Per un’etica della psicoterapia

di Girolamo Lo Verso

In seguito alla mia risposta sull’O.P.M. del 29/01/2011 sul tema “abusi sessuali in psicoterapia”, una paziente mi ha scritto raccontandomi la sua dolorosa storia di abusi e chiedendomi di impegnarmi ulteriormente in senso etico. Ha ragione, è una cosa distruttiva e vergognosa. Ho già affrontato, un poco, in passato questo tema in un contributo ad un volume sugli errori curato da Umberta Telfner (ripreso, approfondito ed ampliato nel recente Lo Verso, Di Blasi “Gruppoanalisi soggettuale” edito da Cortina), e nella stesura di un codice deontologico procedurale sulla terapia di gruppo scritto con Corrado Pontalti. In forma anonima la storia di questa donna è descritta, con molta lucidità e grande dolore, su numerosi link, tra cui quello dell’Osservatorio. Penso, tuttavia, che se si parla di questi temi bisogna farlo senza nascondersi dietro al dito o alle compiacenti ipocrisie e, come si dice, bisogna “metterci la faccia”. Altrimenti, in epoca di degrado etico e di “bunga bunga” si rischia di essere furbetti o “sciacqua palle” (magari anche di sé stessi), come chiamavano metaforicamente  i pescatori di Horcinus Orca (il meraviglioso libro di D’Arrigo, Einaudi) coloro che procuravano ai capi bei ragazzi o formose fanciulle. Il fenomeno dell’abuso sessuale, in realtà, è sempre esistito nelle relazioni di cura. Ricordo alcuni casi di noti analisti di molti anni fa. Questi episodi, però, avevano tutti due caratteristiche (valutate voi). Una è che gli analisti avevano una lunga formazione, l’altra che gli “agiti” (come si chiamavano) avvenivano con allieve in formazione. Ricordo, sempre in ambito analitico, altri casi, più perversi, ad esempio, quello del tizio che “giaceva” con la paziente proprio sul lettino analitico e che venendo “scoperto” dalla moglie fuggì in una lontana città dove, del resto, faceva denaro, carriera e frequentava chiacchieratissimi potenti. L’altro, umanamente doloroso, più triste era il caso di un collega che compulsivamente doveva, per sua stessa avvilita ammissione, provarci con le pazienti. Questo pone un primo problema. L’esperienza di terapia analitica personale appare, quindi, utile ma non sempre sufficiente a risolvere il problema degli abusi (che, comunque, erano e sono una realtà statisticamente piuttosto rara). C’è, infatti, anche il problema della forma più sottile, ma anch’essa problematica di abuso, e cioè, la gestione relazionale del rapporto con i pazienti in chiave seduttiva o comunque manipolativa e narcisistica.  La questione più generale, comunque, sembra anche essere legata alla confusione. La stessa paziente che così intensamente mi narra il suo dramma non distingue con chiarezza tra psichiatra, psicologo, psicoterapeuta (e forse, lei non è tenuta a farlo, ma i professionisti sì). Le prime due categorie non hanno, di per sé, formazione alla psicoterapia, per cui tutto si confonde: sostegno, ascolto, prendersi cura, farmaci, “volemose bene”, ermeneutica, ecc. Senza specificare spesso chi fa queste cose, a chi, come  e con quali obiettivi terapeutici. Il problema degli abusi, nel suo orrore, sfocia nella più grande questione della competenza specifica a lavorare in certi set(tings) e con certe tematiche e con quali obiettivi (curare, contenere, condividere, non sono la stessa cosa e non vanno ciascuno bene per tutti).
Ho, ad esempio, seguito a lungo un paziente con gravi disturbi la cui vita venne definitivamente devastata da un tizio, impiegato in pensione, che avendo fatto una  scuola dove purché avesse pagasse e si fosse fatto vedere una volta al mese (salvo assenze), gli avrebbero dato il titolo di psicoterapeuta, anche se lui era  un po’ fuori di testa e magari il didatta pure (ma più furbo in termini di business). A questo paziente, che aveva oltretutto una storia personale terribile e dolorosissima, e che comunque era un grave border, veniva detto (e non sempre sono fantasie proiettive dei pazienti che, vergognosamente per la nostra categoria hanno avuto sempre torto, ed, invece, proprio perché portatori di psicopatologia, i clienti hanno sempre ragione nel loro diritto di essere curati), di non preoccuparsi che tanto il terapeuta gli voleva bene e che quando lui stava male poteva sedersi ed urlare la propria rabbia. Ogni tanto poi, spuntava un altro terapeuta che, in diretta, faceva una supervisione e dei ripassi al paziente. Ci sarebbe da ridere se i “todos Caballeros”  della logica delle scuole valutate solo in metri quadrati non rischiasse di diventare in qualche caso una roba da bounty killer e di distruggere l’intera categoria professionale e la grande maggioranza di colleghi che con grandi sforzi etici e sacrifici fanno il, loro meglio per fare un onesto lavoro, del resto, non molto remunerato. Ed allora, cosa c’è da fare per evitare che queste cose si ripetano?
Il discorso è troppo grande per una persona sola (ed infatti sarebbero importanti altri interventi), per quanto ormai con pochi capelli e da tanto tempo studioso e professionista della psicoterapia. Butto lì alcune, potenziali, attivazioni rispetto al tema, con la premessa che essere “filistei” sia inutile e che l’obiettivo è incentivare la riflessione comune guardando con durezza etico-clinica al problema.
La questione è grave ed urgente. È in ballo la vita di persone ed il  lavoro di altre. È necessario che la stragrande maggioranza di colleghi seri non taccia più di fronte ad essa, più o meno imbarazzata.
– il tema non è nuovo ed è stato affrontato da più parti. Vanno raccolti tutti i dati e le idee già espresse a livello internazionale. Recentemente, la Carta Etica per le Scuole di psicoterapia proposta nel Consiglio dell’Ordine Veneto da alcuni consiglieri non ha passato il vaglio della maggioranza con la motivazione, fra le altre, che interferisce nella “libertà delle scuole” (il “liberi tutti” è veramente di moda, di questi tempi).
Gli ordini sono, in genere, intervenuti poco su queste tematiche e l’attenzione andrebbe aumentata, così come gli interventi.
Anche le altre agenzie formative si sono poco poste queste tematiche. Mi riferisco alle società scientifiche professionali, alle Università che ancora non si fanno carico sufficientemente del fatto che la formazione professionale è ormai un loro obiettivo e che nel nostro campo formazione di base vuol dire: conoscenza dei vari problemi e orientamenti e della psicopatologia psicologicamente intesa, competenza relazionale acquisita in esperienze gruppali dirette, in tirocini supervisionati, nell’acquisire la capacità di progettare la cura attraverso la valutazione clinica, ecc. Penso, anche alla Commissione ministeriale, in passato non sufficientemente attenzionante il problema della qualità clinica di training, scuole e didatti. Il proliferare di scuole, grandi e piccole, che a volte fanno una formazione “casual” con didatti, a loro volta, non formati e non realmente terapeuti, con corsi attivati anche in luoghi non autorizzati e con corsi concorrenziali alla psicoterapia. Mi chiedo in quante scuole la formazione “etica” sia considerata prioritaria e la maturità emotiva e sociale rispetto a questo, motivo di selezione o di interruzione della formazione. È stato anche sopravvalutato il ruolo degli universitari (e lo scrivo da vecchio professore) che, di per sé, non hanno spesso, anche se bravi, competenza nello specifico campo della psicoterapia.
L’insegnamento dell’etica clinica deve, invece, diventare centrale a partire dalle università, così come è centrale l’analisi (e la cura) della personalità dei futuri terapeuti e della loro capacità di gestire ed esserci nella relazione, le cui valenze emotive e simboliche sono il principale strumento di cura.
Anche a livello più scientifico-professionale ci sono, a mio avviso, da chiarire quanto meno i problemi della cura delle patologie e della terapia personale dei terapeuti, della conoscenza delle basi della psicoterapia nel suo insieme e delle  specificità professionali di questa disciplina e dei suoi metodi.
Io penso che dobbiamo farci carico della parola cura poiché essa dà un senso di responsabilità etico-professionale (e, ad esempio, nella questione abusi, significa molto). La differenza tra psicoterapia e modellistiche medico-positiviste-obiettiviste è ormai chiara a livello professionale e scientifico-empirico. La responsabilità rispetto ai pazienti può invece essere simile con delle precisazioni. Una è che nel nostro campo non c’è la cura standard uguale per tutti (e, per molti aspetti è così anche in clinica medica), ma ci sono progetti, obiettivi e metodi da considerare per ogni situazione soggettiva. Un’altra è che lo strumento principale del nostro lavoro  (condiviso con altri, differenti per orientamento) è la relazione, sia che riguardi noi, che la vita e la storia  psichica dei pazienti, sia la dinamica del set(ting).
La questione delle problematiche personali del terapeuta, la necessità della cura e della conoscenza di sé, la sua consapevolezza rispetto alle proprie tematiche inconsce (termine che, usato in senso alto, può andar bene a quasi tutti) ed ai suoi bisogni relazionali (cognitivi, affettivi, sessuali, ecc.) non è bypassabile da nessuno. Come si risolve il problema? Io, personalmente propendo per i gruppi, sia per mia de-formazione, sia perché penso, credo ragionevolmente, che un’esperienza di cura di sé, collegata all’esperienza di essere in relazione, sia buona per un futuro terapeuta.  In passato il problema della deontologia (e quindi, dei rischi di abuso) veniva risolto in ambito di terapie direttive (ad esempio, sistemiche o cognitivo-comportamentali) con un’etica quasi di tipo medico, poiché il lavoro era centrato, soprattutto su ciò che si indicava ai pazienti nelle terapie analitiche con lunghe ed approfondite analisi personali. In entrambi i modelli con robuste supervisioni con didatti esperti (cosa che resta fondamentale). Questi modelli avevano entrambi pregi e limiti rispetto al problema degli abusi ed, inoltre, la comunità professionale era ridotta e ci si conosceva tutti. Oggi la psicoterapia, in tutti i suoi orientamenti e set(tings) è sempre più centrata su concetti quali, relazione, comunicazione, consapevolezza, significato, superamento sintomatico (in senso stretto ed ampio), comprensione. Lo strumento  relazione è, come dicevo, diventato centrale (ad esso si possono integrare, a seconda dei modelli, interpretazione, prescrizione, indicazioni operative, ecc.) e quindi il problema dell’etica e della gestione dei rapporti è diventato ancora più rilevante. Così come lo sono la consapevolezza, la professionalità, l’etica,  la salute mentale, ed il sano rapporto con i propri bisogni, del terapeuta. Credo, quindi, senza ritornare all’allusione dell’analisi salvifica e risolutiva di tutto, che l’importanza di un’approfondita (non un gruppo di discussione di 50-100 ore nella scuola) terapia ( e non pedagogia) personale debba tornare ad essere centrale e che debba essere aperta una riflessione su questo in tutte le scuole rigorose, a prescindere dall’orientamento.
Dell’etica, a mio avviso, fa però parte anche una cultura che abbia consapevolezza della psicopatologia, del progetto terapeutico, della capacità di parlare dei limiti dell’intervento, del rispetto della sofferenza e della persona del paziente, della supervisione e valutazione permanente del lavoro. In particolare, ripeto, in conclusione che un profondo lavoro relazionale che lo implichi in prima persona sia un passaggio centrale per il futuro terapeuta, così come lo è una robusta formazione clinica, metodologica, psicopatologica, epistemologica, ecc.. Spero  di aver rotto il ghiaccio e che si possa aprire una profonda ed etica riflessione che vada in una direzione costruttiva per la professione e per i nostri pazienti.

Gabriella Alleruzzo

Author: Gabriella Alleruzzo

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3 Comments

  1. Io sono più che d’accordo con quel che afferma il prof Lo Verso che conoscono solo ora, colpevolmente.
    Esiste un problema profondo, che da molti anni sto cercando di porre all’attenzione : la solitudine del paziente, non garantito in nulla in caso di errori o manipolazioni ( non parlo di abusi fisici o sessuali).
    Esiste una lunghissima linea sottile , una terra d nessuno, che concerne l’impunibilità del terapeuta che si comporta male. Non esiste terzietà in caso di deragliamento, voluto e involontario, del rapporto.
    Sto cercando di pubblicare un breve spunto che posterò anche qua, sperando che inneschi un dibattito.

    Maurizio Montanari

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  2. Mi fa davvero piacere che il prof. Lo Verso, peccato forse solo lui in questa sede, sollevi e torni sulla questione etica. Le Università, a mio parere, sono i primi soggetti responsabili di questo degrado, di questo assordante silenzio. Ma perché l’etica non è centrale nella formazione di noi psicologi? E poi dovremmo stupirci dell’immagine spesso negativa che abbiamo(con la conseguente calo di utenti)? Molti sono gli esempi che al riguardo potrei portare e che, pur e fortunatamente, non arrivando all’abuso, sono professionalmente molto gravi. Purtroppo molti, troppi universitari sono autoreferenziali, vivono nella loro unisfera mentre fuori, noi e i pazienti abbiamo bisogno di ben altro. Gli psicologi sicuramente di una formazione puntuale e non sommaria sull’etica professionale fin dal percorso triennale non rinviabile, dal mio personale e professionale punto di vista, alle varie ed eventuali scuole di psicoterapia.

    Stefania Resta

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    • @Stefania Resta, Sono pienamente d’accordo cara collega, ma bisognerebbe anche interrogarsi sul perché, o meglio sui perché, di questo degrado morale. Come si può essere “morali” partendo dalla posizione profondamente immorale della psicoterapia? Ragioniamo per un momento “per assurdo”, come si fa a volte in matematica: se è verò che la psicoterapia è una “scienza” costellata di epistemologie personali, e di innumerevoli punti di vista teorici, non è possibile sostenere anche che la terapia possa anche comprendere degli approcci sentimentali o sessuali? In base a quale criterio condiviso possiamo contraddire questo assunto? Ovviamente si tratta di una provocazione, una provocazione i cui contenuti non riflettono, ovviamente, la mia posizione personale, e tuttavia potremmo ancora aggiungere: visto che la psicoterapia è quell’arte che ognuno si può inventare, o reinventare, per conto proprio, non credete che sia facile autolegittimarsi, in quanto terapeuti, all’abuso (che quindi non viene più considerato tale)? Parlare di “moralità” della psicoterapia è, a mio avviso, come pretendere di trovare il bon ton in una stalla di porci… .

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