Gravidanza indesiderata, aborto e trauma sessuale al cinema. Riflessioni a margine di alcuni film.
di Anna Barracco
L’accesso alla sessualità è uno dei momenti cruciali che segna l’ingresso nel mondo adulto, ma anche si configura come un momento di “messa in funzione” del fantasma infantile, e in questo senso, un buon incontro con il corpo dell’Altro, con la sessualità, nell’adolescenza, può tradursi in una tappa fondamentale per la salute psico-fisica, ovvero sfociare in una domanda più o meno drammatica che il corpo dell’adolescente rivolge direttamente al servizio sanitario, o anche alla Giustizia. Il cinema forse, più dell’esercizio teorico astratto, ci offre oggi un vero tesoro di spunti per l’approfondimento e la riflessione.
Vorrei qui offrire alcune riflessioni sull’incontro traumatico con la sessualità in adolescenza, a partire da tre bellissimi e recenti film, che ben illustrano, con stili profondamente diversi ma tutti e tre con straordinaria sensibilità e profondità, il tema della sessualità traumatica in adolescenza come sintomo, segno, della latitanza degli adulti nel processo di acquisizione della soggettività e del corpo sessuato da parte degli adolescenti. Un primo film è “Le ricamatrici”, film francese, del 2005, che racconta la storia di Claire, una ragazza quindicenne, rimasta incinta e che vive un profondo distacco dalla madre e dai genitori; al quinto mese decide dunque di lasciare il posto di cassiera (perché le colleghe non si accorgano del suo stato) e di partorire anonimamente, per poi dare il bimbo in adozione. In realtà la storia mostra molto bene come la gravidanza indesiderata costituisca molto spesso nelle giovanissime, e anche in questo caso, la realizzazione, la trasposizione nel reale, del trauma di una sessualità precoce, o comunque non simbolizzata, che poi esse tentano di elaborare costruendosi una sorta di punizione, un “trattamento” di questo incontro traumatico, che può essere più o meno invalidante, appunto, a seconda di come evolve la situazione. Claire infatti si trovava nel pieno di una crisi di comunicazione con la madre, di una impasse (che si intuisce nel racconto) che la porta a vivere da sola, e a fare la cassiera in un piccolo supermarket in un paese di campagna. Significativo è che la ragazza, per giustificare la sua “latitanza” dal lavoro, e nascondere il pancione alle colleghe, inventa una malattia tumorale. Indossa grandi turbanti (che coprono l’esuberante capigliatura rossa, in una sorta di fantasticata “punizione” della femminilità), inventando dolorose cure chemioterapiche che riporta alle colleghe come causa dell’aumento di peso e del gonfiore. Niente come la menzogna rivela qualcosa di una verità profonda. Claire immette su una stessa linea significante la gravidanza in corso e un immaginario “tumore”. Significativa, la scena in cui schiaccia le noci, insieme ad una figura in posizione paterna, che la invita, in una conversazione del tutto banale e quotidiana, ad ammirare la perfezione del guscio e del gheriglio, l’armonia della natura, e lei dice soltanto “la mia invece è marcia”.
Claire, non ne vuole sapere di quel “tumore”, di quel “gonfiore”, e sembra decisa ad affidare il prodotto del concepimento a qualcun altro, e a questo si associano vissuti di indegnità e di colpa. Il filo conduttore (letteralmente, è il caso di dirlo) che le permetterà un’elaborazione, passa per la via della creazione artistica. Dotata di una straordinaria creatività e passione per il ricamo, Claire trova all’interno di una relazione sostitutiva con una sorta di madre simbolica, incontrata casualmente e con la quale condivide un percorso di crescita in questo campo – il ricamo da haute couture, appunto – lo spazio per pacificarsi con il suo “guscio” e con il suo “gheriglio” e arriva dunque ad accogliere il suo bambino all’interno di un corpo bonificato. A sua volta, l’austera madame Melikian, nella relazione con la giovinetta, elabora il lutto tremendo della morte di un figlio, in un incidente stradale. La madre simbolica, si permette di esprimere, nella relazione, la sua fragilità, e la figlia simbolica, nel potersi prendere cura di lei e perdonarle il tentato suicidio, acquisisce e perdona sé stessa, accoglie la sua storia, e con essa, il suo corpo e la sua capacità d’amare. Agghiacciante è la scena della madre reale, il suo inesorabile non volerne sapere della figlia che, ormai avanti nella gravidanza, si toglie il soprabito, in un appello disperato al suo sguardo, che tuttavia cade nel vuoto.
Un secondo film, ancora più significativo nel trattare il tema dell’incontro traumatico con la sessualità in adolescenza, e della sua correlazione con la mancata “presa” simbolica dei genitori e dagli adulti di riferimento , è il film “Niente velo per Jasira” del 2007. Qui è in gioco un vero abuso sessuale, completo e di grave rilevanza penale, che tuttavia matura in un contesto apparentemente del tutto normale. Il film descrive molto bene come il conflitto non elaborato dei genitori, la distanza territoriale, culturale fra i due, si risolva in un fondamentale, codardo, “non volerne sapere” sul piano etico, della figlia. La madre di Jasira, apparentemente, manda via la ragazza, la spedisce al padre, per “proteggerla” dallo sguardo invadente del suo nuovo compagno, ma in questo gesto spietato (angosciante e straziante il pianto della tredicenne, all’aeroporto, e l’indifferenza materna) c’è tutto l’astio e l’odio nei confronti della femminilità nascente di Jasira e della sua straordinaria bellezza, la paura del confronto, e in una parola, il proprio bisogno più che quello della figlia.
La consegna al padre bigotto e tradizionalista è una vendetta pura, più che un atto educativo. Lì la ragazza sarà confrontata con le contraddizioni della società americana apparentemente tollerante ma in realtà profondamente razzista, dove l’unico valore e l’unica ricerca ossessiva degli adulti sembra essere la soddisfazione sessuale. Il padre bigotto la confronta, in realtà, con le sue continue effusioni sessuali con le compagne, e il mondo adulto offre in modo opprimente queste continue sollecitazioni. La ragazza è sola a cercare di integrare questi elementi e fa davvero il possibile per compiacere, per non essere cacciata e rifiutata ancora. Si vede molto bene come struttura, Jasira, la dipendenza dal campo dell’Altro e come il suo desiderio sessuale nascente, si confronta senza barriere con un mondo adulto predatore, rapace, ma al contempo sbrigativo e incredibilmente violento nella sua totale non volontà di ascolto. La madre stessa di Jasira, lasciata dal nuovo compagno, torna supplicandola di tornare e ricattandola affettivamente, mostrando con chiarezza quanto Jasira non occupi per lei se non un posto di oggetto sostitutivo, oggetto della soddisfazione materna; da quella posizione, il passo è troppo breve, e il rischio dell’identificazione con l’oggetto diviene fortissimo. Jasira diviene dunque oggetto anche per l’avvenente vicino di casa abusatore, che inizialmente la attrae profondamente e sembra l’unico in grado di incontrarla; Jasira è infine oggetto sessuale e vagamente affettivo anche per il compagno di scuola di colore, al quale, significativamente, chiede, come introduzione all’incontro sessuale, di ripetere la scena del trauma originario (la depilazione pubica, che il compagno della madre l’aveva aiutata a realizzare, e che era stata la causa dell’allontanamento) .
Anche qui, anche in questo bellissimo e forse non sufficientemente acclamato film, la dimensione etica del mondo adulto trova un punto di vista possibile, fuori dal puro godimento, un punto di differenza, nella vicina di casa Melina, ex sessantottina, non a caso, forse, in stato di gravidanza avanzata, che tiene d’occhio Jasira e senza invadere e controllare, di fatto la difende, le offre asilo, protezione, favorisce lo svelamento delle drammatiche verità, dei misconoscimenti, degli alibi degli adulti. Adulti ognuno dei quali, a modo loro, tuttavia, è visto nella sua profonda umanità, nella sua fatica, nella sua quotidiana immersione nell’intossicazione, nell’ipnosi generalizzata dell’imperativo al godimento, velato ipocritamente dal politically correct. Nessuno in questo film, neanche Jasira, è completamente vittima o completamente colpevole.
Tanto più il mondo adulto, e soprattutto gli adulti significativi, sono in grado di assumere, di dialogare e di accogliere il trauma dell’adolescenza , anche nelle sue forme già “sintomatiche” e gravi, come possono essere una gravidanza indesiderata o un abuso sessuale subito, tanto più fausto può essere il percorso di cicatrizzazione o di “rammendo”, per utilizzare la bellissima metafora del film “le ricamatrici”. In questo senso, significativo è il contesto di riferimento adulto che circonda la protagonista del terzo film, “Juno”, film che ha avuto un notevole successo di media e di pubblico, e che mostra come non sia tanto la scelta in sé (aborto, parto in anonimato, scelta di accogliere la maternità) che costituisce l’esito del processo di soggettivazione. Ciò che fa la differenza, in questo film, rispetto al film “Niente velo per Jasira”, è la possibilità da parte del mondo degli adulti, di accompagnare, in qualche modo, il soggetto minore, di non sovrapporre i propri bisogni a quelli del ragazzo o della ragazza, e di permettergli così di abitare il suo desiderio, e con esso, il suo corpo. Per Juno la decisione di dare il bimbo in adozione non è una scelta “punitiva”, come sarebbe stata quella di Claire, delle “Ricamatrici”, che invece riesce ad accogliere la maternità grazie all’apertura ad una relazione amorosa con un coetaneo, apertura che solo la bonifica dell’imago materna realizzata grazie all’incontro con Madame Melikian rende possibile. Per Juno la scelta di non abortire è paradossalmente legata più alla necessità di incontrare un “desiderio non anonimo”, una vera risposta, da parte del mondo adulto, che non ad una scelta moralistica. In questo senso, molto significativa è la scena nella sala d’attesa presso l’Associazione femminista, dove Juno non si sente accolta, non si sente incontrata come soggetto. Per Juno, che davvero cerca e vaglia con intelligenza il mondo adulto che la circonda, non sarà affatto lo pseudo-amore, offertogli dall’immaturo e nevrotico padre della coppia scelta come adottiva, ad offrirle il contenitore simbolico. Il contenitore simbolico le viene offerto dalla relativa “permeabilità” della famiglia ricostruita del padre, dalla donna in posizione materna, dall’insieme di questi elementi, che – retroattivamente sempre – dicono qualcosa di una rete di relazioni simboliche in grado di “contenere” lo strappo, in grado di fare spazio al soggetto, che in questo caso sceglie di non rinunciare alla propria età e di chiudere fra parentesi il trauma, lo condivide con la sua comunità dalla quale si fa accompagnare, e il pancione-trauma, pur reso visibile a tutti – e anzi proprio per questo – trova una via possibile di elaborazione. Non l’unica, ma una; quella appunto di Juno.
D’altra parte il tema della gravidanza indesiderata, anche in età adulta, ha sempre un aspetto traumatico, di “rottura” della trama simbolica, che purtroppo non sempre viene sufficientemente elaborato. Anche su questo tema, il cinema ci offre alcuni esempi molto significativi di aborti-trauma, auto-procurati, con evidenti funzioni di “psicotizzazione”, di acting-out “mortificanti” per il soggetto, che peraltro esitano, non a caso, nella morte reale, delle protagoniste. Penso al bellissimo film della scorsa stagione, “Revolutionary Road“, dove la terza gravidanza della protagonista, April, è effetto di un vero e proprio atto aggressivo inconscio del protagonista maschile; l’atto mancato del concepimento è indice del ritorno del rimosso, è segno della potenza della ripetizione mortifera, per cui il partner non riesce a dire di no, al progetto della compagna. Egli è nell’impossibilità di rimangiarsi la promessa data, ma nello stesso tempo non riesce, non sa sottrarsi al giogo della quotidianità, della tradizione, dalla ripetizione conformista e consumista del perbenismo americano; egli affida dunque il suo conflitto, che presupporrebbe un atto di parola, alla gravidanza in corso; non riuscendo a dire “no” alla richiesta forse utopistica della compagna, anticonformista ma fragile, immette nel suo corpo questo “no”, mettendola contro il muro di una nuova maternità, della quale viene, peraltro, ben presto – secondo un copione purtroppo ben conosciuto – considerata l’unica responsabile e l’unica deputata a decidere. Il rifiuto del protagonista maschile di assumersi la responsabilità del suo desiderio inconscio (in questo caso incarnato dall’atto mancato di un’eiaculazione non controllata), diventa un vero e proprio “cancro” per la coppia, che conduce i due giovani protagonisti fino alla tragedia. Il regista indugia giustamente sulle scene finali, in cui la donna, sola, consuma l’atto abortivo che è tutt’uno con un atto suicida, è un atto contro se stessa e contro l’Altro persecutore che non è più distinguibile dal suo stesso corpo.
Un ultimo film, in cui sempre un atto abortivo consumato in modo solitario o comunque violento, fuori simbolico, e che esita con la morte della protagonista, è il film “Non ti muovere“, dove pure la gravidanza di Italia resta nel limbo di un ‘impossibilità a decidersi, di una incapacità dei protagonisti ad assumere il proprio desiderio. In “Non ti muovere” il doppio binario della ripetizione e del desiderio, si gioca (come è frequentissimo nelle cure di cui ho esperienza) in una “doppia vita” che uno dei due partner continua ad intrattenere, doppia vita che per Italia (Penelope Cruz) diviene insostenibile quando incontra, per caso, la compagna “legittima” del suo partner, e scopre che anche lei è a sua volta gravida e immersa in un pomeriggio di normale quotidianità con il suo uomo. L’incontro insostenibile con il reale del corpo dell'”Altra-donna”, l’aggressione violenta che questo incontro comporta per Italia, si trasforma, masochisticamente, in un atto di aggressività contro il corpo proprio. Italia decide autonomamente, senza neanche confrontarsi con il partner, di procurarsi tardivamente un aborto, e questo sarà per lei una tragica vendetta, un supremo tentativo di urlare il suo dolore, di mettere fine in qualche modo ad un amore al quale tuttavia nessuno dei due sembrava in grado di accondiscendere né di rinunciare.