Siamo tutti Svedesi? Le adozioni da parte dei single
Dopo aver recentemente trattato la depressione post adozione, contributo nel quale già si specificava l’intenzione di dare spazio ad altre tematiche inerenti il mondo delle adozioni, come Osservatorio abbiamo deciso questa volta di affrontare il discusso e attuale tema delle adozioni da parte dei single. Ciò, inevitabilmente, apre anche all’acceso dibattito inerente la legittimità di adottare anche da parte di coppie omosessuali, diritto, ad esempio, già riconosciuto in Svezia.
La Suprema corte – nella sentenza 3572 – ha sottolineato che “il legislatore nazionale ben potrebbe provvedere, nel concorso di particolari circostanze, ad un ampliamento dell’ambito di ammissibilità dell’adozione di minore da parte di una singola persona anche con gli effetti dell’adozione legittimante”.
Come Osservatorio riteniamo che non esista una posizione migliore di un’altra, gli stessi dati scientifici hanno senso solo se analizzati all’interno di specifici contesti storici e culturali, ma ci è sembrato decisivo focalizzare l’attenzione su quel passaggio della Corte di Cassazione che afferma quanto sia importante “provvedere nel concorso di particolari circostanze ad un ampliamento dell’ambito di ammissibilità dell’adozione del minore da parte di una singola persona.”
L’adozione ai single è certamente un tema complesso e ideologicamente sensibile per tale ragione abbiamo coinvolto alcuni esperti in materia perché potessero esprimersi nel merito identificandone le dinamiche psicologiche collegate. Abbiamo affidato tale delicato compito a Santo di Nuovo (Università di Catania già giudice onorario nel Tribunale per i minorenni – sezione adozioni- ora nella Corte d’Appello del Tribunale di Catania), a Rosa Rosnati e Laura Ferrari (Centro d’Ateneo Studi e Ricerche sulla Famiglia Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano) i quali hanno espresso il loro punto di vista supportando i contenuti con interessanti rimandi scientifici. Auspichiamo che il dibattito che ne scaturirà possa esser in qualche modo utile al confronto tra le parti.
di Santo Di Nuovo
L’adozione comporta l’incontro tra il bisogno di persone senza generatività biologica (salvo rare eccezioni di adottanti che hanno già figli propri), e quello di bambini senza famiglia idonea. Questo incontro produce una famiglia che si amplia, o addirittura una nuova famiglia nel caso di adozione da parte di single.
L’inserimento di un minorenne all’interno di una nuova famiglia comporta problemi affettivi, emozionali e sociali da tempo diffusamente discussi nella letteratura psicologica. Esiste il rischio che il bambino da adottare venga vissuto dagli adottanti come una compensazione del corpo infertile, e non come un valore in se stesso. Bisogna anche considerare gli aspetti psicologici dei bambini adottandi, ed in particolare la continuità / discontinuità della loro identità, nel rapporto tra vecchi e nuovi legami affettivi. Questi bambini hanno una storia familiare o una storia di istituto (o entrambe) che ha comportato l’acquisizione di una identità, per quanto incerta e labile, prima di passare ad una situazione completamente diversa, quella adottiva in cui l’identità deve essere in gran parte ricostruita. In molti casi gli adottandi passano per una triplice fonte di identità: quella familiare iniziale, quella dell’istituto dove sono stati diversi anni, e poi quella della nuova famiglia adottiva. Se si pensa che una delle crisi tipiche dell’adolescenza è relativa al passaggio attraverso le varie fasi dell’identità personale e sociale, dall’identità del bambino a quella del preadolescente e poi dell’adolescente, si può immaginare cosa comporta lo stesso tipo di conflitto quando occorre passare per contesti di identità diverse.
Se è vero che nell’identità confluiscono anche i genitori interiorizzati, allora è importante ricordare come i bambini che non hanno conosciuto i genitori, o non li possono più ricordare perché separati da loro nei primissimi anni di vita e poi vissuti in istituto, si costruiscono genitori interni idealizzati, che poi vanno a incontrarsi (o scontrarsi) con l’immagine dei genitori reali, cioè quelli adottivi. Il confronto sarà sempre con i genitori adottivi ideali: il bambino che sta in istituto spesso fantastica sui ‘nuovi’ genitori che dovranno prenderlo con loro; poi quando incontra realmente chi lo adotta, il confronto fra reale ed ideale non è sempre favorevole a quest’ultimo.
Bisogna inoltre che quanti aspirano alla genitorialità adottiva abbiano potenzialità sufficienti a gestire i momenti difficili del figlio, quando si presenteranno; ed è presumibile che alle crisi tipiche dell’adolescenza si aggiungano elementi di perturbazione conseguenti ad aspetti specifici, ad esempio la ricerca della famiglia naturale: va ricordato che una delle innovazioni più significative della riforma del 2001 è costituita dalla possibilità per l’adottato di venire a conoscenza della sua condizione e dell’identità dei genitori naturali. Se si tratta di adozione internazionale, un fattore di crisi può derivare dall’esplodere – spesso con ritardo rispetto al momento dell’adozione – del conflitto tra la cultura d’origine e quella in cui il minorenne è stato inserito, spesso senza opportune mediazioni.
Tutte queste caratteristiche psicologiche dei minorenni adottati vanno fronteggiate da chi li adotta: sarebbe scontato concludere – e quale studio empirico, condotto su ampi gruppi, potrebbe smentirlo? – che due genitori possono gestire questi problemi meglio che uno solo, e che gli adottandi “si aspettano” due genitori piuttosto che uno.
Concludere da questo che va negata l’adozione ai single sarebbe però improprio, perché farebbe riferimento soltanto a enunciazioni di principio e a considerazioni di tipo generale (del tipo: “per il benessere del bambino ci vogliono due genitori”), e sappiamo bene come principi e considerazioni generali quasi mai si adattano alle realtà concrete, la cui unicità e complessità sfugge alle generalizzazioni.
Se il dibattito sull’adozione dei single – come su tutti gli altri grandi temi di cui si occupa, a proposito o a sproposito, la psicologia – è tenuto sul piano dei principi, diventa fuorviante e tende a dividere esperti ed opinione pubblica più per ragioni ideologiche che per una approfondita analisi delle ragioni psicologiche e sociali, peraltro controverse anche sul piano dei dati empirici. Peraltro la norma già consente, in certe condizioni, anche a una persona singola di adottare: l’art. 25 della legge 149 del 2001 dice che «quando vi sia la constatata impossibilità di affidamento preadottivo … l’adozione è consentita, oltre che ai coniugi, anche a chi non è coniugato».
Per tutti, la legge indica tra i criteri per il riconoscimento della idoneità alla adozione la “capacità di educare il minore”, che è anzi l’unico aspetto genuinamente psico-educativo previsto dalla legge, insieme alle adeguate motivazioni all’adozione. Il criterio comporta l’accertamento di risorse affettive in grado di sostenere lo sviluppo fisico e psichico del bambino, specie nei periodi critici della sua crescita; la disponibilità a prendersi cura materialmente e psicologicamente di lui, e a riconoscerlo portatore di una propria soggettività.
Queste caratteristiche possono essere presenti in misura maggiore o minore in una coppia come in un single; le difficoltà già segnalate dell’inserimento di un minorenne possono verificarsi con coppie o con singoli adottanti, anche se ovviamente una coppia valida dà al bambino più garanzie di un single, ma al contrario un single che ha le caratteristiche psicologiche richieste potrebbe dare più garanzie di una coppia il cui desiderio di adottare è solo legato ad appagare propri bisogni, o costituisce una soluzione di ripiego dopo aver inutilmente tentato per anni la procreazione assistita.
Uno studio del Centro Italiano Aiuti all’Infanzia e dell’Eurisko (1) ha messo in luce come molte coppie, pur dichiarate idonee, non risultano capaci di far fronte adeguatamente ai problemi che comportano il confronto dell’adottato con le proprie radici, la ricerca di informazioni sui genitori biologici, la sensazione di ‘essere diversi’.
Lo sconvolgimento che può comportare l’adozione in coppie nelle quali uno dei cui componenti è emotivamente fragile è dimostrato dal fenomeno della depressione post-adozione da parte di madri adottive, la cui rilevanza è evidenziata dallo studio promosso dalla Eastern European Adoption Coalition. I sintomi sono analoghi a quelli della depressione post-partum: malinconia, irritabilità, stanchezza, insonnia, perdita di interesse. I dati riportati testimoniano come siano tante le mamme adottive ad aver provato alcuni di questi sintomi, prolungati nel 45% dei casi per circa sei mesi (2). Tra le cause citate dagli autori della ricerca, le conseguenze dello stress dell’infertilità, poi del lungo iter preadottivo con le sue attese, tensioni, incertezze, quindi ancora la differenza percepita tra il bambino atteso e sognato e quello reale: tutto ciò si aggiunge alle difficoltà normali nella coppia che deve riassestare i suoi equilibri dopo l’arrivo del figlio.
Questo dati, seppur limitati, confermano come un’adozione riuscita non è garantita solo dal fatto che ad adottare sia una coppia, ma da quanto gli adottanti siano equilibrati e in possesso delle qualità che servono per essere buoni genitori, soprattutto nelle difficoltà: e questo vale pure per i single, basti pensare a quanti genitori dopo una separazione riescono ad allevare ed educare appropriatamente, anche da soli, i figli loro affidati.
In conclusione, se per un certo bambino adottabile c’è fra le coppie disponibili una idonea che risponde alle caratteristiche per lui richieste, è logicamente da preferire; se nessuna coppia appare in condizione di assicurare una adozione prevedibilmente proficua nell’interesse del minore – come previsto dalla legge – anche una idonea persona singola può essere scelta con buone prospettive di successo. Condizione essenziale comunque è che gli adottanti siano idonei non solo in generale, ma nello specifico caso che i servizi e poi il tribunale per i minorenni valuteranno volta per volta, trovando la soluzione migliore per quel bambino in quel momento.
Diverso è il caso dell’adozione internazionale: il tribunale non deve effettuare l’abbinamento dei migliori adottanti al bambino, ma deve solo accertare e dichiarare l’idoneità; sarà poi l’adottante a prendere il bambino all’estero, e il tribunale dovrà riconoscere la validità.
Per l’adozione internazionale, la Corte Costituzionale, con l’ordinanza numero 347 del 15 luglio del 2005 ha riconosciuto l’idoneità all’adozione anche per persone non coniugate, purché esistano “risorse personali e familiari per accudire un minore in stato di abbandono e offrirgli valide opportunità di crescita in ambiente accogliente e ricco di stimoli“. Come riconosciuto dalla suprema Corte, nessuna norma vieta ai single di adottare minori stranieri nei medesimi casi in cui è consentita loro l’adozione di minori italiani. E lo psicologo non può che concordare con questa decisione.
Al di là di ciò che stabiliscono le norme – che peraltro possono sempre essere cambiate, se cambia la sensibilità sociale verso il problema che esse riguardano – il contributo della psicologia al campo giuridico (adozioni comprese) va mirato:
ad evitare generalizzazioni, deleterie nei casi concreti, anche se ragionevoli in linea di principio;
a valutare accuratamente cosa è più utile per certi soggetti in un certo momento e in certo contesto, contribuendo così alla decisione giuridica più appropriata pur nei limiti consentiti dalle norme vigenti;
a sostenere gli stessi soggetti dopo le decisioni giuridiche affinché esse raggiungano e mantengano l’efficacia migliore per tutte le parti in causa.
(1) Chistolini M., Raymondi M. (a cura di) Figli adottivi crescono. Adolescenza ed età adulta: esperienze e proposte per operatori, genitori e figli, F. Angeli, Milano, 2010.
(2) Senecky Y., Agassi H., Inbar D., Horesh N., Diamond G., Bergman Y. S., Apter A. Post-adoption depression among adoptive mothers, in “Journal of Affective Disorders”, 2009, 115, pp. 62-68.
di Rosa Rosnati e Laura Ferrari
Innanzitutto uno sguardo ai numeri: come evidenzia il rapporto statistico del 2010 redatto dalla Commissione per le adozioni internazionali (ovvero l’Autorità Centrale sul nostro territorio nazionale), l’Italia con più di 4000 adozioni internazionali all’anno (e circa 600-800 adozioni nazionali) è il secondo Paese al mondo, dopo gli Stati Uniti per numero di adozioni. Tra il 2006 e il 2009 più di 21000 coppie hanno ottenuto il decreto di idoneità dal Tribunale per i Minorenni, ovvero la “patente” per proseguire questo iter e adottare un bambino, ma di queste solo il 45% ha nello stesso periodo portato a termine questo progetto.
Numeri che raccontano una storia che bisogna però sapere riconoscere ed ascoltare. La storia di coppie che percorrono un cammino lungo, non privo di difficoltà ed ostacoli, un percorso che dura circa 4-5 anni, tanto che alcune di fronte di tutto ciò desistono.
E non è senza importanza il fatto che oggi l’età media dei bambini che arrivano in Italia per essere adottati è di quasi sei anni. Di fronte a queste evidenze non possiamo parlare di bambini in generale, ma diventa necessario conoscere di più i vissuti e le esperienze di questi specifici bambini: sono infatti bambini che hanno subito il trauma dell’abbandono, unitamente ad un periodo più o meno lungo di istituzionalizzazione. A ciò si aggiungono molto frequentemente abusi, trascuratezze, maltrattamenti.
In una rilevante pubblicazione scientifica van IJzendoorn e Juffer (2006) hanno confrontato i risultati di circa 200 studi condotti in diversi Paesi negli ultimi due decenni su bambini adottati: è emerso che, benché la maggior parte di essi manifesti un positivo adattamento, essi hanno più probabilità di evidenziare problemi comportamentali di vario genere (soprattutto iperattività, opposività, sintomi depressivi) rispetto ai bambini che vivono nelle loro famiglie biologiche. Si è inoltre evidenziato il sorprendente recupero che i bambini fanno a seguito dell’adozione sia dal punto di vista dello sviluppo fisico, sia di quello cognitivo e psicologico, recupero che parzialmente va a colmare gli inevitabili ritardi accumulati nel periodo precedente (Rosnati, 2010).
Dunque, essere genitori adottivi è una sfida non facile e per farvi fronte sono necessarie risorse e competenze specifiche che consentano di cogliere i bisogni di questi bambini e di rispondere ad essi adeguatamente.
Negli ultimi anni le ricerche sull’adozione e in particolare alcune ricerche condotte dal Centro d’Ateneo Studi e Ricerche sulla Famiglia dell’Università Cattolica di Milano, hanno evidenziato come siano proprio le relazioni familiari che si vengono ad instaurare all’interno del nucleo adottivo ad incidere profondamente sul processo di adattamento del minore adottato (Rosnati, 2010).
E’ quindi responsabilità del contesto sociale fare in modo che questi bambini possano essere inseriti in un ambiente familiare adatto alla loro crescita, ma soprattutto in grado, per quanto possibile, di lenire le ferite subite. I genitori infatti possono costituire quella base sicura di cui tutti i bambini e questi in modo particolare hanno bisogno per crescere, per acquisire quella fiducia che permetterà loro di far fronte ai compiti evolutivi e alle inevitabili difficoltà. E’ la coppia genitoriale che può garantire la compresenza del codice materno e paterno necessarie allo sviluppo psicologico, ovvero l’affetto, la cura e la speranza, generalmente legate alla funzione materna e l’aspetto etico-normativo e l’orientamento nella crescita, legati alla funzione paterna.
Più specificatamente, nel caso delle famiglie adottive, alcune ricerche hanno messo in evidenza l’importanza del ruolo del padre, in particolare durante la fase adolescenziale, in cui è emerso che gli adottati, rispetto ai pari non adottati, hanno una comunicazione aperta e fluida e percepiscono maggiore supporto dal padre (Sobol, Delaney, Earn, 1994; Levi-Shiff, 1991), tanto che possiamo parlare di “enhanced adoptive fatherhood”.
Innegabile è dunque il bisogno di famiglia che bambini portano dentro, come unico e insostituibile contesto di crescita.
A fronte poi di una sovrabbondanza di “offerta” di coppie disponibili e pronte all’adozione, ci chiediamo perché aprire l’adozione a persone singole?
Non è nemmeno da trascurare il fatto che alcune recenti ricerche abbiano messo in luce alcuni aspetti di fragilità nei nuclei monogenitoriali: le madri in particolare tendono a manifestare livelli inferiori di benessere psicologico in termini di soddisfazione per la vita, autostima e sintomi depressivi (Lansford, Ceballo, Abbey, Stewart, 2001; McLanahan, 2004).
Interroghiamoci dunque sulle scelte di oggi, perché saranno il domani di questi bambini.
Crediamo che siano necessari la diffusione di una cultura dell’adozione nei diversi contesti sociali, in primis nella scuola, l’implementazione una proposta formativa rivolta ai genitori adottivi nelle diverse fasi dell’iter e in particolare nel post-adozione che sia diffusa capillarmente su tutto il territorio nazionale e che si basi effettivamente sul corpus di ricerche scientifiche ora disponibili e soprattutto l’attuazione di tutti quegli interventi, sia sul nostro territorio sia nei Paesi di provenienza dei bambini, che mirino a rimuovere le cause dell’abbandono.
Come adulti, non possiamo non sentirci tutti responsabili a diverso titolo della loro crescita e del loro benessere: essi rappresentano il nostro domani.
Lansford, J. E., Ceballo, R., Abbey, A., Stewart, A. J. (2001). Does Family Structure Matter? A Comparison of Adoptive, Two-Parent Biological, Single-Mother, Stepfather, and Stepmother Households. Journal of Marriage and Family, 63(3),840-51.
Levy-Shiff, R., Goldsmith, I., Dovttar, E. (1991). Transition to parenthood in adoptive families. Developmental Psychology, 27, 113-140.
McLanahan, S. (2004). Diverging Destinies: How Children Are Faring Under the Second Demographic Transition. Demography, 41(4), 607.
Rosnati, R. (a cura di) (2010). Il legame adottivo. Contributi internazionali per la ricerca e l’intervento. Unicopli: Milano.
Sobol, M.P., Delaney, S., Earn, B.M. (1994). Adoptees’ Portrayal of the Development of Family Structure. Journal of Youth and Adolescence, 23,385-401.
van IJzendoorn, M. H., Juffer, F. (2006). The Emanuel Miller Memorial Lecture 2006: Adoption as intervention. Meta-analytic evidence for massive catch-up and plasticity in physical, socio-emotional, and cognitive development. Journal of Child Psychology and Psychiatry, 47, 1228-1245
2 giugno 2011
Gli argomenti esposti dal prof. Di Nuovo a favore della possibilità che anche persona non coniugata possa adottare sono pienemante condivisibili. Tuttavia, per quanto riguarda l’adozione nazionale c’è il rischio che alla persona non coniugata venga sistematicamente proposto il bambino “difficile”, quello che nessuno vuole.
Lo stesso prof. Di Nuovo accenna al problema quando scrive che “se nessuna coppia appare in condizione di assicurare…” potrà essere presa in considerazione “la idonea persona singola”; ma accadrà mai che nei Tribunali minorili non ci sia una coppia coniugale ritenuta idonea ad adottare? La realtà dice che in ogni Tribunale il numero di coppie che danno la loro disponibilità ad adottare è enormemente superiore al numero di bambini adottabili (da ciò le tanto lamentate “attese” che poi si riversano in adozioni internazionali): questa disparità è un fattore positivo ai fini della validità della selezione, ma, allo stesso tempo, colloca in condizione residuale il “single”.
Ed ecco il rischio: ogni Tribunale minorile fa la triste esperienza di avere bambini che o per l’età avanzata, o perchè hanno qualche difettualità fisica, sensoriale o psichica, vengono rifiutati e rimangono negli istituti. Spesso, cedendo alla triste realtà, questi bambini vengono proposti a coppie meno accreditate, cosa che sulla carta può apparire un paradosso (il caso più difficile alla coppia meno capace), ma che, sempre in termini di realtà, spesso per i bambini può costituire una soluzione comunque migliore della istituzionalizzazione perpetua.
Affinchè la persona singola disponibile ad adottare non diventi automaticamente residuale, ma concorra paritariamente con gli altri occorerebbe cambiare non solo la norma, ma anche quelli che in atto sono i criteri di valutazione – non scritti e non cocnordati, ma sicuramente comunemente adottati dai giudici togati e non togati dei Tribunali minorili. In breve, si dovrebbe rivedere il valore che in atto viene attribuito al fattore “coppia coniugale”: cosa non facile, ritengo, ma si può provare a farlo.
4 giugno 2011
“Come Osservatorio riteniamo che non esista una posizione migliore di un’altra” così avete detto.
Bene in Italia ci sono psicologi che sono CONTRARI DECISAMENTE alla neutralità riguardo ai temi che riguardano i minori e che sono di parte ovvero dalla parte dei minori e che affermano senza vergogna che due genitori sono meglio di uno soprattuto per bambini che già partono nella vita con lutti e perdite.
Quando avevo 3, 4 anni mi dicevano che due mele sono più di una. Anzi col tempo ho capito che sono esattamente il doppio.
DUE GENITORI SONO, A PARITA’ DI CONDIZIONI SOCIALI, LAVORATIVE , PER UN MINORE ABBANDONATO, MEGLIO DI UNO E SE QUALCHE PSICOLOGO HA UNA IDEA DIVERSA O NON CONOSCE LA MATEMATICA O STA FACENDO INTERESSI PARTICOLARI.
Io rispetto e comprendo le battaglie dei single per avere pari diritti e pari dignità rispetto alle altre coppie sotto tutti i punti di vista.
Occorre distinguere a mio avviso il diritto dell’adulto di diventare genitore che deve sempre e comunque cedere il passo al diritto del bambino.
Rimane il dubbio che sia scritto solo per provocare polemica o facili consensi poichè in Italia le coppie che richiedono di adottare i bambini sono incredibilmente di più rispetto ai bambini.