Parere sull’articolo “Psychology vs. Psychiatry: what’s the difference, and which is better?” di John Cloud, pubblicato su Time (versione Online) venerdì 1 ottobre 2010

di Piero Porcelli

Il fatto
Il 1° ottobre 2010 l’American Psychiatric Association (APA) ha pubblicato la terza edizione delle linee-guida per il trattamento della depressione maggiore (scaricabile dal sito APA all’indirizzo: http://www.psych.org/MainMenu/PsychiatricPractice/PracticeGuidelines_1.aspx). La sorpresa, che ha spinto il giornalista a darne conto su Time, è costituita dall’ordine di preferenza dei trattamenti. Come trattamento di prima linea la farmacoterapia viene consigliata per “pazienti con depressione da lieve a moderata” e prescritta per “coloro con depressione grave”; come trattamento di seconda linea viene consigliata la terapia somatica elettroconvulsivante (ossia l’elettroshock), soprattutto per i casi gravi che non rispondono ai farmaci; e solo in terza battuta la psicoterapia. Rispetto alla seconda edizione del 2000 delle linee-guida, la psicoterapia è “scivolata” dal secondo al terzo posto mentre la terapia elettroconvulsiva è passata dal quarto (dopo la combinazione di psicoterapia e farmaci) al secondo posto. Nota ironicamente il giornalista che la contrapposizione fra psichiatria e psicologia è oggi tanto profonda che probabilmente le due organizzazioni professionali americane – che paradossalmente hanno lo stesso acronimo APA – rifiuterebbero reciprocamente l’amicizia su Facebook. Cosa c’è di scandaloso se l’organizzazione degli psichiatri americani compila le linee-guida ad uso degli psichiatri iniziando il trattamento della depressione con gli antidepressivi e solo in terza battuta (ma davvero è meglio l’elettroshock della psicoterapia? Mah!) con la psicoterapia? Nulla, tranne che questo non viene detto in un “bugiardino” di un SSRI ma nelle linee-guida ufficiali, frutto di anni di lavoro della commissione che ha revisionato tutta la letteratura recente per circa 10.000 lavori.

Le linee-guida
Cosa sono le linee-guida terapeutiche è noto. Servono al medico per individuare la migliore terapia possibile per un dato disturbo e al paziente come garanzia di ricevere il trattamento basato sulla migliore evidenza scientifica. In sostanza, io utente sono garantito di essere curato al meglio di quanto si sa sulla mia malattia e il mio medico è certo di prescrivermi il trattamento più corretto secondo non solo coscienza (propria, individuale, clinica) ma anche scienza (che è conoscenza condivisa). Il problema sta proprio qui: i dati scientifici accumulati in centinaia di lavori sul trattamento della depressione vanno in una direzione molto diversa da quella delineata nelle linee-guida APA. Non è un problema di ideologia o opinioni differenti. E’ una questione di dati empirici: le evidenze (traduzione letterale dall’inglese per indicare le prove, le dimostrazioni, i “fatti” delle sperimentazioni) dicono che la psicoterapia non è seconda (meno che mai terza) agli antidepressivi. C’è un valore aggiunto nel mercato di managed care americano, che – almeno per il momento – noi italiani non abbiamo: il rimborso delle terapie da parte delle assicurazioni avviene anche sulla base delle linee-guida per cui alcuni pazienti potrebbero correre il rischio che la propria assicurazione non autorizzi il rimborso della psicoterapia con una diagnosi di depressione maggiore se prima non sono state tentate senza successo la farmacoterapia e la terapia elettroconvulsiva. Si comprende che la situazione molto opinabile sul piano scientifico può facilmente diventare drammatica su quello umano. Ma cosa sappiamo oggi della terapia contro la depressione?

Gli antidepressivi
Nella letteratura scientifica, gli ultimi anni sono stati piuttosto bui per i farmaci antidepressivi e per la credibilità della psichiatria (Fava, 2009), tanto da far intervenire pesantemente la Commissione Finanza del Senato USA, in prima istanza per opera del suo presidente, il Sen. Charles Grassely. Ri-analizzando i dati di 74 studi controllati su 12 antidepressivi (per un totale di oltre 12.000 pazienti), depositati dalle aziende farmaceutiche presso la Food and Drug Administration (FDA) americana, Turner et al (2008) hanno trovato che solo la metà degli studi erano a favore del farmaco contro il placebo. Mentre, però, 37 dei 38 studi a favore del farmaco sono stati pubblicati, solo 3 dei 36 studi in cui non è stata trovata alcuna differenza fra farmaco e placebo sono stati pubblicati, e addirittura 11 dei 36 trial sono stati pubblicati “addomesticando” i risultati in modo da farli apparire in positivo, contrariamente al parere negativo della FDA. I lavori pubblicati a favore degli antidepressivi sono pertanto viziati da quello che si chiama publication bias (pubblicare solo i trial che mostrano risultati positivi) o hypothesizing after the results are known (HARKing, ossia pubblicare il lavoro alterando l’ipotesi principale stabilita quando il trial è stato progettato e riformulandola a seconda dei risultati ottenuti).
Non si tratta solo del narcisismo dei ricercatori ma di un problema più ampio, arcinoto come “conflitto di interesse”. Dei 170 membri della task force APA per lo sviluppo del DSM-IV, ben il 57% aveva almeno un conflitto di interesse (ossia sponsorizzazioni varie di un’azienda farmaceutica), con punte del 100% proprio per il gruppo sui disturbi dell’umore (Cosgrove et al, 2006). L’80% degli autori delle Clinical Practice Guidelines APA, come quella di cui ci occupiamo in questa sede, ha un serio conflitto di interessi per legami con aziende farmaceutiche nei rispettivi settori di competenza, di cui il 60% per la depressione maggiore e il 100% per schizofrenia e disturbo bipolare (Cosgrove et al, 2009). I lavori (dai trial alle review) sponsorizzati da Big Pharma hanno una probabilità di 4-5 volte maggiore di essere pubblicati rispetto ai trial indipendenti, i cui autori non hanno conflitto di interesse o che non sono stati sponsorizzati da qualche azienda (Lexchin et al, 2003). Ben un terzo di tutti i trial pubblicati sul New England Journal of Medicine nel 2005-2006 erano sponsorizzati da case farmaceutiche, tanto che, eliminandoli, l’Impact Factor della rivista – altississmo, pari a 47 – diminuisce del 15% (Lundh et al, 2010). Kirsch et al (2008), meta-analizzando tutti i 35 trial registrati presso la FDA di 4 antidepressivi di nuova generazione, hanno trovato una differenza significativa a favore del farmaco solo per i pazienti gravemente depressi (oltre 29 punti alla scala di Hamilton) che tuttavia era dovuta ad una minor efficacia del placebo, non ad una maggiore efficacia del farmaco. Se l’outcome viene misurato in modo più realistico come proporzione di pazienti che abbandonano la terapia a causa degli effetti collaterali (drop-outs) nei trial sia pubblicati che non-pubblicati, la differenza fra paroxetina e placebo scompare del tutto, per cui l’apparente superiorità del farmaco potrebbe essere dovuta all’impossibilità di “mascherare” il placebo sia nei pazienti che nei ricercatori proprio perché la molecola attiva ha pesanti effetti collaterali (e quindi tutti se ne accorgono) mentre la sostanza inerte del placebo no ((Barbui et al, 2008).
Nello studio di effectiveness più ampio mai effettuato, il Sequenced Treatment Alternatives to Relieve Depression (STAR*D) finanziato dal National Institute of Mental Health (NIMH) per complessivi 35 milioni di dollari, sono stati arruolati nella prima metà di questo decennio oltre 4000 pazienti depressi con lo scopo di valutare l’efficacia reale degli antidepressivi in pazienti che non hanno risposto ad una prima fase di somministrazione, con 4 step differenti di modificazione della terapia nel corso del tempo (12 mesi). Una recentissima ri-analisi dei dati ha illustrato un quadro scoraggiante (Pigott et al, 2010). La proporzione di pazienti con remissione dei sintomi (punteggio ≤7 all’Hamilton) è scesa progressivamente dal 25% (Step 1) al 10% (Step 4) mentre la proporzione di drop-outs è parallelamente salita dal 27% (Step 1) al 60% (Step 4). Fra i pazienti in remissione già allo Step 1 che avevano tuttavia deciso di continuare il trattamento e dunque avevano una potenziale buona probabilità di risultare responder (>50% di remissione dei sintomi), solo l’8% non ha avuto episodi di riacutizzazione nel corso dei 12 mesi dello studio. Non solo, quindi, l’efficacia reale (effectiveness, contrapposta alla efficacy “manipolata” dei trial sponsorizzati) degli antidepressivi è risultata molto ridimensionata ma addirittura viene supportata l’ipotesi avanzata qualche tempo fa da Fava et al (2007) secondo cui il mantenimento della terapia antidepressiva sul lungo periodo nei pazienti in remissione possa paradossalmente spingere il disturbo depressivo verso una fase di refrattarietà dovuta alla sensibilizzazione al farmaco ed alla diminuzione dei meccanismi di coping attivo verso l’adattamento. “L’ineluttabile conclusione dei risultati ottenuti dallo STAR*D – commentano Pigott e collaboratori – è che abbiamo in realtà bisogno di esplorare più seriamente altre forme di trattamento che possono invece essere più efficaci” (2010, p.277).

La psicoterapia
Le “altre forme di trattamento” cui si riferiscono Pigott et al sono la psicoterapia. In modo quasi parallelo – ma in direzione nettamente contraria – alla delusione sul trattamento farmacologico della depressione, negli ultimi anni si stanno pubblicando a ritmo elevatissimo trial importanti e meta-analisi sull’efficacia della psicoterapia per la depressione. Nel primo trial controllato di confronto fra psicoterapia a lungo e breve termine effettuato su 326 pazienti arruolati nell’Helsinki Psychotherapy Study fra il 1994 e il 2000 che ha visto impegnati 55 psicoterapeuti, è risultata, segnatamente per i disturbi dell’umore e la depressione maggiore, una riduzione significativa dei sintomi già a 7-12 mesi, con una percentuale di remissione completa a 3 anni del 43-50% (Knekt et al, 2008a). A questo risultato, bisogna aggiungere un parallelo effetto positivo già a 7-12 mesi, significativamente aumentato a 3 anni, della capacità lavorativa e dell’adattamento sociale (Knekt et al, 2008b). Esaminando i dati aggregati di più trial controllati, la tecnica statistica di meta-analisi consente di ottenere una misura di forza dell’associazione fra tipo di intervento (psicoterapia vs controllo) e risultato (successo del trattamento), denominata tecnicamente effect size (ES). Maggiore l’ES (>0.80), maggiore l’associazione. Lavori recenti di meta-analisi hanno accertato che l’ES di efficacia della psicoterapia rispetto ai sintomi depressivi è di 0.95 e rispetto alla capacità socio-lavorativa di 1.19 sul lungo periodo (Leichsenring et al, 2004). Stesso ampio ES è risultato in un’altra recentissima meta-analisi sull’efficacia della psicoterapia breve nei disturbi depressivi, pari a 1.34 (Driessen et al, 2010). Mettendo a confronto varie meta-analisi, Shedler (2010) ha evidenziato che l’ES per varie forme di psicoterapia (interpersonale, cognitivo-comportamentale, psicodinamica) si distribuisce in un range di 0.85-1.46, quindi con risultati ottimi a favore della psicoterapia. E’ interessante notare che l’ES dell’analisi di Turner et al (2008) sui trial registrati presso la FDA sugli antidepressivi tra il 1987 e il 2004 è di appena 0.31, non soltanto nettamente inferiore ai risultati sull’efficacia della psicoterapia ma che si situa ad un livello basso negli standard di interpretazione statistica. Poiché mascherare in cieco l’antidepressivo è difficile a causa degli effetti collaterali, perfettamente noti sia ai ricercatori che ai pazienti, se si prendono in considerazione i trial di confronto fra antidepressivo e molecola attiva (non placebo inerte, quindi), l’ES scende drammaticamente a 0.17 (Moncrieff et al, 2004).
In un noto lavoro di qualche anno fa (Hollon et al., 2005), è stato studiato un gruppo di pazienti depressi per 12 mesi dopo aver completato un ciclo di psicoterapia cognitivo-comportamentale o di antidepressivi. Il 76% dei pazienti ha avuto riacutizzazioni depressive alla sospensione degli antidepressivi e, di questi, il 47% ha avuto ulteriori episodi anche se sottoposti nuovamente a trattamento farmacologico, contro il 31% dei pazienti trattati con psicoterapia. Ciò significa che la psicoterapia non solo ha un’efficacia sul lungo periodo superiore agli antidepressivi ma che essa è efficace anche come mezzo per prevenire le riacutizzazioni. Risultati molto simili sono stati ottenuti da ricercatori italiani, prolungando di molto il tempo di osservazione. Adottando un approccio sequenziale (ad esempio, farmacoterapia seguita da psicoterapia o psicoterapia seguita da farmacoterapia a seconda dei principali problemi presentati dai pazienti), la psicoterapia cognitivo-comportamentale è risultata più efficace dei farmaci: alla sospensione del trattamento, le recidive sono state del 25% nei pazienti trattati con psicoterapia e dell’80% nei pazienti seguiti con la gestione farmacologica in 2 anni, e del 40% contro il 90% nel follow-up a 6 anni (Fava et al., 2005; Rafanelli et al., 2007). Ed è anche da sfatare l’idea che la psicoterapia sia efficace solo nei casi lievi mentre per i casi gravi di depressione è indicata la farmacoterapia. In una recente meta-analisi, è stato infatti dimostrato che l’efficacia della psicoterapia è addirittura maggiore nei casi di depressione grave (ES=0.63) che in quelli più lievi (ES=0.22) (Driessen et al, 2010). In una meta-analisi su 23 trial controllati di psicoterapia dinamica breve (su 1431 pazienti con vari disturbi psicopatologici, soprattutto depressivi) del prestigioso gruppo Cochrane, Abbass et al (2006) hanno trovato un ES moderato (0.35-0.69) a favore della psicoterapia rispetto ai gruppi di controllo, che aumenta sul lungo periodo: i dati fanno ipotizzare che il guadagno terapeutico si mantenga nel tempo, non solo per quanto riguarda il miglioramento dei sintomi ma anche le relazioni interpersonali e la riduzione degli atti auto-lesivi.

Terapia combinata: psicoterapia e antidepressivi

Risultati da altri studi suggeriscono la sterilità della contrapposizione fra farmaci e psicoterapia, a favore invece di una migliore efficacia della terapia combinata. E’ stato pubblicato un importante studio naturalistico randomizzato su pazienti in remissione dopo il trattamento per un episodio depressivo acuto. Questi pazienti sono stati trattati successivamente solo con antidepressivi oppure congiuntamente con farmaci e psicoterapia dinamica breve. Il tasso di recidive a 4 anni è stato la metà circa nel gruppo sottoposto a terapia combinata (27%) rispetto a quello trattato solo con i farmaci (47%) (Maina et al, 2009). Allo stesso risultato sono arrivati gli autori di review recenti, indicando la combinazione di psicoterapia e antidepressivi come la miglior soluzione terapeutica per la depressione maggiore, soprattutto se individualizzata su sintomi, personalità e bisogni del singolo paziente (Gibbons et al, 2008; Kay, 2009).

Conclusione

La contrapposizione fra psichiatri e psicologi, purtroppo sempre viva sul piano ideologico, è invece sempre più vetusta sul piano della conoscenza scientifica. Le conclusioni più oneste sul trattamento della depressione dicono che
1) la farmacoterapia antidepressiva dà esiti incerti se si analizzano i dati di ricerca pubblicati e probabilmente “inquinati” dal conflitto di interesse;
2) la psicoterapia ha efficacia almeno pari agli antidepressivi, se non superiore soprattutto sul lungo periodo e in termini di miglioramento negli aspetti lavorativi, sociali e comportamentali, non solo sintomatologici;
3) l’approccio combinato di farmaci antidepressivi e psicoterapia dà risultati verosimilmente migliori, soprattutto se il trattamento viene individualizzato sul singolo paziente.
Le linee-guida pubblicate dall’APA azzerano le ricerche più recenti e sembrano arroccate su posizioni vetero-ideologiche. Come abbiamo detto, le linee-guida servono sia al clinico che al paziente per fornire il miglior trattamento possibile ottenuto dai dati empirici più recenti e rigorosi. La politica sanitaria basata sulle linee-guida deve tener conto da un lato della conoscenza scientifica (fornire il trattamento migliore…) e dall’altro del mercato (…nelle condizioni più idonee con le risorse disponibili e gli investimenti sulla ricerca). Mettendo sul piatto della bilancia la posizione dell’APA e i risultati delle ricerche, c’è il fortissimo dubbio che la psichiatria americana stia facendo prevalere molto più il secondo aspetto sul primo. Noi europei sapremo fare di meglio, prendendo ad esempio l’esperimento inglese (Porcelli, 2009)?

Bibliografia
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Gabriella Alleruzzo

Author: Gabriella Alleruzzo

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3 Comments

  1. ringrazio il collega per il bellissimo contributo e mi complimento per la sua capacità di sintesi. E’ un articolo che conserverò e invierò ai vari medici tutte le volte che qualche paziente si rivolgerà a me dicendomi “il mio medico ha detto che la psicoterapia nel mio caso non serve a niente”.
    buona continuazione

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  2. Aggiungo che, oltre che problemi di pubblication bias e HARKing, è probabile che la psicoterapia (la variabile indipendente) così come intesa negli studi APA non sia esattamente quella che s’intende in area psicologica. In sostanza non è assolutamente confrontabile, ai fini di una ricerca scientifica, la psicoterapia condotta da uno psichiatra e quella condotta da uno psicoterapeuta formatosi in un percorso quadriennale specifico.

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  3. Con questo intervento vorrei dare sostegno alla mia tesi, per la quale se da una parte siamo screditati, come psicologi, da gran parte della comunità medica (vedi articolo al quale allego commento), dall’altra la nostra identità professionale viene costantemente “parassitata” dalle varie figure dei professionisti della “chiacchierologia”. Risultato: assottigliamente della credibilità dello psicologo agli occhi della società civile, e conseguente diminuzione degli spazi lavorativi. Veniamo ai fatti. In un famoso settimanale italiano, si incontra un’intera pagina di promozione pubblicitaria, che offre questo messaggio: “L’astrologia, quella professionale e seria, può aiutarci a prendere le decisioni giuste al momento opportuno e cambiare in meglio i momenti negativi, compensandoli e concentrando l’energia deve ne vale davvero la pena. Se arriva un transito severo bisogna affrontarlo con consapevolezza, possibilmente già preparati prima dal proprio astrologo. Se ad esempio arriva il famoso “Saturno contro” vorrà dire che è arrivato il tempo di prepararci per il dopo e guaradre, finalmente, negli occhi le cose che non vanno e affrontarle una volta per tutte.” E ancora: “Un’analisi seria e professionale del tema natale e della personalità di chi ci interessa, può darci tante informazioni sul suo carattere, sul suo modo di amare e di manifestare i sentimenti, sulle sue esigenze affettive, i suoi desideri più intimi e i suoi timori”. In risposta ad una domanda di Lamberto Sposini, che chiese: “Ma se ho un problema psicologico, non è più giusto andare dallo psicologo?”,mi capitò di sentire un astrologo rispondere in questo modo: “Questa è una scelta personale, anche noi abbiamo le nostre competenze in matera di psicologia!”. Bene, e così mentre la psicologia clinica è ancora immersa nella sua “guerra dei cent’anni”, tra questoni epistemologiche e risentite rivendicazioni di scuola, altre categorie fanno scempio del nostro sapere, tra chi ci scredita e chi fa il nostro stesso lavoro inventandoselo di sana pianta, agganciandolo alle tradizioni culturali più varie e alle filosofie più astruse. Meditate gente, meditate….

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