negazione della morte toglie anche le ansie della vita.

È evidente allora che questa negazione serve non solo a controllare le ansie connesse all’idea dei propri limiti e della propria finitezza, ma soprattutto a controllare o negare le ansie e i problemi reali della vita. Se i limiti e la finitezza dell’uomo vengono respinti in nome di una onnipotenza fantastica o di un’altra vita immaginaria, sostitutiva di quella vera, la realtà non viene più percepita per quello che è e il prezzo che si paga è la trascuratezza dei bisogni reali in nome di quelli falsi.

Però  solo se una cultura riesce a elaborare il problema della morte in modo non allucinatorio può aumentare la qualità della vita dei suoi membri e le proprie possibilità di sopravvivenza, oggi ampiamente compromesse, più di quanto si sia disposti a credere.

Allora la morte, pensata come una possibilità sempre presente nella vita umana che ne determina le caratteristiche, non solo fa sì che la vita stessa prenda senso dalla sua presenza ma la configura addirittura come una possibilità esistenziale, ovvero come “compimento” piuttosto che come termine, secondo quella che è anche una posizione classica nel pensiero filosofico.

Vale a dire che l’esistenza è autentica solo quando l’individuo accetta di prendere consapevolezza della possibilità della propria morte mentre con la fuga dalla propria morte significa, come già sottolineava Heidegger una fuga dai fondamenti della propria vita,

Un atteggiamento adulto verso la morte, esempio di capacità di elaborare il lutto e non difendersene, lo si trova esemplarmente rappresentato in un bellissimo saggio sulla morte del sociologo tedesco Norbert Elias di cui mi piace qui riportare un passo:

Molti sono i terrori che circondano la morte. Dobbiamo ancora scoprire ciò che gli uomini possono fare per garantire ai loro simili una fine tranquilla e pacifica; l’amicizia di coloro che sopravvivono, la sensazione che debbono avere i morenti di non essere d’ingombro fanno senz’altro parte di tale programma. La rimozione sociale, l’atmosfera di malessere che spesso circonda gli ultimi istanti di vita, non sono certamente d’aiuto per gli uomini. Forse dobbiamo parlare con più franchezza della morte, smettendo di considerarla un mistero. La morte non cela alcun mistero, non apre alcuna porta: è la fine di una creatura umana” (La solitudine del morente, Mulino, Bologna,1982; p. 82).

La negazione della morte è comunque molto pericolosa, sia sul piano personale che su quello sociale, perché porta a sottovalutare i reali pericoli di distruzione della vita, si pensi per esempio al drammatico problema ecologico o della guerra termonucleare.

Quando poi è tutta una cultura che nega la morte, trasformandola o idealizzandola come momento di passaggio, cioè in pratica la elimina con l’uso distorto delle ideologie o della religione, dei mass-media o della droga – e ora anche della tecnologia – anche la vita dei suoi membri viene di conseguenza eliminata, ridotta a puro accidente.

Perciò una cultura che espelle la morte dalla sua esistenza, nascondendola, rinuncia alla vita e si apre davvero alla propria autodistruzione. Ad esempio, come prima conseguenza, alle concezioni del mondo illusorie o irreali, più o meno paradisiache, corrisponde di fatto una realtà di sfruttamento o di sofferenza.

GIORGIO BLANDINO

Chiara Santi

Author: Chiara Santi

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3 Comments

  1. Grazie di questo articolo interessante , puntuale e da me totalmente condiviso
    Silvia Corbella

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  2. Sono molto grata a chi ha pubblicato questi pensieri del prof. Blandino.
    E’ stato un grande Docente e credo che il suo insegnamento continuerà ad essere una preziosa guida nella professione e nella vita.

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  3. ho saputo da poco della prematura scomparsa del prof. Blandino.
    E stato per me molto importante, ho condiviso con lui 10 anni molto importanti, gli sono grato per il suo aiuto.

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