«La morte non è un muro»
Europa Quotidiano
Una delle ultime interviste rilasciate dallo psichiatra Giovanni Bollea
Quando, un anno e mezzo fa, andammo a intervistarlo per il numero della rivista dell’Arel dedicato al tema dei “muri”, Giovanni Bollea era già malato. Seduto alla scrivania del suo studio, nella sua bellissima casa nel quartiere Trieste, volle incontrarci di persona piuttosto che farci consegnare lo scritto che le sue sollecite collaboratrici avevano preparato, raccogliendo da lui le risposte alla traccia che gli avevamo inviato. «I giornalisti mi piacciono» – affermò con perentoria dolcezza, in quel momento dimentico che una delle due persone che aveva davanti era uno psichiatra – accomodatevi ». L’incontro fu di quelli che lasciano il segno. Per la penombra che avvolgeva il Maestro, schermando la luce che entrava dal terrazzo, per l’atmosfera che la sua voce creava, per gli echi lontani che le sue parole evocavano. Il nostro colloquio era stato preceduto dall’invio di alcuni numeri della rivista, tra cui quello interamente dedicato a Nino Andreatta, pubblicato nel 2007, subito dopo la sua scomparsa. Bollea, che aveva conosciuto in modo non superficiale l’ex ministro («gli volevo molto bene», ci disse), nell’ora in cui restammo insieme continuò a riferirsi a lui, in una sorta di gioco di rimandi e di specchi. Intanto, ripercorreva i ricordi di una vita, in un flusso di coscienza come in un tempo sospeso, interrotto da qualche nostra scarna intromissione. Ecco un estratto di quell’incontro.
Professore, ci parli dei “muri” dal suo punto di vista, facendo riferimento anche alla sua esperienza personale.
I muri esistono, sono le difficoltà della vita; per tutti sono però anche la prova delle nostre possibilità, della nostra volontà di riuscire, di amare e di raggiungere i nostri obiettivi. Camminare…e cadere…e capire che devi imparare a camminare con maggior sicurezza…non pensare che sei mortale…In lui (Andreatta, ndr) c’era – non so se era un desiderio o una certezza – la convinzione che i muri ci sono ma bisogna superarli. Non è mai stato un uomo molto sicuro di se stesso, si sentiva in lui il bisogno di analisi, si avvertiva lo scrittore più del credente, ma anche l’uomo che ti aiutava a capire, ti obbligava a riflettere. Come un analista, ti aiutava a scoprire la paura, ma non ti dava la sicurezza della vittoria.
Quali sono i muri che si incontrano nell’infanzia, professore? Quali sono quelli che lei ha incontrato?
Uno tra i principali è la religione, come elemento paterno o materno, che pone dei limiti, delle regole da seguire. Però la religione non è un muro negativo, piuttosto fa pensare, stimola la ricerca, insegna a spiegare i muri che si incontrano. Io non ho avuto una famiglia che inventasse muri. Quelli che ho incontrato non erano individuali, erano legati a fatti esterni. Come quando, nell’ultima guerra, intrapresi a piedi nella steppa la ritirata di Russia, seguendo l’interminabile sentiero di cadaveri che mi segnavano il percorso del ritorno. Sentivo che ognuno di quei corpi era un vero muro di pietà, di orrore, di disperazione che dovevo superare, se volevo salvare la vita a me stesso e al compagno che trascinavo sulle spalle. E così fu per ogni soldato al quale dovevo estrarre i proiettili dal cranio senza anestesia, col solo aiuto di un po’ di cloroformio. E, ancor prima, nel 1938, quando le leggi razziali mi obbligarono a nascondere moglie e figli ebrei prima di partire per la guerra: dovetti picchiare davvero con i pugni la barriera di paura che mi si parava davanti.
La morte è un muro?
No, la morte non è un muro. La morte è una realtà che fa sempre paura. Gli uomini devono prepararsi alla morte. I fatti spaventosi della nostra vita vanno affrontati con occhi aperti ed equilibrio interno. Lui (Andreatta, ndr) ha avuto il coraggio di adoperare qualcosa che dà speranza ma fa paura: la sicurezza del pensiero. Perché è la convinzione dell’esattezza del bene che si sta compiendo quella che deve dare la pace. A volte incuteva paura la parola che usava: sicurezza. Sicurezza di che cosa? È stato un uomo onesto, ma la sicurezza vera non l’ha data. Ha offerto la bellezza del pensare che il bene si può ottenere. Questa era la sua filosofia, una strana filosofia…
Questa è anche un po’ la sua filosofia, professore…
Sì. Ma è una strana filosofia, che non capivo in lui, e nemmeno in me. Ho cercato di dare ai miei allievi la sicurezza di essere se stessi. Perché questa è la prima cosa importante: il dubbio non deve albergare dentro di te. Deve entrare nel tuo animo e portarti a guardare ad occhi aperti il tuo amico, il tuo compagno, colui che ti si rivolge per chiedere un aiuto. Ecco, gli interrogativi che io mi ponevo spesso: come aiutare? Come tu aiuti l’altro? Qual è la via per avvicinare chi ha bisogno? Possiamo farlo? È giusto farlo? È questo che ci insegna la religione o ci viene dal voler bene al nostro prossimo? E siamo al punto cruciale della nostra filosofia. Ci siamo chiesti, ma con quanti dubbi: ce la faremo? Due più due farà sempre quattro? Sono riuscito a convincerlo che potevamo fare del bene e che credevamo nel bene che potevamo fare. Ma di più non si può. Questo è il punto massimo, è il raggiungimento. È lì che fermavamo il nostro ragionamento. Cosa vuol dire prendere un malato ferito e portarlo sulle spalle? Ha a che fare col dovere? È qualcosa che ti suggerisce il tuo intimo? È un’azione inutile che hai imparato? Ho fatto del bene o no? Ero sicuro di quel che consideravo “bene”, questa era la mia forza, quello che la mia propaganda ha detto ai miei ragazzi. Ma sono sempre stato bloccato dai dubbi. Questo era il limite che sentivo in lui e che era anche il mio. Quando parlavamo di questi problemi, eravamo insieme sinceri e non sinceri. Qui entriamo nel grande capitolo della religione, che ha tanti punti interrogativi. Cos’è la religione? Ecco il muro da superare. Superare questo muro vuole dire la convinzione di aver fatto del bene, o semplicemente il tuo dovere? Lascio a voi questo interrogativo. Quando ci si dedica con spirito umano a guardare il danno, la paura, la speranza, con la certezza di poter fare del bene a chi è vicino, a chi si rivolge a noi, un uomo deve amarsi ed essere contento. Di più non si può fare. Pensi, mediti, credi, ma poi un tragico – bello ma tragico – muro di insicurezza ti cinge e lì incomincia la crisi del credere. Con chi mi ascoltava io concludevo sempre con una frase che può sembrare banale, ma è quello che intuivo: non è questione di credere o non credere, piuttosto di sentire che è possibile superare gli ultimi dieci minuti del tuo dormiveglia senza colpa e con speranza. Tu devi avere una sola sensazione, unica, indipendentemente dalla religione, o dalla politica, o da altro…Devi sentirti in equilibrio con te stesso. E allora ridendo concludevo: apri la finestra, guarda il mondo, pensa che hai avuto il coraggio di pensare a questo mondo. Accontentati, chiudi gli occhi e cerca di dormire, ma di dormire in pace, perché sei una persona onesta con te stesso. Ecco la filosofia delle ultime parole che dicevo a questo amico. Vai. Basta.
Mariantonietta Colimberti e Emanuele Caroppo