La psicologia allontana dalla politica
SEGNALAZIONE
Oggi, su “la Repubblica” di Genova, è apparso un articolo a firma del giornalista Coletti, che parla degli psicologi come degli operatori compassionevoli e incapaci di incidere realmente sul malessere delle persone. Anzi, il giornalista azzarda persino che il rivolgersi allo psicologo finisca per essere controproducente, portando al ripiegamento su di sé e a disincentivare l’impegno politico e civile. Al contrario, l’autore vede l’intervento farmacologico e medico in generale, come l’unico vero approccio alla cura del disagio psichico. Mi piacerebbe un vostro commento critico, che restituisca una più equilibrata lettura della complessità, e del ruolo della scienza psicologica e della psicologia professionale, per il grande pubblico. Grazie per il vostro lavoro. Lettera firmata.
ARTICOLO ORIGINALE
di Vittorio Coletti: L’ultima spiaggia è la psicologia
(La Repubblica, cronaca di Genova, 25/9/2011) quello che segue è un breve riassunto dell’articolo, non disponibile per problemi di copyright nel periodo della pubblicazione su OPM)
Disincantati, ingrigiti e resi quasi cinici dal berlusconismo, i giovani si sentono senza prospettive e senza futuro. Quelli che non si rassegnano a voler fare una vita da comparsa, da portaborse, o peggio da velina, dietro a qualche politicante di dubbio valore ma di molti denari, non hanno altra scelta se non quella di indirizzarsi verso le facoltà più tradizionali: medicina, ingegneria, legge. Se sei intelligente e tenace, queste professioni ti offrono ancora, forse un barlume di futuro. Le statistiche delle immatricolazioni universitarie mostrano un calo costante di iscrizioni; tengono solo queste facoltà, mentre le facoltà della fantasia, dell’investimento, della speculazione e del grande progetto (Filosofia, Arte, Matematica, Architettura, Scienze Politiche, Archeologia, Biologia, ecc.) registrano un calo vertiginoso, segno evidente che la società si impoverisce, che il sogno si allontana e non viene neanche più ricercato dalle giovani generazioni, che di sognare non hanno più il coraggio. L’unica facoltà che ancora regge, e anzi registra un boom di presenze, è la facoltà di psicologia, dove forse i giovani cercano inconsapevolmente un sollievo, una risposta al loro malessere e alle loro inquietudini. Ma la psicologia è solo una trappola; non offre alcuna risposta. Ai malesseri e ai veri disagi è molto meglio rispondere con la medicina, con la farmacologia moderna. La ricerca genetica e le moderne neuroscienze hanno spazzato via quel cumulo di moralismi e dilettantistici buonismi che solo in Italia – Paese provinciale e sempre in ritardo su tutto – reggono ancora. Solo in Italia ci si illude che il male di vivere possa essere affrontato con i colloqui, con la psicologia, laddove è nella politica, nell’impegno civile che occorrerebbe cercare e trovare risposte. La malattia mentale, come l’autismo, la psicosi, o le sempre più diffuse patologie infantili, è inutile cercare di curarle con gli psicologismi, mentre la farmacologia e un saldo approccio biologico permette di ottenere ottimi e rapidi risultati. Per il resto, i giovani farebbero meglio a cercare le loro risposte nel sociale, nella politica, nell’impegno, perché la psicologia rischia di essere per loro l’ultima spiaggia. In essa non troveranno risposte ma solo andranno ad ingrossare le fila di tanti, troppi professionisti della “pacca sulla spalla”, o del conforto in punto di morte.
L’articolo originale, poi pubblicato e reso disponibile da La Repubblica è adesso disponibile al seguente indirizzo http://www.osservatoriopsicologia.com/2012/01/28/la-psicologia-professionale-e-tutta-da-buttare-dialogo-con-il-giornalista-di-repubblica-vittorio-coletti/
COMMENTO REDAZIONALE DELLA DR.SSA ANNA BARRACCO
“perché il giudizio universale
non passa per le case
le case dove noi ci nascondiamo
bisogna ritornare nella strada
nella strada per conoscere chi siamo”
Giorgio Gaber
La psicologia professionale per Coletti forse è solo un pretesto, dal momento che sembra peraltro conoscerla poco o nulla. È davvero incredibile che dopo il successo anche mediatico che gli studi sulle immagini cerebrali, sui neuroni a specchio, sulle connessioni fra genetica, metabolismo e sistema vegetativo, e infine sulla plasticità neuronale, un giornale come Repubblica possa ancora ospitare un articolo che contrappone in modo così netto, antiscientifico e direi semplicemente antiquato, il biologico al mentale, la parola al farmaco.
Il ragionamento di Coletti però va preso sul serio su un altro piano, che è quello dell’immagine sociale della psicologia professionale, del suo ruolo nella società attuale, e in questo senso forse l’articolo permette più di una riflessione.
Le considerazioni partono dal dato statistico (e dunque sociologico) della caduta delle immatricolazioni dei giovani alle Università. L’autore riflette sul fatto che i dati, qualitativamente e quantitativamente interpretati, mostrano che è in atto una iper-semplificazione, un impoverimento delle scelte, che farebbero pensare ad una rinuncia al sogno, al progetto, in cambio di una ricerca di sicurezza. Una gioventù dunque che – se non si arrende a fare da “portaborse” o da comparsa – non può che impegnarsi intensamente guardando non ai propri sogni o al futuro, ma a quelle poche professioni che ancora possono garantire un’esistenza decorosa.
È una lettura possibile; certamente una società dove calano le immatricolazioni e dove la diversificazione degli investimenti si riduce, è una società che si impoverisce.
Non del tutto trascurabile, ritengo, è l’idea che una certa domanda di psicologia si esprima attraverso l’aumento esponenziale di iscrizioni a questa facoltà. Si tratta in molti casi, indubbiamente, di una domanda di formazione personale, di cui non si riconosce forse ancora la radice soggettiva, sintomatica, ma che si rivolge al sapere. Del resto, ogni esperienza di cura psicologica parte da un’interrogazione sul sapere dell’Altro, e poi diventa invece un atro tipo di lavoro, dove però la “rieducazione” o l’accomodamento e metabolizzazione del disagio, in una parola il riadattamento sociale, non c’entrano affatto.
L’autore dell’articolo sembra convinto che le cure psicologiche si muovano in questa sfera: la sfera dell’ortopedia della mente, e dunque, della rieducazione.
Non è un caso che un articolo così sconsolato – che alla fine è solo un appello alla partecipazione politica, a uscire dalle proprie case e dal proprio solipsismo e tornare alla politica, alla passione civile – sia stato scritto nel momento più buio del berlusconismo, a pochi mesi dal suo definitivo collasso. Rileggerlo oggi, dopo i festeggiamenti che hanno salutato la caduta del Governo Berlusconi, fra “Alleluia” di Handel e bandiere tricolori in piazza, questo articolo dice davvero, a posteriori, qualcosa della depressione, della cappa melanconica che opprimeva la sinistra italiana. In questo senso, forse, la psicologia professionale è qui solo un pretesto.
C’è in questo articolo l’idea di una psicologia “oppio dei popoli”, e addirittura una visione salvifica della genetica e della farmacologia, contrapposte in modo tanto ingenuo quanto radicale.
Troviamo in questo l’eterno dilemma etico che di volta in volta produce il conflitto, lo schieramento, dalla parte di “psiché” o dalla parte del “soma”.
Le prime case di cura per il trattamento “morale” dei disadattati e degli agitati, nacquero nel sei-settecento come reazione al precedente stato di esclusione di abbandono in cui i folli vivevano nelle epoche precedenti. L’idea del “disordine morale”, e della rieducazione morale, si sostituiva all’idea della maledizione, della predestinazione divina ( la “genetica” era la maledizione, la colpa dei padri che ricadeva sui figli).
L’epoca degli ospedali psichiatrici e la psichiatria ottocentesca si sostituì a questa visione, in nome di un approccio “scientifico” (organicistico), basato sul funzionamento del cervello e sulle teorie del deficit. Il danno organico, la psichiatria dei bagni gelati e degli elettroshock, inizialmente volle liberare dal “trattamento morale” (e dunque dalla “colpa morale”) a favore del danno organico. Ma non fu superata, però l’esclusione, lo stigma e la segregazione, e come sappiamo questa visione zoologica del danno, portò fino agli orrori della lobotomia. ogni epoca, ogni stagione, includeva qualcosa dell’epoca precedente.
Nuovamente, nel corso dell’eroica epoca basagliana, le due correnti – rappresentate dalla visione psicoanalitica e dalla psichiatria sociale, si contesero il “campo”, ma la parola chiave divenne però “inclusione” e partecipazione. L’inclusione dei reparti di degenza dentro gli ospedali cittadini, segnò l’inclusione del malato mentale nel perimetro della città, nella medicina di tutti, ma ha finito col tempo, e con il progressivo venir meno dell’impegno sociale e della partecipazione politica, per relegare nuovamente il discorso sulla follia ad un puro e semplice discorso medicale.
La storia dei trattamenti e delle diverse ideologie sulla follia, è estremamente affascinante, e conoscerla anche solo un poco ci mette in guardia dai facili entusiasmi verso il farmaco miracoloso, o i successi della biologia molecolare, entusiasmi che purtroppo a tratti ancora pervadono come onde la società. Si pensi agli entusiasmi che hanno fatto seguito all’introduzione delle nuove molecole contro la depressione, nei primi anni ’90.
Oggi, la psicologia più avanzata si interroga sui sistemi, si inserisce nei contesti associativi, si misura con la strada e con il quartiere, così come la medicina più avanzata si misura con la condivisione e il contratto con il paziente e la famiglia, e con i grandi temi della salute collettiva, della prevenzione, degli stili di vita, dell’interculturalità.
Resta il fatto che forse questa psicologia non è presente nella visione sociale della società civile; la società domanda psicologia, ma sembra non sapere dove andarla a cercare. Non è escluso che la visione che Coletti propone della psicologia corrisponda alla visione che di questa professione hanno ampi strati della società italiana. E su questo, noi psicologi e le nostre istituzioni dobbiamo interrogarci. I nostri interventi non sono e non possono essere neutri. Si inseriscono in contesti e in quei contesti assumono il loro significato e da quei contesti spesso dipende la loro efficacia. Dire che la psicologia si occupa di “relazioni” può non essere sufficiente. Occorre spiegare, e mostrare nell’atto chi è, cosa fa e dove opera lo psicologo del sociale, della scuola, del quartiere, della comunità e come si inserisce nei grandi dibattiti della civiltà e dell’economia, del benessere, della qualità della vita. Del resto, il nostro Codice Deontologico ci invita chiaramente a prendere posizione contro una visione “ortopedica” o “soporifera” dell’intervento professionale.
PARERE DEL PROF. LUIGI SOLANO
Per scrivere un commento a un pezzo del genere è necessario elaborare una notevole quota di rabbia e di sconforto, tanto più che l’autore del pezzo, prima di cominciare a parlare di Psicologia, si presenta come di area democratica, antiberlusconiana ecc., con riflessioni molto condivisibili sullo stato della cultura in Italia; per di più l’articolo è pubblicato La Repubblica, alfiere della stampa libera e democratica del nostro paese (anche se nelle pagine di cronaca locale, collocazione un po’ curiosa per un articolo che affronta questioni così ampie).
L’articolo ha però il vantaggio di rendere espliciti i pregiudizi di una certa parte della sinistra nei confronti della Psicologia, che raramente vengono espressi così chiaramente, e ci aiuta a capire alcuni motivi della persistente difficoltà ad affermarsi della nostra disciplina in questo paese. Non è affatto vero, infatti, come sostiene l’autore dell’articolo, utilizzando il numero di iscrizioni a Psicologia come se fossero un indicatore di fruizione della stessa, che gli italiani corrano tutti dallo psicologo: un recente studio dell’Istituto Superiore di Sanità, all’interno dello European Study of Epidemiology of Mental Disorders, mostra come di fronte al 18,6% di italiani che dichiarano di aver sofferto di un disturbo mentale solo il 3% dichiara di essersi rivolto ad un aiuto professionale di qualche tipo. Un recente studio dell’Ordine degli Psicologi del Lazio (Ponzio, 2008) ha mostrato che solo il 5% della popolazione adulta ha avuto nel corso della sua vita un qualche contatto professionale con uno psicologo, ivi incluse situazioni non cliniche, quali di orientamento, aziendali ecc.
Veniamo ora alle obiezioni (per usare un eufemismo) dell’articolo di Coletti nei confronti della Psicologia:
– è una scienza zoppa se non si fonda su medicina e biologia;
– consultare uno psicologo è alternativo all’impegno politico e sociale.
Proviamo anzitutto a dare qualche rapida risposta a queste obiezioni, nella speranza di ridurre in qualche modo un tale muro di incomprensione.
La prima obiezione è fondata sulla totale ignoranza di cosa sia la psicologia, che viene vista come un trattamento a base di parole del disagio psichico individuale, alternativo ad altri tipi di trattamento; anche se non viene detto esplicitamente, tale trattamento sarebbe basato sullo studio della “mente” individuale. L’autore evidentemente ignora che la psicologia è invece lo studio delle relazioni tra individui, che in quanto tali non sono riconducibili al funzionamento di un cervello individuale. Il trattamento del disagio psichico, che non è la sola applicazione della psicologia, non avviene mediante applicazione di parole ma attraverso una relazione, che è una cosa ben diversa. Sembra inoltre sfuggire inoltre a Coletti che anche un trattamento farmacologico (e non solo in ambito psichiatrico) si svolge all’interno di una relazione, e che gli effetti – a cominciare da se e quanto il trattamento viene seguìto – dipendono dalla relazione terapeutica in cui è inserito, tematica su cui la Psicologia può dare e ha dato un grande contributo.
La seconda obiezione poggia invece su un pregiudizio di tipo politico, purtroppo di vecchia data: ricordo negli anni ’70 il sospetto che avvolgeva i colleghi psichiatri e psicologi, militanti di gruppi di sinistra, che si rivolgevano alla psicoanalisi per il proprio disagio o anche per motivi professionali; in genere ricevevano “l’amichevole consiglio” di rileggersi Lenin o Gramsci, dove avrebbero trovato ogni soluzione ai loro interrogativi (meglio comunque Gramsci delle neuroscienze).
Quando si parte da posizioni dogmatiche è chiaro che qualunque idea diversa viene vista con sospetto. Quando si afferma che la psicologia allontana dall’impegno sociale evidentemente si dimentica quanto la psicologia (quella non assimilabile) sia stata perseguitata da tutte le dittature sia di destra che di (se-dicente) sinistra per la sua capacità di svelare i meccanismi del potere. Se la nostra sinistra avesse avuto delle pur minime nozioni di psicologia avrebbe lottato con ben altra convinzione (o con una qualche convinzione) contro la possibilità che un singolo individuo possedesse tutte le reti televisive private del paese, e che il suddetto individuo potesse poi anche occupare le massime cariche dello Stato.
Si dimentica anche come una scienza che studia l’influenza delle relazioni e dell’ambiente sociale sullo sviluppo dell’individuo fornisca solidi argomenti a chi sostiene la necessità di offrire a tutti uguali opportunità, contrariamente a discipline che studiano come lo sviluppo e il destino degli esseri umani siano condizionati dalla genetica e dall’organico.
Al di là delle risposte che possiamo fornire all’articolo, mi sembra comunque che possa spingerci a riflettere su cosa possiamo aver fatto noi psicologi per facilitare questi equivoci, e su cosa possiamo fare per dissiparli.
Sono convinto anzitutto che ogni tentativo di assimilarci ai medici sia stato un grave errore: se siamo medici siamo medici di seconda categoria, siamo medici che non possono prescrivere farmaci, siamo medici dei pazzi. In questo rientra il sottolineare il ruolo della nostra disciplina come diagnosi e trattamento di un disagio individuale (o peggio, di “malattie mentali”); il nostro persistere nell’adorazione del DSM IV anziché denunciarne la totale inadeguatezza a rappresentare la complessità dell’esperienza umana; il giocare con termini come prognosi, comorbilità, indicazioni; la sproporzionata importanza che ha assunto la questione della psicoterapia, che è solo una delle possibili applicazioni della psicologia, e che invece ha finito per dominare talmente ogni dibattito da divenire una delle pochissime attività professionali per cui in Italia viene richiesta per legge una specializzazione postlaurea.
Si finisce così per oscurare la nostra specificità di esperti della relazione e il nostro ruolo nello studio dei fenomeni sociali. Sempre a proposito di Berlusconi, mi viene in mente che agli esordi del suo ingresso in politica un noto psicoanalista, ora defunto, si esercitò nel formulare una diagnosi psichiatrica del suddetto. Credo che, al di là della scorrettezza deontologica, tale diagnosi sia stata di scarsa utilità a chi cercava di combatterlo: forse sarebbe stato più utile concentrarsi nell’analizzare e svelare gli strumenti e i modi con cui riusciva a sintonizzarsi perfettamente con i livelli mentali filogeneticamente più primitivi di vasti settori della popolazione.