Neuro-mania. Il cervello non spiega chi siamo
Fonte: Recensione tratta da Il Sole-24 Ore sezione: SCIENZA E FILOSOFIA data: 2009-03-15 – pag: 32
Attenti ai neuromaniaci!
Arte, economia, etica, medicina: tutto sembra dover passare per una definizione biologistica. Ma la vita non è riducibile a geni e sinapsi
di Paolo Legrenzi e Carlo Umiltà
Nel 1861 un neurologo francese, Paul Broca, descrisse un paziente che, in seguito a una lesione cerebrale, riusciva a dire solo «tan». Dopo la morte del paziente, l’esame autoptico rivelò una lesione in una porzione limitata del lobo frontale di sinistra.
L’osservazione di Broca fu considerata la prima chiara dimostrazione di due principi sui quali si sarebbero poi basate, più di 100 anni dopo, le neuroimmagini: il cervello (la corteccia cerebrale, per essere precisi) è scomponibile in tante porzioni (aree) che svolgono funzioni diverse e queste funzioni sono indipendenti le une dalle altre, sono isolabili. Nel caso del paziente che sapeva dire solo «tan», la funzione era la produzione della parola ed era stata isolata, in negativo, dalla lesione.
Le funzioni mentali sono l’oggetto di studio degli psicologi, non degli economisti e neppure dei neuroscienziati. Il termine «neuroeconomia» sottintende, più o meno esplicitamente, l’esclusione degli psicologi. In assenza degli psicologi, è legittimo chiedersi chi mai, nelle ricerche di neuroeconomia, indicherà quali siano le funzioni mentali rilevanti per l’economia le cui basi nervose si dovrebbero indagare.
Se i neuroscienziati e/o gli economisti intendono sostituirsi agli psicologi nell’indagare le funzioni mentali, senza possedere la competenza specifica necessaria, la neuroeconomia non andrà molto lontano. Già Gall aveva cercato di inventarsi una psicologia e aveva prodotto la frenologia. Questa osservazione vale, ovviamente, anche per la neuroestetica, la neuropedagogia, la neuroteologia… La contrapposizione che abbiamo oggi tra «nuda vita», la vita biologica comune a tutti gli esseri viventi (in greco: zoé), e la forma di vita di una specifica persona ( bios) non era mai emersa prima in modo così drammatico. Ma compare anche in contesti meno tragici. Dov’è il confine, per uno sportivo, tra una droga e una medicina? Possiamo cercare di incrementare il nostro fascino cambiando il corpo (ad esempio con la chirurgia plastica e altro) grazie a tecnologie mediche? Quando «diventiamo» altro da noi, quando abbiamo cambiato troppo la nostra identità corporea? Possiamo incrementare tramite farmaci o droghe le nostre esperienze e le nostre capacità mentali. Ma dov’è il confine tra «curato » e «drogato»?
Di fronte a tali quesiti, nuovi e difficili, la tentazione di tornare all’antico è forte. L’antico in questo caso è la coppia mente-corpo, con il corpo come sistema di riferimento privilegiato. Lo schema tradizionale consiste nell’affidarsi alle condizioni biologiche del corpo per fondare una regola di intervento e, se dobbiamo derogarvi, nel ricorrere a circostanze specifiche (attenuando l’applicazione del criterio per ragioni manitarie).
Adottare questo schema nelle condizioni tecnologiche odierne può essere assai pericoloso e fuorviante. Sembra ovvio ricorrere alle scoperte della genetica per definire il passaggio da feto a persona, ed è in termini biologici che si può fissare il momento in cui un vecchio torna a essere solo corpo e non più persona. Nel fare così, tuttavia, non ci accorgiamo delle conseguenze devastanti di quello che decidiamo di «dare per scontato» (il default). Nulla ci impedirebbe di fare un’operazione contraria. Dare per scontato che il metro di misura sia il benessere di una persona, benessere non solo corporale ma anche psichico, e utilizzare poi questo criterio per definire il benessere nel suo complesso. Non è una differenza da poco. In questo secondo caso il benessere è la figura, mentre le condizioni del corpo costituiscono lo sfondo. Ad esempio, se voi vi concentrate sul benessere, potete dare per scontato che, dopo la sua morte, qualsiasi persona sia un donatore di organi. Al contrario, se vi concentrate sul corpo, avete bisogno di un assenso concesso preventivamente in circostanze diverse (quando il morto era vivo).
Le conseguenze pratiche di quello che diamo per scontato, a parità di credenze e di culture, sono drammatiche. Basta vedere quello che succede in Austria, dove è stato adottato il primo criterio, e in Germania, dove è stato adottato il secondo (la differenza percentuale di donatori di organi, all’insaputa dei donatori stessi, è dell’ordine del 90%, solo in conseguenza dell’adozione di un diverso default). Adottare le condizioni del corpo, nella difesa dei confini di una persona, si rivela talvolta controproducente, e può sfociare in esiti paradossali. Il caso delle scelte della chiesa cattolica è forse quello più macroscopico e noto ai più. In ossequio ai tempi, affascinata dagli sviluppi tecnologici, la chiesa tende inconsapevolmente ad abbandonare la saggezza antica, fatta di carità e solidarietà. Ovviamente non si tratta di una scelta deliberata. Al contrario è inconsapevole, come in tutti i casi in cui entra in azione il meccanismo di default.
1 L’articolo qui pubblicato esprime le tesi di fondo sviluppate da Paolo Legrenzi e Carlo Umiltà nel loro pamphlet «Neuro-mania. Il cervello non spiega chi siamo», in libreria in questi giorni per le edizioni de il Mulino (Bologna, pagg. 126, € 9,00).
Chiarire la distinzione tra «zoé» e «bios» giova anche ai dibattiti sull’inizio, la fine e la qualità della nostra esistenza «Neurodegeneration».
Recensione a cura di Davide Mirabella
Paolo Legrenzi – Carlo Umiltà, Neuro-mania. Il cervello non spiega chi siamo, il Mulino, Bologna, 2009, pp. 125, € 9,00
Neuro-mania è un libro per tutti, ovvero un testo per l’uomo che si pone domande circa la pervasività delle discipline «neuro» nei media (tg, giornali, web), un’introduzione al posticcio e malriuscito quanto gettonato «scavalcare» la mente, oggetto di studio (proprio) della psicologia – posto che non si escludono l’anima e la coscienza, indagate per secoli dalla religione e dalla filosofia; infine un libro per specialisti della mente (psicologi, psichiatri) che, già addentro al problema dell’uso delle neuroimmagini, vogliono tenere tra le mani e leggere un pamphlet neanche tanto polemico ma decisamente infarcito di buon senso. Inoltre esso è un ragguardevole e pionieristico guanto di sfida lanciato a neuroeconomisti, neuroteologi, e via discorrendo.
L’opera consta di una premessa critica alla questione dell’uso strumentale che fa certa stampa divulgativa della tecnologia di neuroimmagine (diciamo delle TAC sofisticate) per mostrare che, ad esempio, l’innamoramento è «biologicamente determinato». Altro problema sollevato consiste nel pensare al cervello come al tutto con ricadute culturali e politiche dovute ad un sotteso “antropocentrismo cerebrale”, se così si può dire, a dispetto di un passato recente che vedeva «nei fatti del mondo l’esito di un processo di costruzione» della realtà.
Alla premessa segue il primo capitolo che cerca di elencare rapidamente le varie concezioni di studio del funzionamento del cervello, a partire dalla scoperta nel 1861 del neurologo francese Paul Broca della scomponibilità in aree della corteccia cerebrale e dell’indipendenza tra esse, al ridimensionamento teorico con l’approccio olistico della Gestalt in cui il cervello non è più organizzato in moduli indipendenti ma è «equipotenziale» per poi ritornare all’approccio modulare delle tecniche di neuroimmagine fino alla scoperta dei neuroni specchio.
Il secondo capitolo mette in guardia da un indiscriminato e non scientifico utilizzo delle neuroimmagini, che parrebbe di moda, ma che in realtà cela un biologismo riduzionista, «un fascino pericoloso delle spiegazioni neuroscientifiche», le quali non tengono conto di altri fattori, sociali, economici, culturali, politici, finanche teologici, che diventano, in un circuito vizioso, neurosociali, neuroeconomici, insomma la soluzione diventa il problema.
La conclusione, tutt’altro che scontata, manifesta alcune preoccupazioni dei due autori, Paolo Legrenzi, docente di Psicologia cognitiva presso l’Università di Venezia e Carlo Umiltà, docente di Neuropsicologia a Padova: la «visibilità» del passaggio neurone-psiche è, purtroppo, usata per «imbastire» seducenti racconti, come l’innamoramento biodeterminato, che sarebbe pericoloso liquidare come una moda passeggera; aggiungere il prefisso «neuro» alle più disparate discipline non è sinonimo di scientificità ma un modo per convincere gli inesperti; questa “operazione neuro”, chiamiamola così, non è altro che una parte di un tutto che caratterizza la contemporaneità post-moderna e post-ideologica e che nel caso specifico chiameremo “organicista” in quanto vi è uno spostarsi verso un anticomportamentismo individualista deciso dall’alto e inscritto in un disegno più ampio, che inverte i passi sulla strada che va dalla mente al cervello e quindi al corpo, trascurando gli aspetti culturali e se preferite «socialmente costruiti».
Tutto ciò è l’avanguardia di una innaturale definizione di che cosa sia il nostro corpo e di come esso funziona, definizioni dipendenti dalle preferenze di un’autorità (Chiesa, Stato, Scienza). L’“operazione neuro” è per i due autori un semplice contrabbando sotto queste nuove etichette neuroscientifiche di conoscenze già cumulate da una scienza consolidata (e non provvisoria) quale è la psicologia. I quesiti non finiscono con la lettura di Neuro-mania, piuttosto aumentano e interpellano le coscienze (e le menti) di tutti. E poi, credo, ci si innamora – anche – col “cuore”.
30 marzo 2009
pachi-pachi Prof.Umiltà !!! no,non sono un paziente afasico nè sto rimembrando il mio glorioso gatto (Pachi-Pachi appunto)che accompagnava i miei studi Patavini brucunnando docilmente anche + o – sopra il trattato di Psicologia Fisiologica…Sono una sua-ex-studentessa (sob!di 30anni fa).Vivo e lavoro a Forlì(libero-profess.).Leggerò con curiosità la Sua nuova pubblicazione.Conservo stima e simpatia dai tempi dell’univ. soprattutto per la parlata Romagnola…Spero risponda a questa mia .Licia Crosato