Pagamento sedute di psicoterapia non effettuate. Corrado Pontalti
Riflessioni sul “dibattito – sentenza” della trasmissione Forum
Prof. Corrado Pontalti
Valuto estremamente intrigante la problematica posta da Forum, in quanto porta in primo piano una serie di temi che rimangono, di norma, nel chiuso delle varie Società di Psicoterapia e che si tramandano nelle generazioni come assunti indiscutibili. Se l’argomento proposto arriva in una trasmissione mediatica significa che ha una rilevanza, nell’immaginario sociale, della quale non ci siamo resi conto. Quindi ben venga la proposta di un dibattito che obbliga a rendere ostensibile i punti di repere delle pattuazioni economiche tra psicoterapeuta e paziente. “Oportet ut scandala eveniant”, mi verrebbe da dire. Proprio per non banalizzare il problema ho chiesto alla redazione dell’Osservatorio di informarsi sulle caratteristiche <giudiziarie> delle sentenze del giudice di Forum. Questo per evitare la facile scappatoia di dichiarare nullo, irrilevante o addirittura folcloristico il dibattito e le argomentazioni tra le parti, con conseguente risibilità della sentenza. L’indagine della redazione ha prodotto il seguente testo:
Per quanto riguarda il valore giudiziario di Forum, dopo una ricerca sul web, abbiamo raccolto queste informazioni: Premesso che probabilmente si tratta di casi “costruiti” (non falsi: si tratta di fattispecie vere ma recitate da attori, e non vissute dai loro stessi protagonisti), Forum ha almeno formalmente una validità giuridica. Si tratta di un arbitrato. Tale procedura – incardinata con la firma di un compromesso di arbitrato, ossia un contratto con cui due parti rimettono la questione ad uno o più soggetti terzi, chiamati “arbitri”, esterni rispetto alla normale giurisdizione – per definizione ha ad oggetto DIRITTI DISPONIBILI, ossia quelli tipicamente oggetto di obbligazioni, come debiti o crediti derivanti da contratti liberamente sottoscritti.
Volendo semplificare, esistono due tipi di arbitrato:
Irrituale: si tratta di un contratto con cui le parti si obbligano a fare quello che l’arbitro dirà. Il risultato è un contratto di transazione(non una sentenza) il cui contenuto è stabilito dall’arbitro cui le parti hanno dato carta bianca…
Rituale: si seguono le regole del codice di procedura civile e sostanzialmente il risultato è un lodo (questo è il caso di forum credo, perché viene rispettato il principio del contraddittorio, della corrispondenza tra chiesto e pronunciato etc etc). Il lodo è come una sentenza impugnabile davanti alla corte di appello. Le parti possono dare il potere all’arbitro di decidere secondo equità.
Possiamo, quindi, ritenere che ci stiamo confrontando con lo sguardo del sociale su alcune procedure, nel contratto terapeutico, che proponiamo dandole per ovvie, ben argomentate, parte sostanziale delle nostre configurazioni del setting. Questo assunto è ritenuto, dal giudice, privo di fondamento scientificamente dimostrato.
Oltre quarant’anni fa la consustanzialità del pagamento con la definizione stessa di trattamento psicoanalitico mosse aspre polemiche sull’applicabilità nei Servizi Pubblici del sapere psicoanalitico dato che i pazienti non pagavano. La connessione tra valore monetario del denaro e valore simbolico dello stesso, quale stimolo e vincolo all’impegno faticoso del cambiamento psichico, sembrava un assioma indiscutibile. Dall’opera di Racamier “Lo psicoanalista senza divano”1 fino alla lunga e appassionata argomentazione di Paolo Migone2 sull’inconsistenza di porre distinzione tra psicoanalisi e psicoterapia ad orientamento analitico in base a vincoli esterni (lettino, numero delle sedute, etc.) il dibattito è stato ed è serrato, senza che si raggiunga una formalizzazione condivisa. Il ragionamento sarebbe complesso e rimando quindi a testi più dedicati. Vi è tuttavia una considerazione imprescindibile. Definire le regole di setting quale rituale garante di stabilità e invarianza, obbliga a confrontarsi con il lemma “rituale”. In sé sembrerebbe ovvio che il termine rituale è una presa in prestito “laica” dall’inserzione del rituale quale mediazione con il Sacro. Il rituale del rito permette l’accesso al Sacro, in ogni religione, dall’animismo al monoteismo.
In questo senso permette quella separatezza dal sociale comunitario insito nella stessa semantica di <Sacer, Separato>. Ma la psicoterapia è <scienza sociale> per eccellenza, per di più si esercita entro le leggi sanitarie ed è garantita da percorsi e appartenenze rigorosamente normati. La verità è che nelle definizioni di setting (o meglio di set/setting come propone Girolamo Lo Verso3) si condensano piani logici, epistemologici e procedurali in sé reciprocamente irriducibili. Un primo piano è quello ovvio di organizzazione di percorsi di cura adeguati alle caratteristiche di quella specifica situazione clinica per quella persona unica e irripetibile. La stabilità del percorso non è quindi fondabile su vincoli esterni, precostituiti, dell’ordine “si fa così, non si fa così”. Quindi la scientificità è nel rigore del metodo conoscitivo e non certo nelle procedure necessarie per essere professionalmente efficaci. Un secondo piano è costituito dalle variabili socio-economiche che si ancorano al fatto che lo psicoterapeuta è un professionista vincolato alle leggi dello Stato, ai codici deontologici dei rispettivi Ordini di appartenenza e al mutare stesso nel tempo di questi vincoli. Se lo psicoterapeuta non è consapevole di queste contingenze e si riferisce a principi assoluti, significa che, inconsapevolmente, pone i principi <nell’eternità del mito>. Infatti il linguaggio corrente parla di questo piano. Deviare dalla norma è una “trasgressione”, il paziente “attacca” il setting, il setting è contaminato se telefona un genitore, e così via.
Quanto fin qui argomentato è assai parziale e criticabile. Ciò che mi preme sottolineare è che la confusione sovra determinata dei piani crea situazioni paradossali nel momento che si offrono allo sguardo comunitario (come nel dibattito a Forum), fuori dal chiuso, comunque privatistico della relazione terapeutica. Alcuni esempi da me incontrati nell’ultimo anno: “L’analista mi ha fatto pagare la seduta che ho saltato perché ero al funerale di mio padre”. “Sono finita in una buca, sotto lo studio dell’analista, rompendomi il piede; non ha voluto sentire ragioni”. “Ero disperato perché non uscivo di casa se non con fatica enorme. L’analista mi ha detto che dovevo fare tre sedute alla settimana; ho obiettato che solo con grande impegno sarei riuscito a venire una volta; risposta: non si preoccupi, lei sa che ha una persona che comunque, quando lei non arriva, pensa a lei, nelle ore concordate. Sono scappato perché mi sembrava pazza”. “Ero in analisi, mi è nato un figlio e ci trovavamo in vere difficoltà economiche; l’analista mi ha detto di interrompere e di riprendere quando avrei potuto pagare. Ma proprio la nascita del figlio mi rendeva necessaria la terapia! Perché fate così? Siete dei commercianti?!”
Ecco il nodo inquietante. Siamo dei commercianti? Scriviamo articoli e articoli sul valore simbolico del denaro, sul suo valore di complesso trasduttore di eventi mentali fondativi nell’intersoggettualità della vita e della relazione terapeutica, e poi misuriamo il tempo al minuto (e guai trasgredire), misuriamo i 75 euro senza autonomia di valutazione caso per caso. Ci aggrappiamo al pagamento come garanzia del progresso terapeutico o perché non vogliamo perdere i 75 euro? Quante volte mi sono sentito raccontare storie simili. “Sul lavoro mi mandano in ferie a maggio, per tre settimane. Il terapeuta mi comunica che lui va in ferie ad agosto e quindi gli devo pagare le sedute di maggio, anche perché, forse, non ho lottato abbastanza per avere le ferie ad agosto e quindi, sempre forse, era anche una mia resistenza”. Il lettore pensa che forse mi invento queste storie per rinforzare il mio punto di vista? Sarei felice se potessi inventarmele.
Possiamo quindi affrontare, brevemente, la seconda parte del lodo pronunciato nell’arbitrato: il valore del consenso informato (pattuazione). Questo riferirsi ad un articolo preciso del Codice Civile (il 1469 bis) sulle clausole vessatorie è, almeno in parte, una sorpresa. Può essere che l’interpretazione del giudice – arbitro sia errata e confutabile ma, non di meno, ci obbliga a riflettere e a discutere sul potere sociale4 (concetto molto diverso dall’autorevolezza del terapeuta) che usiamo nel definire le varie contrattualità con il paziente e anche con i suoi familiari (“se inizio la terapia con vostro figlio non dovete prendere contatto con me …”). Il giudice definisce, con chiarezza, che solo la reciprocità contrattuale formale, salvaguardia da clausole vessatorie. Sarebbe come a dire che se io salto la seduta pago il paziente (se questa è la clausola: mi paga se non mi avvisa 48 ore prima); se io, annullando una seduta, la ricupero, così deve essere per il paziente. Abbiamo quindi la necessità di numerosi confronti leali e aperti su queste problematiche uscendo dai luoghi della privatezza. In altre parole la sfida posta dalla trasmissione televisiva consiste nella costruzione di una scena pubblica nella quale l’interlocutore non è un collega, un supervisore, il tuo analista didatta, un docente della scuola di psicoterapia (qualunque essa sia) ma è la comunità che ascolta, guarda e … valuta. Credo che per rispondere ai bisogni sempre nuovi che il sociale ci pone dobbiamo accettare che il sociale (con le sue opinioni e le sue leggi) è quel terzo reale del quale abbiamo bisogno per costruire un territorio simbolico di connessione, unica garanzia perché i nostri rituali siano laici e non sacri.
Sicuramente queste mie riflessioni sono confuse e approssimativa ma sono sulla linea di tematiche che mi intrigano da anni, tanto che nel 2008 ho organizzato un Convegno (convegno annuale del Laboratorio di Gruppoanalisi) dal titolo. “La vita, i setting, la psicopatologia – sfide sui confini della clinica, tra epistemologie, vincoli e trasformazioni”. Una delle relazioni predisposte, con autore Stefano Alba, sviluppava proprio questa problematica: “Il <valore> della psicoterapia: i vincoli economici tra paziente e terapeuta”.
Non vi dico lo scandalo suscitato, soprattutto quando si è toccato il tema della fatturazione quale obbligo assoluto, non solo di legge, ovviamente, ma quale mediatore simbolico tra i codici familiari e i codici sociali sia per il terapeuta che per il paziente. Ma questo è un altro, ulteriore, problema.
Rimando agli atti del Convegno che sono sulla Rivista on-line:
www.rivistaplexus.it, n°2 del 2009.
Note bibliografiche
1 Racamier P. (1970), Lo psicoanalista senza divano, Raffaello Cortina, Milano, 1982.
2 Molti sono i contributi di Paolo Migone sull’argomento. Ne cito uno per tutti che è il resoconto di un dibattito affascinante: Green A., Kernberg O.F., Migone P. (2009): Un dialogo sulla differenza tra psicoanalisi e psicoterapia psicoanalitica, in Psicoterapia e Scienze Umane, v. XLIII, n.2: pag.215-234.
3 Un’ampia disanima di tali costrutti è in: Lo Verso G., Di Blasi M. (2011), Gruppoanalisi soggettuale. Raffaello Cortina Editore, Milano
4 Meneguz G. (2005), Psicoanalisi ed etica. Appunti di critica storico-sociale, Bollati Boringhieri, Torino.
30 gennaio 2011
Grazie Pontalti per queste parole che si discostano (assieme a quelle sempre precise di Migone) dall’idea conformista che tutto ci sia concesso come terapeuti, compreso far pagare anche quando non sia dovuto. Straordinari e pienissimi di spunti teorici e cinici entrambi questi pareri: Pontalti e Migone.
Volevo aggiunere queste mie considerazioni: nessuno riflette sul valore simbolico del mancato pagamento non solo come resistenza ma anche come insoddisfazione reale del servizio? Ma avete presente il livello degli interventi degli psicoterapeuti? Secondo voi non vi sembra non solo attendibile ma anche auspicabile per di più in un momento di crisi economica non pagare a fronte di un servizio mediamente basso, talora scadente e dannoso? Secondo me si. Potrebbe essere uno dei rari casi in cui il mercato diventerebbe positivamente selettivo.
Quanti pazienti ho visto che neanche ricordano i nomi dei loro precedenti terapeuti, quanti ne ho visti letteralmente scappare via da colleghi che sembrano matti, e quanti altri ne vedo rimanere incastrati per lunghissimi anni a non combinare una beata m…. per la loro vita, anzi a rinforzare le loro difese e nevrosi, e continuando a pagare profumatamente colleghi anche prestigiosi. Non sarebbe meglio per tutti che mollassero?
Le spiegazioni teoriche ed il nascondersi dietro il verbo dei “testi sacri” come fa la Putti, ad esempio, sembrano particolarmente stridenti se non odiosi come modalità questa si difensiva di arroccamento attraverso procedure di molte decine di anni fa, quindi anacronistiche.
Per alcuni di noi il tempo sembra non passare mai e i cambiamenti sociali – anche Migone si sofferma su questo – non essere mai avvenuti. Rimaniamo pure imbalsamati nella nostra amata naftalina e nelle nostre splendide teche di cristallo come oggetti da museo a spiegare alla società e ai nostri pazienti che devono continuare a pagare sempre e comunque perchè così dicono i libri e i nostri furbi formatori perché così difendono il setting (ed il nostro potere economico, che è anche un presunto potere relazionale che nulla ha a che fare con l’efficacia e i risultati clinici).
Il link preciso all’articolo di Stefano Alba citato nel parere di Pontalti è questo: http://www.rivistaplexus.it/archivio-numeri-precedenti/la-vita-i-setting-la-psicopatologia/il-valore-della-psicoterapia/
Buona vita a tutti
Giuseppe