Differenze di genere: un capitolo ancora aperto.

di Ilaria Fabbri

Filosofia e religione, ancora prima della scienza, hanno dibattuto a lungo sulla differenza e sulla divisione tra i sessi. Secondo il Cristianesimo, Dio avrebbe creato il primo uomo, Adamo, a sua immagine e somiglianza come un essere perfetto, mentre Eva, la prima donna, sarebbe stata creata solo in seguito (e non da materia originale, bensì da una costola di Adamo!) con l’esplicita funzione subalterna di compagna durante la permanenza di lui nel Paradiso Terrestre. Nell’antichità Platone raccontava di Androgino: un terzo genere, figura mitologica, non figlio del Sole, come gli uomini, non figlio della Terra, come le donne, ma figlio della Luna che appartiene alla natura di entrambi. Il dimorfismo sessuale nella nostra, come in altre specie, è un dato di fatto biologico. Uomini e donne sono strutturati fisicamente in maniera diversa e non solo per quanto riguarda la conformazione dei loro apparati riproduttivi. I maschi adulti sono caratterizzati da una struttura ossea più robusta di quella femminile, possiedono una cintura scapolare più sviluppata che consente loro di avere più forza nel lancio degli oggetti, di ottenere migliori prestazioni nel tiro con l’arco e nella lotta, oltre a predisporli alle attività di caccia. Lo scarto di peso e altezza è considerevole: gli uomini sono in genere dieci centimetri più alti delle donne e pesano dieci chili di più. La massa muscolare maschile (in media 35 chilogrammi) è decisamente superiore a quella femminile (mediamente 23 chilogrammi). La donna possiede circa il 30-40% di forza muscolare in meno (fatto riconducibile anche a differenti caratteristiche chimiche delle fibre muscolari), il suo ricambio basale è più basso ed esistono differenze anche nella capacità di ossigenazione per quanto riguarda il numero dei globuli rossi per volume di sangue. L’insieme di queste caratteristiche predispone il sesso maschile ad una maggiore efficienza nelle prestazioni fisiche e rende perfettamente comprensibile il motivo per cui uomini e donne nello sport gareggiano separatamente. La donna però è dotata di un vantaggio genetico non da poco: il doppio cromosoma X la rende infatti meno vulnerabile a malattie come l’emofilia, la cecità ai colori o le infezioni, il rischio di mortalità perinatale è più basso, mentre l’aspettativa di vita è più lunga (Eibl-Eibesfeldt, 1993).

Recentemente l’interesse per le differenze di genere è tornato alla ribalta, soprattutto per quanto riguarda la personalità (http://www.plosone.org/article/info%3Adoi%2F10.1371%2Fjournal.pone.0029265), le cui divergenze tra i sessi, secondo gli autori, sarebbero state spesso sottostimate. Per comprendere questa distanza è opportuno per prima cosa riuscire a misurarla validamente. Al pari di altre caratteristiche psicologiche, le differenze di genere non possono essere misurate direttamente, ma spesso devono essere inferite dal comportamento osservabile. Oltre alle difficoltà metodologiche, comuni ad altre aree della psicologia, in questo ambito le idee precostituite e gli stereotipi rappresentano un’insidia molto grande per ogni tipo di approfondimento (Hines, 2004).

Il genotipo di un individuo innesca un processo delicato, detto “differenziazione sessuale”, attraverso il quale si arriva allo sviluppo di un fenotipo. Siamo di solito abituati a ragionare nei termini di una dicotomia assoluta tra maschio e femmina, anche se l’esistenza delle Sindromi da Intersesso dovrebbe farci riflettere sull’estrema flessibilità di questo processo. Il genotipo dell’individuo è infatti responsabile soltanto dell’avvio della differenziazione sessuale che procede poi soprattutto grazie agli ormoni prodotti dalle gonadi. Gli studi condotti sui roditori hanno dimostrato che manipolando i livelli degli ormoni secreti da testicoli e ovaie durante lo sviluppo perinatale si producono delle notevoli alterazioni sul comportamento sessuale di questi animali. La somministrazione di androgeni a ratti femmina prima della nascita, per esempio, determina la scomparsa permanente della lordosi, comportamento sessuale femminile tipico di questa specie (Phoenix et al., 1959). Sulla base di questo e di altri risultati analoghi e parallelamente a quanto succede per la formazione dei genitali esterni, è stato ipotizzato che il sistema nervoso venga “mascolinizzato” o “femminilizzato” dagli ormoni prodotti dalle gonadi durante svariati periodi critici dello sviluppo embrionale o postnatale. Gli ormoni sessuali avrebbero perciò degli effetti di organizzazione sul comportamento (Phoenix et al., 1959; Goy & McEwen, 1980), cioè organizzerebbero precocemente e in modo permanente alcuni comportamenti animali. Altre volte gli ormoni sessuali hanno effetti di attivazione, cioè danno il via ad un comportamento già organizzato precedentemente (è quanto si verifica durante l’estro: la variazione del livello degli ormoni prodotti dalle ovaie induce la recettività femminile e la posizione di lordosi che consente ai ratti di accoppiarsi). Sulla base di queste affascinanti scoperte è possibile ipotizzare influenze ormonali analoghe sul comportamento umano? In altre parole, è possibile parlare di un “cervello maschile” e di uno “femminile”?

Probabilmente l’ipotesi che il comportamento degli esseri umani sia interamente influenzato o determinato dagli ormoni sessuali non è sostenibile, soprattutto perché il cervello umano differisce in maniera evidente da quello di altri mammiferi, in particolare per quanto riguarda la corteccia cerebrale che è di gran lunga più sviluppata nell’uomo che in altre specie animali (Hines, 2004). Probabilmente non è sostenibile neppure l’ipotesi contraria e cioè che gli ormoni sessuali non abbiano alcuna influenza sul cervello umano. Sappiamo infatti che anche nella nostra specie la differenziazione sessuale dei genitali interni ed esterni viene guidata più dagli ormoni prodotti dalle gonadi che dai cromosomi sessuali, che gli androgeni vengono trasformati in estrogeni grazie al processo di aromatizzazione prima di legarsi ai recettori cerebrali e che la presenza delle ovaie di per sé non sia strettamente necessaria per molti aspetti dello sviluppo tipicamente femminile (Hines, 2004).

Nell’essere umano sono state riscontrate alcune strutture cerebrali sessualmente dimorfiche, come lo splenio e la commessura anteriore del corpo calloso (DeLacoste-Utamsing & Halloway, 1982; Allen & Gorski, 1991), i nuclei INAH-2 e INAH-3 dell’ipotalamo (Allen et al., 1989) e la suddivisione centrale della stria terminale BSTc (Zhou et al., 1995). Il cervello maschile pesa circa il 10-15% in più di quello femminile (Kimura, 2000), anche se questa differenza non sembra significativa per quanto riguarda la sua funzionalità generale (Vidal & Benoit-Browaeys, 2006). Altre differenze sono state riscontrate nel numero di cellule presenti in alcuni strati della corteccia cerebrale (Witelson et al., 1995) oltre che nell’amigdala e nei nuclei della base (Goldstein et al., 2001). Le moderne tecniche di neuroimaging hanno evidenziato inoltre una differenza nel flusso cerebrale e nel consumo di glucosio (Filipeck et al., 1995; Gur et al., 1999; Goldstein et al., 2001).

Il significato reale di queste differenze morfologiche e funzionali non è ancora del tutto chiaro: uomini e donne non sembrano differire tra di loro nell’intelligenza generale, come dimostrano le rilevazioni effettuate con la scala WAIS (Cohen, 1988), ma potrebbero esserci delle differenze più sottili nel funzionamento specifico oppure una differente modalità di elaborazione delle informazioni (Hines, 2004). Sicuramente è necessaria molta cautela nel trarre delle conclusioni, sia perché differenze morfologiche non corrispondono necessariamente a differenze funzionali (Cahill, 2005), sia perché questioni teoriche e metodologiche della ricerca potrebbero rendere difficile il confronto tra studi diversi (Hines, 2004) e infine perché la variabilità individuale nella qualità delle connessioni neuronali potrebbe contare di più di eventuali altre differenze strutturali (Vidal & Benoit-Browaeys, 2006).

Uomini e donne sono diversi nel comportamento, nella modalità di espressione delle emozioni e in certe abilità cognitive specifiche. Le diversità si mostrano precocemente nel gioco infantile (già a dodici mesi di età maschi e femmine preferiscono giocattoli diversi – Snow et al., 1983 – ma qui varrebbe la pena ricordare un insolito tentativo educativo messo in atto da due genitori canadesi che stanno cercando di crescere i loro figli senza differenze di genere: http://www.osservatoriopsicologia.com/2011/09/24/identita-di-genereunimposizione-o-un-diritto/), e proseguono poi per l’intero arco della vita nell’ambito della sessualità, dei comportamenti aggressivi, nell’utilizzo di strategie di coping, nella comunicazione delle emozioni, nella divisione dei ruoli sessuali e lavorativi. Nell’ambito delle emozioni, per esempio, sono state riportate differenze tra i sessi soprattutto per quanto riguarda sentimenti di tristezza, ansia e rabbia. Uomini e donne sembrano differire tra loro non tanto per la capacità di provare emozioni, quanto piuttosto per il modo in cui le esprimono e per le strategie di coping che utilizzano (Nath & Simon, 2004). Gli uomini sono stati descritti come abili nel colpire un bersaglio e nell’orientarsi utilizzando i punti cardinali o le proprietà geometriche dello spazio. E’ stato detto di loro che sono più abili delle donne nell’effettuare rotazioni mentali di oggetti tridimensionali e meno dipendenti dal campo nella percezione spaziale (Kimura, 2000). Le donne, invece, sono state descritte come migliori degli uomini per quanto riguarda le abilità verbali, soprattutto la fluenza e la memoria verbale, nel controllo dei muscoli distali e quindi nella maggiore abilità nei movimenti fini delle dita. Delle donne è stata rilevata la tendenza ad orientarsi nello spazio utilizzando prevalentemente dei punti di riferimento, i così detti “landmarks” (Kimura, 2000). Per quanto riguarda le abilità matematiche, i due sessi sarebbero predisposti diversamente: i maschi otterrebbero migliori risultati nel ragionamento matematico, mentre le femmine raggiungerebbero prestazioni più elevate nel calcolo aritmetico (notoriamente ritenuto un tipo di prestazione cognitiva inferiore!) (Engelhard, 1990). Questa differenza di genere, in particolare, è stata considerata da alcuni come una spiegazione valida del maggiore successo e della maggiore presenza maschile nel campo delle scienze (Kimura, 2000).

Recentemente è stata avanzata l’ipotesi della similarità di genere (Hyde, 2005), secondo la quale la maggior parte delle differenze tra i sessi sarebbe piccola (0.11< d <0.35) o trascurabile (d≤ 0.10), quindi uomini e donne sarebbero più simili tra di loro di quanto non sarebbero diversi. In altre parole, maschi e femmine sarebbero simili in molte, ma non in tutte, le variabili psicologiche (Hyde, 2005). E’ stato suggerito anche che le differenze di genere stiano scomparendo per effetto della socializzazione: il trattamento rivolto a maschi e femmine si sta progressivamente allineando sempre di più su tutti i fronti e questo ridurrebbe nel tempo la differenza tra i sessi nelle abilità cognitive (Feingold, 1988; Hyde et al., 1990). Non tutti sono d’accordo con questa posizione. Un eventuale declino negli anni delle differenze di genere sarebbe dimostrabile con sicurezza soltanto se fosse stato possibile misurarle da sempre con lo stesso test, con lo stesso gruppo di item e con campioni costantemente omogenei nel tempo: condizioni piuttosto difficili da realizzare (Kimura, 2000).

La divisione dei ruoli sessuali e lavorativi è ancora purtroppo una realtà attuale. Gli uomini occupano statisticamente posizioni dirigenziali e prestigiose con maggiore frequenza delle donne, guadagnano di più e sono meno impegnati nella cura della casa e dei figli. Accanto all’interpretazione socioculturale di questi dati (Burr, 2000), secondo cui la divisione sociale e lavorativa avverrebbe a causa del modo sessista di riproporre di generazione in generazione lo stesso modello maschile dominante (a questo proposito: http://www.ilcorpodelledonne.net/?page_id=89), esiste un’altra interpretazione secondo la quale sarebbero proprio gli uomini e le donne a scegliere interessi e carriere diverse a causa delle loro differenti predisposizioni naturali, evolute nel corso dei millenni grazie alla divisione sessuale dei compiti. Se è vero infatti che l’esperienza accresce le abilità personali in un determinato ambito, è vero anche che tutti noi tendiamo a scegliere quelle attività in cui siamo maggiormente capaci, per il rinforzo positivo che otteniamo nel fare bene qualcosa e nell’approvazione che ne segue. Questo fenomeno, definito self-selection, spiegherebbe secondo Doreen Kimura (2000) perché uomini e donne finiscano ad occuparsi di cose diverse, nel lavoro come a casa.

Il fatto che fin dalla nascita maschi e femmine ricevano modelli educativi diversi e rinforzi positivi o negativi a seconda che i loro comportamenti siano più o meno coerenti con quelli culturalmente attesi per quel sesso, potrebbe, attraverso il processo dell’apprendimento sociale (Bandura, 1973; 1977), essere la causa delle diversità di genere nella sfera emotiva e in quella comportamentale. All’interno del dibattito tra natura e cultura (non ancora risolto e forse difficilmente risolvibile), si inserisce il punto di vista evoluzionistico che interpreta le differenze tra i sessi riscontrate nelle abilità cognitive, emotive e comportamentali come il risultato del lungo processo della selezione naturale: la divisione dei compiti tra i nostri antenati preistorici avrebbe esercitato differenti pressioni evolutive, tali per cui l’uomo, adibito a cacciatore, nei suoi lunghi spostamenti avrebbe sviluppato maggiori abilità spaziali della donna che, adibita alla cura dei figli e alla raccolta di cibo nelle vicinanze della “casa”, avrebbe così sviluppato prevalentemente abilità linguistiche indispensabili per comunicare con la prole e scambiarsi informazioni dettagliate in merito a queste attività (Joseph, 2000).

“ …il genere (l’identità sessuale) è la quinta sul cui sfondo ciascuno rappresenta la sua vita e che la permea al punto che, come la respirazione, scompare ai nostri occhi per la sua familiarità..“ (Burr, 2000; pag. 13). Le differenze tra i sessi potrebbero sembrare a prima vista tanto ovvie da non meritare attenzione. Tuttavia studiarle in modo approfondito può aiutare a comprendere e a comprendersi, oltre che a ridimensionare alcune dannose distorsioni fatte in passato. Gli studi condotti su campioni di sesso maschile, per esempio, certo non possono produrre risultati generalizzabili all’intera popolazione (Burr, 2000). Nel 1969, Kohlberg pubblicò una sua teoria dello sviluppo morale che aveva sviluppato basandosi su ricerche longitudinali condotte su campioni di soli ragazzi. Precedentemente, in uno studio in cui valutava il pensiero morale, aveva somministrato dei questionari a soggetti di entrambi i sessi, utilizzando l’abbozzo della suddetta teoria per interpretare le risposte: l’autore rilevò che il pensiero morale delle ragazze si collocava ad un livello evolutivamente inferiore rispetto a quello dei ragazzi (Kohlberg & Kramer, 1967). Utilizzare l’esperienza maschile come uno “standard” su cui confrontare i processi psicologici di entrambi i sessi può essere estremamente fuorviante (Burr, 2000), ma purtroppo si tratta di una prassi che solo recentemente sta accennando a cambiare, perfino in altre discipline. La medicina di genere nasce infatti a metà degli anni ’80, in risposta alla consuetudine di testare le nuove molecole farmacologiche soltanto sugli uomini, sia (almeno stando alle giustificazioni ufficiali!) per proteggere la donna in età fertile da  qualsiasi rischio, ma anche perché il corpo femminile, con le sue caratteristiche variazioni di flussi ormonali, è stato ritenuto da sempre meno “efficace” in medicina. Viceversa questo ha causato la mancanza di dati specifici sull’efficacia dei farmaci nel sesso femminile e un’approssimazione sui trials clinici che non può essere più accettata. La comprensione dell’esistenza di certe differenze intrinseche tra i sessi (fisiche, ormonali, psicologiche, sociali) può avere una sua utile applicazione in molti e svariati ambiti, dalla medicina alla psicoterapia, soprattutto in quella di coppia, all’interno della quale certe attribuzioni di caratteristiche negative alla personalità del partner possono essere ridimensionate e reinserite nel contesto più ampio delle differenze di genere socialmente o biologicamente determinate (Dettore, 2001).

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Gabriella Alleruzzo

Author: Gabriella Alleruzzo

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