Il silenzio e la paura Sulle vicende del nido di Pistoia

di Mauro Grimoldi

 

La cosa più devastante è il silenzio. Una privazione di suono assurda, incomprensibile in quel filmato della microcamera senza audio della Polizia al nido di Pistoia. Un bambino fa una carezza ad un altro in un precoce innaturale gesto di compassione. Il secondo bambino viene ingozzato a forza, uno, due, tre bocconi, uno dietro l’altro, non così, ti verrebbe da dire, troppo forte, troppo veloce per non vomitare, forse perfino soffocare. Ma chi agisce così lo sa perfettamente. Un altro piange lacrime che non senti e che non porteranno sollievo né pietà mentre gli viene più volte torto il braccio e piegata la testa all’indietro prendendolo per i capelli. Una tavoletta di legno viene calata senza pietà, repentina e impietosa sulla fragile manina di un bimbo con il volto nascosto insieme al suo dolore. Questo puzzle dell’orrore, senza suoni e senza volti, ha poteri inaspettati. Di colpire, stordire, farsi ricordare, togliere il sonno.

Ciò che colpisce è la purezza dell’atto criminoso, ovvero la crudeltà fine a sé stessa. Il grave reato dell’adulto o dell’adolescente è spesso motivato da qualcosa che comunque appartiene all’area del simbolico, ovvero si può dire, si può cercare di spiegare e conseguentemente di capire -il che non coincide mai con il giustificazionismo, si intende. La fragilità di quei corpi privi di difesa corrisponde invece in maniera perfetta alla perversione intesa come godimento prevalente, quando non esclusivo legato alla dimensione, assoluta, del potere sull’Altro. Non c’è un perché in quella crudeltà inattesa, nuova, inarrestabile. E’ il godimento macabro che deriva dal dominio dell’altro, come nei giochi sadici dei preadolescenti verso i piccoli animali, come nella pedofilia, in cui il bambino è desiderato dal perverso in modo esclusivo proprio per la fragilità e l’innocenza che lo contraddistinguono. In questo caso l’educazione diviene un pretesto per recare dolore ad un soggetto, il bambino, incapace di reazione alcuna; è evidente la perversione del godimento, la deviazione del desiderio oltre i confini sociali del quotidiano e del lecito. Ma lo sgomento non si esaurisce certo con la diagnosi, patologica, certo, dell’origine del male, o con l’accertamento di una pericolosità sociale delle due educatrici conniventi; per quanto con Balier (1998) abbiamo l’attestazione della difficoltà della terapia di soggetti perversi.

Un secondo elemento riguarda la questione politico amministrativa legata ai meccanismi di autorizzazione e accreditamento dei servizi socio-educativi, che mai, e dico mai, prevedono un assessment psicologico-clinico del personale educativo. La selezione di un educatore in un contesto così delicato è affidata alla verifica dei titoli di studio. Eppure numerosa è la letteratura in grado di permettere una “individuazione precoce” dei soggetti a rischio. Diversi sono i lavori (Cirillo e Di Blasio, “Psicologia del bambino maltrattato”, “La famiglia maltrattante”, tra gli altri) che individuano caratteristiche precise e specifiche nei soggetti abusanti a seconda dell’età delle proprie vittime: i bambini in età 12-36 mesi sottopongono in particolare genitori ed educatori ad una forte quota di frustrazione, poiché in quella fase sperimentano la possibilità dei “no” e la sottrazione al controllo dell’Altro. Il soggetto “pericoloso” per i bambini può essere individuato in tempo da uno staff di esperti oppure se corroborati da un dispositivo legislativo una batteria di assessment potrebbe essere autosomministrata secondo il modello dell’haccp come strumento di miglioramento della qualità interna delle strutture nido. Ancora una volta la competenza funzionale dello psicologo non è adeguatamente utilizzata, se non in una richiesta tardiva di aiuto, là, dove, ad abuso avvenuto, poco si può fare su traumi sedimentati in una fase pre-verbale. Ancora una volta la letteratura in questi casi descrive fenomeni che vanno dalle stereotipie comportamentali a vere e proprie disarmonie evolutive, da ansie e paure di punizione circoscritte ad una condiscendenza patologica e irreversibile. 

Ci si può infine interrogare sul ruolo dei genitori, ovvero sull’esistenza di capacità di discriminare i segni precoci del maltrattamento. Si tratta anche qui di questioni annose, ampiamente trattate nei casi di abuso. E’ un problema solo di competenze? O viceversa, come sarei propenso a ritenere, c’entra una strisciante dose di senso di colpa? La polarità dominante  mi pare quella del coraggio versus la paura di riconoscere su un bambino che è il proprio bambino che i segni della violenza e del trauma subìti quando mamma e papà erano al lavoro. Ma tutto questo, per quanto sacrosanto, non basta.

Perché la lesione, la ferita che non guarisce è stata inferta alla fiducia di un’intera collettività, e questo, fatta salva la tragedia di quei bambini e di quei genitori, è anche peggio. In una proporzione difficile da quantificare, condivisa com’è tra tutti i genitori produttivi di frazioni del PIL nazionale d’Italia che la mattina affrontano il piccolo dolore della separazione dai propri bambini per lasciarli nei luoghi dove avviene la loro prima presentazione al sociale. Sostiene l’intero, delicato meccanismo qualcosa di sottile: la convinzione che i pargoli, per quanto fisicamente distanti, siano però affidati a persone competenti e amorevoli, socializzati con delicatezza, fatti bersaglio di stimoli in quantità e qualità adeguata per assicurarne un’evoluzione fluida e ricca, garanzia di felicità presente e futura. Questa certezza è l’unico balsamo possibile da spalmare sul tempo dell’assenza perché la paura non generi il bubbone dolente del senso di colpa.

Anna Laura Scuderi ed Elena Pesce, le due educatrici del nido degli orrori di Pistoia hanno reso ogni genitore italiano di bambino in età scolare un soggetto sofferente e danneggiato, ogni educatore coscienzioso parte civile. Ognuno va oggi al lavoro con la sua eredità di dubbi e paure, la cui risposta rischiano di essere quelle telecamere piazzate in ogni asilo nido fantasticate come la più pragmatica delle soluzioni dal criminologo Massimo Picozzi.  Peccato che sarebbe come sancire la vittoria, definitiva e senza appello, di una cronica cultura del sospetto, di una paura che si dovrebbe riconoscere indelebile marchio dei nostri tempi, il cui parto venefico elettronico permetterebbe un’illusione, triste e inefficace, di controllo.

Chiara Santi

Author: Chiara Santi

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1 Comment

  1. spett.le collega, mi ha molto colpito la tua capacità di cogliere e trasmettere la profonda commozione che la vicenda del nido di Pistoia evoca. io non ho avuto parole, ma solo emozioni che hanno tolto il sonno, come tu scrivi. sono una psicologa, psicoterapeuta e mi occupo di violenza giornalmente; sono, infatti, funzionario psicologo di polizia e, ciò nonostante, non ho avuto parole… grazie per la cornice che hai offerto a tutti noi colleghi e per la sfaccettata lettura ricca di metafore illuminanti. cristina pagliarosi

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