Settembre, mese di ripensamenti…e se pensassimo ad “allentare” un po’?

di Ilaria Fabbri

“Settembre è il mese dei ripensamenti
sugli anni e sull’età
dopo l’estate il dono usato
della perplessità.
Ti siedi e pensi e ricominci il gioco
della tua identità
come scintille brucian nel tuo fuoco
le possibilità”
F. Guccini – Canzone dei dodici mesi

A Settembre le vacanze finiscono, si ricomincia a lavorare, si torna sui banchi di scuola… Tutto riprende velocemente a scorrere come prima, tra obblighi, impegni, corse e “salti mortali” per tentare di far stare tutto nel poco tempo a disposizione. Gli adulti di oggi sembrano sempre più spesso degli equilibristi, in piedi su fili sottili a trenta metri da terra e senza rete di protezione. Ed è triste constatare che questo stile di vita viene trasmesso assai precocemente anche ai bambini. Così, mentre proviamo a goderci gli ultimi giorni di sole, è facile ritrovarsi sconsolati a pensare che le vacanze sono ormai un ricordo lontano e ad accorgersi presto che quel po’ di benessere psicofisico recuperato durante l’estate con il rallentamento dei ritmi è già svanito, quasi svaporato via con il rientro in città. I motivi di tensione che ci tormentavano prima della pausa estiva sono ancora tutti là, magari più “feroci” e prepotenti di prima, perché non risolti, e possono trasformarsi in un bagaglio pesante da portarsi appresso durante i mesi invernali. Si ripresentano spietati, sotto forma dei vari mal di testa, mal di collo, mal di schiena e/o altri fastidi fisici che ci affliggevano prima di partire per le vacanze e che sembrano quasi rimasti lì ad attendere pazientemente il nostro rientro. Si tratta di manifestazioni dolorose di vario genere, ricorrenti, spesso croniche. Secondo una statistica neanche troppo aggiornata, ne soffre l’11% della popolazione adulta mondiale (1), mentre un adulto su otto soffre di dolori cervicali in forma  cronica (link: Tra posture sbagliate e ansia). Ma che definizione dare a questo tipo di dolore?

Il dolore è un’esperienza soggettiva, unica ed irripetibile, e per questo può essere definita come una realtà complessa e multidimensionale (2). Sappiamo bene che “fa male” quando ci procuriamo una ferita, o uno stiramento, cioè quando esiste una causa circoscritta e specifica come una lesione. Ipersensibilità e dolore nella parte lesa sono causati dall’accumulo di sostanze chimiche, dallo stiramento delle terminazioni nervose provocato dal tessuto che si gonfia e da agenti chimici presenti in grandi quantità nei pressi delle terminazioni stesse. Ma in questo caso infiammazione e dolore fanno parte del processo di guarigione e il dolore in particolare assume un ruolo di grande utilità, perché ci segnala che questo processo non è ancora completo, che c’è bisogno di proteggere ulteriormente la parte lesa e di stare a riposo. Ma quando il dolore persiste per molto tempo dopo la guarigione, allora diventa “dolore persistente” o “dolore cronico”. E’ un tipo di dolore molto diffuso tra la popolazione, può avere origini fisiche di svariata natura, ma ha delle caratteristiche completamente diverse rispetto a quello acuto: la guarigione infatti è già avvenuta in un momento imprecisato del passato, quindi non svolge più la funzione di segnalare un pericolo per l’organismo o la presenza di una lesione e certo non indica più che c’è bisogno di riposo e protezione.

Ormai da anni e grazie ad una mole piuttosto consistente di lavori, la letteratura scientifica internazionale sostiene che il dolore muscoloscheletrico cronico è associato a stati emozionali e affettivi negativi (2), (3), (4), (5). Gli ambiti di interesse più recenti della psicosomatica sembrano propendere verso le stesse conclusioni (6), (7). Questi dati sono fondamentali, perché consentono di considerare direttamente un altro aspetto del problema. Se un’associazione tra dolore muscoloscheletrico cronico e stati emozionali negativi esiste, come sembra essere dimostrato dalla letteratura scientifica, allora il trattamento di queste forme dolorose non può essere standardizzato per tutti coloro che ne sono affetti, ma al contrario deve essere fortemente personalizzato. Ogni soggetto soffre infatti per dei suoi vissuti emozionali negativi soggettivi e specifici: quindi la valutazione di ogni caso clinico deve necessariamente lasciare spazio all’ascolto della persona. A questo proposito si può fare una distinzione tra “misurazione” e “assessment”. La misurazione è un processo che porta a definire la quantità, il grado o il livello di un qualcosa, utilizzando uno strumento o un’unità di misura standard. L’assessment consiste invece nell’ascolto e nell’analisi critica della natura, del significato o dello status di questo qualcosa, implica cioè una parte descrittiva oltre a quella valutativa. Nell’ambito del dolore muscoloscheletrico cronico, il processo di assessment, più che quello di misurazione, sembra indicato a cogliere la globalità, la complessità e la soggettività di questa esperienza. Infatti, il processo di assessment consente di prendere in considerazione sia i contributi comportamentali che le variabili cognitive implicati nel mantenimento della percezione del dolore in assenza di uno stimolo nocicettivo. La valutazione delle strategie di coping, cioè della capacità di fronteggiare varie questioni di vita problematiche, nei soggetti interessati da dolore cronico fornisce infatti informazioni importanti sulle risorse psicologiche di cui questi dispongono, ma anche sui loro stili cognitivi-comportamentali e sulle loro scelte disfunzionali. Per esempio, il locus of control “interno”, cioè  la tendenza ad attribuire la responsabilità degli eventi di vita a se stessi, appare una caratteristica cognitiva che può essere considerata positiva rispetto al dolore cronico, dal momento che soggetti così caratterizzati lamentano generalmente meno sintomi legati al dolore e rispondono meglio alle terapie, rispetto ad altri soggetti che attribuiscono al caso il risultato dei trattamenti (8). L’autoefficacia (self-efficacy), cioè il senso di un sé efficace, in grado di poter compiere determinate azioni,  e la tendenza a catastrofizzare sono caratteristiche cognitive che sembrano invece in grado di influenzare gli esiti della terapia in caso di dolore acuto (9).

Il principale obiettivo terapeutico perseguibile in casi del genere tuttavia, almeno secondo una prospettiva cognitivo-comportamentale, rimane la gestione del dolore, piuttosto che la sua totale scomparsa. Ciò si traduce operativamente in vari passaggi. Si comincia con un assessment iniziale che prevede una visita medica e la valutazione di fattori psicologici, comportamentali e sociali. Questo ipotetico percorso prosegue poi con interventi di ristrutturazione cognitiva della percezione che il paziente ha del dolore e con training di abilità che gli permettano di affrontare la condizione dolorosa nella vita quotidiana. Infine la conclusione ideale vedrebbe il mantenimento e la generalizzazione di tali abilità e delle nuove strategie apprese (2). Questo schema di intervento può essere integrato, arricchito e potenziato mediante il ricorso a svariate tecniche: di rilassamento, cognitive per il controllo del dolore (distrazione o immaginazione), biofeedback, counselling psicologico, etc. Tra queste, il biofeedback in particolare, è stato ampiamente usato negli anni ’80 come approccio terapeutico al dolore muscoloscheletrico cronico (2). Il termine biofeedback indica una tecnica di intervento finalizzata a ottenere la modificazione di risposte fisiologiche interne attraverso l’indicazione chiara dei segnali esterni misurabili di tali risposte. Questa tecnica si basa sul principio secondo il quale informare in tempo reale il soggetto sull’andamento e sulle oscillazioni dei suoi parametri fisiologici lo renda capace di modificarli e gran parte della sua efficacia è dovuta probabilmente all’aumento del livello di controllo percepito sul dolore. Per quanto riguarda il rilassamento invece, alcune tecniche come il training autogeno possono essere molto efficaci (10). Durante la pratica autogena viene infatti raggiunta una condizione di riduzione, se non addirittura di esclusione completa, di ciò che succede all’esterno di sé. Questo significa che la completa attenzione del soggetto viene posta sul proprio mondo interiore o sulla zona prefissata, per cui è possibile escludere da quella stessa parte del corpo la sensazione di dolore, concentrandosi su un’altra sensazione corporea evocata (per esempio caldo, freddo, senso di distensione o del proprio respiro).

Data l’importanza di personalizzare gli interventi terapeutici quando si parla di dolore muscoloscheletrico cronico, qualunque sia la tecnica scelta o l’approccio teorico-pratico di riferimento, questi si dimostrano veramente utili se consentono il raggiungimento di un buon risultato, quale ad esempio la riduzione del tempo di inattività forzata dovuta al dolore. La prevenzione è l’unica alternativa che abbiamo a disposizione, ma ciò significa imparare ad affrontare in modo diverso gli eventi, gli impegni e i mille doveri che le nostre vite frenetiche ci riservano. E allora se concordiamo con Francesco Guccini che “..Settembre è il mese dei ripensamenti sugli anni e sull’età..”, proviamo un attimo a sederci e a pensare di concederci il lusso di ricominciare le varie attività lasciate in sospeso durante la pausa estiva, memori di quel ritmo di vita assai diverso e più piacevole che solo qualche settimana fa ci aveva fatto stare meglio.

Riferimenti bibliografici:
(1)    Tunks, E., Lera, S. & Pesaresi F. (1998). Terapia cognitivo-comportamentale in riabilitazione. Edi-ermes, Milano
(2)    Majani, G. (1999). Introduzione alla psicologia della salute. Erikson, Trento
(3)    Linton, S. J. & Gotesman, K. G. (1985). Relations between pain, anxiety, mood and muscle tension in chronic pain patients. Psyvhotherapy and Psychosomatic, 43: 90-95
(4)    Wade, J. B., Price, D. D., Hamer, R. M., Schwartz, S. M. & Hart, R. P. (1990). An emotional component analysis of chronic pain. Pain, 40: 303-310
(5)    Jensen, M. P., Karoly, P. & Harris, P. (1991). Assessing the affective component of chronic pain: development of of the Pain Discomfort Scale. Journal of Psychosomatic Research, 35: 149-154
(6)    Solano, L. (2001). Tra mente e corpo: come si costruisce la salute. Raffaello Cortina, Milano
(7)    Mingarelli, A., et al. (2010). Un servizio di valutazione psicologica nell’ambito dei disturbi temporo-mandibolari. Atti del IX Congresso Nazionale: “La Psicologia della Salute tra ricerca e intervento nei servizi sociosanitari, nella comunità, nei luoghi di lavoro e nella scuola”, Bergamo: 23-25 Settembre 2010
(8)    Crisson, J. E. & Keefem F. J. (1988). The relationship of locus of control to pain coping strategies and psychological distress in chronic pain patients. Pain, 35: 147-154
(9)    Burton, M. V., Parker, R. W., Farrell, A., Bailey, D., Conneely, J., Booth, S. & Elcombe, S. (1995). A randomized controlled trial of preoperative psychological preparation for mastectomy. Psycho-Oncology, 4: 1-19
(10)    Albisetti, V. (1988). Il Training Autogeno per la quiete psicosomatica. Edizoni San Paolo, Milano

Gabriella Alleruzzo

Author: Gabriella Alleruzzo

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1 Comment

  1. Complimenti, molto chiaro, semplice e suggestivo.

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