Psicologia e mass media: se il soggetto è ridotto a topo di laboratorio…
Gentili colleghi, vi scrivo per segnalarvi alcuni articoli comparsi sulla stampa e un intervento di Andreoli sugli attacchi di panico alla trasmissione di Rai 3 “Elisir”. La tendenza è ancora una volta quella di dare spiegazioni riduzioniste sui disturbi psicologici, focalizzandosi spesso solo su aspetti prettamente medici.
http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-c0717669-bd50-4cd9-90c5-ff4a4ffd076b.html#p=0 (dal minuto 01:06:00 al 01:29:12)
Lettera firmata
COMMENTO DELLE DR.SSE ANNA BARRACCO E IMMACOLATA PATRONE
Partiamo dalla presente segnalazione, simile a tante altre che riceviamo quotidianamente, considerandola una sorta di piccolo campione casuale di articoli e trasmissioni televisive attraverso i quali quotidianamente i lettori e gli ascoltatori vengono a “contatto” con temi di carattere psicologico e, in base ai quali acquisiscono informazioni scientifiche e “consigli” che entrano a far parte del loro bagaglio culturale, del loro modo di trovare spiegazioni e di affrontare problematiche a carattere psicologico, con le quali possono, direttamente o indirettamente, confrontarsi. Si può notare come spesso accade ai mass media di trattare temi psicologici in maniera banale o, al contrario di focalizzarsi su spiegazioni scientifiche di carattere prettamente medico-biologico, utilizzando argomentazioni di fatto riduzioniste, che paradossalmente riducono il peso degli elementi essenziali dell’argomento che trattano, ovvero degli aspetti psicologici o evitano di prenderli in considerazione nella trattazione dell’eziologia dei disturbi psicologici. Ma vediamo più nel dettaglio di cosa stiamo parlando. Il primo articolo, “Anoressia, un ‘difetto’ nel cervello, ci fa vedere diversi da ciò che siamo”, tratta di quella che viene definita una “scoperta” di alcuni ricercatori italiani, i quali attraverso le moderne tecniche del neuroimaging avrebbero rilevato cambiamenti nel volume del cervello di pazienti anoressiche adolescenti. Non entriamo nello specifico delle metodologie e dei presupposti teorici-scientifici che hanno guidato la ricerca, della quale non conosciamo i dettagli, ma focalizziamoci su come i cosiddetti “risultati” di questa ricerca vengono trattati e comunicati attraverso i mezzi d’informazione di massa. Dalla lettura dell’articolo rimaniamo ancora una volta colpite dall’enfasi, dalla peculiarità prettamente biologico-genetica e dalla “certezza” che traspare da alcune affermazioni: “causa ‘endogena’ della malattia” , “La colpa è di un ‘difetto di fabbrica’ del cervello”, “L’anoressia è una malattia che parte dalla mente per poi arrivare al corpo devastandolo nella sua biologia”, “Fino ad oggi infatti abbiamo sempre considerato l’interazione di molteplici fattori: biologici, genetici, ambientali, sociali, psicologici e psichiatrici. Ma finora non era stata ricercata la causa nella struttura cerebrale”, “Va detto però – dice il ricercatore – che nelle giovani donne malate del campione l’anoressia durava da meno di un anno. La media, infatti, era di cinque mesi, un lasso di tempo in cui la malattia non poteva aver modificato con il dimagrimento la struttura cerebrale”. Nelle ragazze affette da anoressia, dunque, il “difetto” preesisteva”.
In questo modo di porre, di proporre al lettore medio il problema, si annida il grosso rischio di semplificare e di coltivare la speranza di una causa esclusivamente endogena, che escluda ogni responsabilità o concausa intersoggettiva e sociale. Un difetto nel cervello che porti a comportamenti disturbati, a un comportamento così misterioso e inspiegabile, come il rifiuto del cibo fino a lasciarsi morire, che renderebbe forse le cose più semplici.
Ma ciò su cui vorremmo mettere l’accento, a scanso di equivoci e anche per evitare la solita polarizzazione “medicina-psicologia”, o “corpo-mente”, è la tendenza in sé alla semplificazione, che spesso troviamo nella trattazione di questi problemi, da parte dei mass media.
Interessante, in questo senso, è la seconda segnalazione.
“Salute: studio, più navighi su facebook più rischi disturbi alimentari”, “I risultati hanno mostrato che piu’ tempo le ragazze passavano su Facebook, piu’ soffrivano di bulimia, anoressia e approcci negativi nei confronti dell’alimentazione”, “maggiore e’ l’esposizione su internet alle tematiche legate alla moda, piu’ alta e’ la probabilita’ di una ragazza di sviluppare l’anoressia”,“Le giovani che hanno navigato su internet insieme ai genitori e hanno discusso criticamente con loro i contenuti fruiti hanno mostrato piu’ autostima e formato cosi’ uno scudo protettivo contro i disturbi alimentari”. Proviamo ad immedesimarci in un lettore comune che sullo stesso tema può trovarsi a leggere più articoli diversi nello stesso giorno, magari soffre proprio di questo disturbo, o ha un parente che ne soffre e, colpito dai termini “studio”e “ricerca” si concentra nella lettura di più articoli che lo riguardano, nella speranza di trovare delle risposte. Il disturbo alimentare è “difetto di fabbrica del cervello” o, “piu’ tempo le ragazze passano su Facebook, piu’ soffrono di bulimia, anoressia e approcci negativi nei confronti dell’alimentazione”? E la psicoterapia può servire? Se è un difetto del cervello non serve a niente, bisogna solo sperare che scoprano una cura farmacologica o in una scoperta scientifica miracolosa che consenta, attraverso speciali tecniche, di aumentare il volume di materia grigia del cervello! Ma no, sarà probabilmente l’esposizione a facebook, basta navigare in compagnia dei genitori e discutere criticamente dei contenuti fruiti in internet e al diavolo la psicoterapia!
In realtà anche la teoria della vicinanza dei genitori, la correlazione fra facebook e disturbi alimentari, presentata così, soffre di un “difetto di origine”. Ogni ricerca è falsata all’origine dalla bontà delle ipotesi iniziali. La ricerca psicologica e clinica, nel momento in cui si pone un obiettivo epidemiologico, deve includere un’idea di ricerca sociale, una metodologia della ricerca sociale, che tenga conto delle cosiddette “variabil intervenienti”, che possono costituire veri e propri “bias” significativi. Un esempio classico, di “scuola”, è quello per cui se mettiamo in correlazione la presenza di discoteche con la presenza di microcriminalità in un quartiere, vediamo che può esserci correlazione significativa. Dunque le discoteche sono causa, nel senso che predispongono, ai comportamenti devianti? In realtà ad una più attenta analisi dei dati, non sarà difficile verificare che la presenza di discoteche ha a che vedere con la presenza di popolazione in età giovanile, e dunque la discoteca in sé, non è che una variabile interveniente. Dunque non è solo e non è tanto il prevalere (che pure però si deve notare) del paradigma biologistico, evidence based, dove l’evidenza è spesso solo un’illusione pseudo-sicentifica, che qui si vuole sottolineare, ma soprattutto la tendenza a identificare il discorso scientifico con il modello della causalità lineare, dove un fattore viene isolato come causa, e un altro fattore viene indicato come effetto, senza considerare che i due fattori sono in realtà complessi ed interconnessi ad altri, andrebbero definiti ,e non possono essere isolati come variabili di laboratorio. Cos’è la comunicazione genitori figli? Cos’è l’autostima? Come si misura la maggiore o minore propensione al disturbo alimentare? Quali altri elementi ci servono per definire e rendere omogeneo il campione che isoliamo? E’ possibile che le ricerche cui i giornali fanno riferimento tengano in considerazione queste questioni di cornice, tuttavia sembra che niente, della grande lezione sociologica degli anni 70 sembri essere stato trattenuto dai mass media, che si accontentano di queste banalizzazioni.
Un testo come “social class and mental illness”, uscito in Italia nel 1972, con il titolo “classi sociali e malattie mentali” è stato al centro di un ampio dibattito scientifico all’epoca non solo e non tanto per l’argomento in sé, ma appunto per la metodologia e la logica che questo studio voleva testimoniare. Quali fattori sociologici presuppongono e strutturano il concetto di devianza? Che rapporti ci sono fra devianza e disagio? Il dato soggettivo, il vissuto, in che modo ed entro quali limiti va considerato come avulso da un contesto sociologico e dunque anche politico (inteso come rapporti di potere, lotta fra interessi contrapposti)?
All’epoca certo questa prospettiva aveva dato luogo ad un dibattito molto ideologizzato, in cui si contrapponevano visioni del mondo. Da una parte gli psicologi progressisti, propendevano per una eziologia di tipo socio-culturale, mentre la visione del mondo di chi propendeva per un primato della biologia, sottendeva un ideale politico conservatore.
Oggi tuttavia, sembra che il dibattito scientifico – almeno se lo si guarda da come appare, da come viene presentato dalla stampa quotidiana, riproduce un disarmante riduzionismo, che sembra tuttavia privato anche del suo valore ideologico.
Non ci sono più ipotesi “biologiste” o “sociologiche”, non si intravede alcuna prospettiva epistemologica o etica; semplicemente, il lettore viene messo davanti a quello che sembra un “mercato delle idee”, un mercato di ipotesi “pret à porter”, la cui correlazione con altre idee, altre ipotesi, altre correlazioni, è lasciata alla capacità integrativa del singolo.
Passiamo all’ articolo successivo, “La negatività sta nei geni: pessimisti si nasce, non si diventa”, come nel precedente articolo la nostra attenzione si focalizza su alcune frasi ad effetto “alcune persone sono geneticamente programmate per essere negative”, “I ricercatori hanno scoperto che i livelli della molecola chiamata neuropeptide Y (Npy) definiscono direttamente se vediamo il bicchiere mezzo vuoto o il bicchiere mezzo pieno”, anche in questo caso non entriamo nei dettagli della metodologia utilizzata, anche se appare abbastanza singolare la forte correlazione che si afferma di riscontrare tra le risposte alle prove dei soggetti coinvolti, il livello Nyp e la “negatività”, intesa come pessimismo dei soggetti, l’associazione con la depressione e addirittura la forte fiducia che tutto ciò possa un giorno “guidare verso la valutazione del rischio individuale per lo sviluppo di depressione e ansia”. Nella nostra mente affiora già l’immagine di una possibile equazione matematica che ci consenta di calcolare il rischio di ammalarci di depressione o ansia. Ma niente paura per i malcapitati che avranno il valore X superiore al livello soglia, arriverà un’altra scoperta, l’equazione matematica che consentirà di calcolare il numero di milligrammi del principio attivo “Npao” (il “neuro principio attivo dell’ottimismo”) in grado di pareggiare il conto.
Prendiamo in considerazione infine, ma non ultimo in ordine d’importanza il mezzo televisivo ed in particolare la trasmissione televisiva “Elisir”, una sorta di “salotto televisivo d’informazione scientifica”, di buona qualità e di importante spessore per le personalità del mondo scientifico ospitate, per gli argomenti trattati e per l’interesse che suscita presso i telespettatori. Per quanto ne sappiamo la psicologia, gli psicologi e gli psicoterapeuti sembrano non aver mai occupato presso questa trasmissione il posto d’onore riservato ad altre branche scientifiche e ad altri professionisti, anzi, spesso per gli argomenti a carattere psicologico, vengono consultati esclusivamente psichiatri o altri medici. La segnalazione ricevuta fa riferimento all’intervento dello psichiatra Prof. Andreoli, il quale intervistato sugli attacchi di panico ne dà una spiegazione prettamente medico-biologica, definendoli innanzitutto “malattia da attacchi di panico” e affermando che “il primo elemento da considerare è certamente la biologia”, egli si dilunga sui meccanismi cerebrali coinvolti nella paura e, di tanto in tanto accenna ad altri fattori, quali i fattori inconsci, fattori economico-sociali, la crisi economica, o si lascia andare ad espressioni del tipo “se fosse qualcosa di biologico sarebbe più stabile”, che farebbero presagire un imminente introduzione nella spiegazione di altri elementi, come quelli a carattere psicologico, che in realtà rimangono silenti sullo sfondo per tutto il tempo della trasmissione, come se non riguardassero l’argomento trattato o non si dovessero citare. Uno dei momenti più interessanti arriva quando telefona una telespettatrice che rivolgendosi al Prof. Andreoli afferma di soffrire da sei anni di attacchi di panico, che cura con farmaci “antipanico” e chiede se deve smettere o continuare a prenderli, ella afferma, in seguito ad una domanda che le viene posta, che quando non prende i farmaci ritornano gli attacchi di panico. A quel punto l’esclamazione sia del presentatore che del prof. Andreoli è lapidaria, apparentemente rassicurante e accompagnata da un sorriso bonario : “non smetta!”. Il prof. aggiunge che questa risposta può sembrare semplice, ma la signora sa bene cosa vuole dire soffrire di attacchi di panico e in fondo il farmaco l’aiuta e non ha effetti collaterali. Il presentatore accenna a questo punto timidamente una domanda senza mai citare la parola impronunciabile “psicoterapia”: “a parte il farmaco, lei suggerisce un lettino o una poltrona?” Il Prof. pronuncia appena timidamente la frase “forse una poltrona”, ma poi ritorna a parlare dell’argomento che ritiene più importante, i meccanismi cerebrali della paura.
Il soggetto non viene dunque messo in condizioni di interrogarsi sul suo malessere, di dare significato, di acquisire consapevolezza, di cercare in se stesso risorse adeguate per far fronte al suo disagio e superarlo. Il disagio è solo un disordine, uno squilibrio biochimico da regolare dall’esterno attraverso l’introduzione di soli elementi chimici, e l’obiettivo è quello di ripristinare una situazione primitiva, in cui il disagio non si era manifestato. “Se il farmaco funziona, continui a prenderlo …”. Cos’altro dire? Del resto solo uno psicologo o uno psicoterapeuta formato ad un modello diverso da quello biologico potrebbe far nascere, all’interno di una conversazione televisiva così pensata, l’interrogativo per cui anche il momento in cui si manifesta un sintomo nella storia di vita del soggetto ha una sua importanza, anche la relazione tra il suo malessere e l’ambiente circostante ha una sua importanza, anche il voler smettere di dipendere dal farmaco può essere un “sintomo”, una questione soggettiva su cui il soggetto ha diritto di dire la sua. E non solo e non tanto per una questione economica, o per eventuali effetti collaterali, intesi in senso strettamente fisico, ma per una questione prettamente psicologica-esistenziale.
Quali “effetti collaterali” lamenta un soggetto che sente di voler andare oltre un comportamento che pure gli ha dato dei risultati, ma che oggi forse gli procura un malessere? Quale ulteriore bisogno sta esprimendo? E’ possibile una medicina, una psichiatria, che contempli un malessere, appunto, in assenza di un sintomo manifesto? Un malessere, persino, che nasca da un’apparente risoluzione del sintomo?
“Prendo il farmaco e sto bene, non lo prendo, e gli attacchi ritornano”Lo psichiatra risponde: “continui a prenderlo”. Lo psicoanalista o lo psicoterapeuta potrebbe rispondere “Dunque il farmaco sembra fare il suo dovere; e tuttavia questo lascia fuori qualcosa… un’insoddisfazione, un disagio, un vuoto. Quale? Cosa è accaduto nella sua vita quando è sorto il sintomo? Cosa accade oggi?”
La mancanza della psicologia, sia fisicamente attraverso un suo rappresentante, sia culturalmente come uno degli elementi importanti nella discussione, crea una mancanza ben più grave, ovvero una mancanza di comprensione accogliente, empatica della domanda dei pazienti e di conseguenza una mancanza di risposte adeguate.
Occorre spostare l’attenzione, in linea con le più importanti ricerche scientifiche in campo medico, psicologico, neuropsicologico, da un’analisi lineare ad un’analisi circolare e complessa dei fenomeni, che prenda in considerazione l’interazione tra diversi elementi di diversi sistemi interagenti tra loro, nella quale “per giungere alla comprensione del fenomeno ci si sposta continuamente dalle parti al tutto e dal tutto alle parti” (Morin 1984; Morin 1985).
Ma soprattutto questo approccio lascia fuori una definizione epistemologicamente corretta di sistema bio-psico-sociale, che è lo scarto, il vuoto, che il soggetto deve poter iscrivere nel discorso scientifico. Il soggetto è colui che abita il corpo vivente, ed è dunque ciò che produce l’integrazione dei discorsi attraverso l’effetto di soddisfazione, o insoddisfazione, di cui è portatore.
Un approccio al disagio umano, che non considera la complessità dell’oggetto di studio, e che tende a cancellare la particolarità del soggetto, non è scevro da rischi. Quella che appare nei media è una medicina, una psichiatria, o anche una psicologia (peraltro presentata spesso da non psicologi) in cui sembra non essere preservato il posto per il soggetto. Non dimentichiamo che ogni rinnovato afflato verso un biologismo trionfante, si è accompagnato nella storia, anche recente, a scelte di segregazione e di intolleranza, cui le discipline mediche e soprattutto la psichiatria non ha mancato di dare i suoi agghiaccianti contributi.
Oggi non è un caso, forse, che si riaffacciano alla ribalta della scienza, studi sulla radice biologica, o razziale, dell’intelligenza, ai quali fanno eco i trionfanti proclami per cui ogni approccio sociale o psicoanalitico al disagio è bollato come antiscientifico e retrivo.
La buona medicina e la buona psichiatria, insieme alla buona psicologia e alla cultura in generale, dovrebbero essere impegnate, insieme, a dire di no a questa propaganda banalizzante e pericolosa, che ci riporta indietro nel tempo e che dietro ad una scienza presentata come sofisticata e innovativa, coltiva l’illusione scientista di una salute espropriata ai soggetti e alle comunità, una salute tutta nelle mani dei tecnocrati e dei tecnici.
La salute, in particolare la salute mentale, è invece ancora oggi e forse oggi più che mai, un patrimonio dei soggetti, una responsabilità politica prima ancora che sanitaria, alla cui custodia sono tutti i cittadini, i pazienti, i familiari, la società nel suo complesso a concorrere.
Non c’è salute mentale, non c’è ricerca, non c’è psicologia o psichiatria eticamente orientata che non parta dalla complessità e dunque crediamo che questi articoli non facciano un buon servizio alla cittadinanza e neanche ai professionisti della salute, medici, genetisti, psicologi o ricercatori che siano. Articoli e approcci come questo allontanano le persone dalla vera scienza e contribuiscono ad alimentare la distanza fra il paziente e il medico, distanza che ci riporta indietro nel tempo, e che sembra voler riaffermare quell’alone di mistero e di magia onnipotente, cui la scienza moderna sembra godere nell’immaginario contemporaneo, occupando il posto di una nuova religione.
23 maggio 2011
Brevemente: sono pienamente d’accordo con l’analisi teorico- epistemologica fatta dalle due colleghe. Tuttavia, credo anche che vi sia da chiedersi: è solo colpa dei medici, se la cultura della psicologia e della psicoterapia viene snobbata parlando di salute? Il messaggio che arriva dalla cultura della psicologia clinica, è un messaggio chiaro, credibile?..Oppure è un messaggio frammentario, confuso, scientificamente molto discutibile? Pensate che sia facile, per un non-addetto ai lavori, distinguere la sfida di una scienza complessa in psicologia, in mezzo alle mille altre voci che vanno dal vetero-scientismo ottocentesco al puro approccio umanistico-creativo? Pensate che siano in molti, tra gli stessi psicologi, ad avere chiara la concezione scientifica da assumere facendo psicologia (quella della complessità)? Se esistono tante scienze della psicologia quanti sono gli psicologi, non credete che, dall’esterno, dagli altri ambiti disciplinari, si possa arrivare alla conclusione per cui..”tante scienze, e nessuna vera scienza della psicologia”? Non è possibile che, se la psicologia è una forma di cultura “debole”, un poco di responsabilità ce l’abbiamo anche noi psicologi? Non dovremmo essere noi i primi ad esser bravi nell’arte dell’autocritica? Come mai la psicologia non sa riflettere su se stessa, non sa rinnovarsi e migliorare?…E sempre colpa della altrui banalità e superficialità se non veniamo ritenuti autorevoli, e quindi mediaticamente presentabili come “esperti” che danno consigli sulla salute?…Meditiamo gente, meditiamo!!