Di chi è il corpo della donna?
Luigi D’Elia, Carlotta Longhi
Tempo fa avevamo diffuso anche sul nostro portale il bellissimo documentario “Il corpo delle donne” di Lorella Zanardo e Marco Malfi Chindemi. Questa importante opera ha girato per la rete ed i media ed è stato commentato in lungo e in largo e in ultimo anche dalla trasmissione “L’infedele” in quanto i temi qui trattati, già in sé attuali, sono improvvisamente diventati ancora più attuali balzando in primo piano a seguito delle note vicende “para-politiche” nelle quali una certa rappresentazione del femminile appariva improvvisamente virare verso un remoto passato che tutti noi speravamo sopito e alle nostre spalle.
Ed invece no, forse eravamo noi assopiti. All’improvviso scopriamo che non stiamo semplicemente parlando di come il corpo delle donne viene imbandito nel rutilante e virtuale mondo dello spettacolo o di retaggi culturali che riemergono dalla preistoria delle nostre anime, ma di un “utilizzo” del corpo femminile che rende quelle rappresentazioni operative, diremmo consolidate consuetudini. Un “passaggio all’atto” ormai sdoganato che fonda una nuova legge o che forse ne rifonda una vecchissima.
Noi psicologi – non a caso una professione all’80% femminile – avevamo maturato invece un’altra opinione sul corpo delle donne avendo assistito (e anche in minima parte promosso) negli scorsi decenni all’avanzamento al centro della scena sociale della soggettualità femminile, nonché la difesa della dignità delle donne (e non solo). Ed infatti non può esserci salute psicologica senza dignità. Questo lo sappiamo bene.
Forse la novità più rilevante del XX secolo, dal punto di vista antropologico, è stata proprio questa: l’avanzamento della soggettualità femminile e la fine del dominio sul corpo della donna da parte di giurisdizioni eteronome quali potevano essere, nelle epoche passate, la sfera divina e religiosa, il padre e la famiglia, il marito, la patria, e così via. In sostanza un sociale presidiato dal maschile e dal suo logos che si faceva garante del diritto civile sul corpo femminile.
La corsa all’accaparramento del corpo femminile ha avuto in passato probabilmente ragioni storiche ben precise laddove la fondazione delle società pre-moderne si muoveva evidentemente sul filo delle demografie e dove benessere e fertilità di una famiglia e di un gruppo sociale coincidevano concettualmente.
Il corpo delle donne ieri come i pozzi petroliferi oggi: chi se ne assicura l’utilizzo e l’esclusiva controlla l’economia del mondo.
Non a caso durante le guerre il popolo invasore marca ancora oggi la sua supremazia e la sua potenza stuprando le donne del popolo conquistato. Atto rituale dovuto non già per un supposto piacere virile, ma come inequivocabile segno sul corpo femminile del cambio di proprietà da parte di un codice sociale dominante.
Il dominio sul corpo della donna poggia sulla concezione della donna come corpo. Mettendo in relazione il dualismo mente-corpo con il genere, notiamo come da sempre alla donna sia stato assegnato il ruolo del corpo, “piegato sotto il peso” come si esprime Simone de Beauvoir, “di qualsiasi cosa gli sia peculiare”. Al contrario l’uomo “vorrebbe sentirsi necessario come una pura Idea, come l’Uno, il Tutto, lo Spirito assoluto”. (Simone de Beauvoir, Il secondo sesso, Il Saggiatore, Milano, 1965, citato in Susan Bordo, “Il peso del corpo“, Feltrinelli, Milano, 1997, p.XVI). La donna è vista come colei che si identifica nel suo corpo, sia rispetto all’immagine estetica seduttiva, cui deve dedicare un’enorme quantità di tempo ed attenzioni, sia rispetto alla sua funzione materna, alla capacità di generare. Allo stesso tempo, la donna è rappresentata ed è di fatto colei che si prende cura dei corpi, e anche dei loro aspetti più carnali, sporchi, malati, degradati.
L’identificazione della donna con il corpo, se portata all’estremo, induce a considerare la donna unicamente come un corpo, come accade nei casi in cui la sola presenza di una donna, percepita in quanto corpo femminile e non in quanto persona con una sua intenzionalità, è interpretata come capace di “indurre in tentazione”, le situazioni in cui anche se le donne non parlano, o dicono il contrario, sono i loro corpi a essere visti come se “parlassero” in modo provocante (con tutte le conseguenze che questa visione ha avuto nella giustificazione di atti di violenza nei confronti delle donne).
Il motivo per cui la gran parte di noi vive (erroneamente) come ancestrali le rappresentazioni che andiamo descrivendo del corpo femminile e della titolarità ad esso legata, è perché nel corso, su per giù, dell’ultimo secolo nel mondo occidentale si sono prodotti innumerevoli cambiamenti sociali e culturali che hanno fortemente connotato e accompagnato la storia delle nostre civiltà.
Una traiettoria che se osservata dal vertice della proprietà del corpo femminile potremmo descrivere attraverso la memoria di almeno 3 date (prendiamo ad esempio la società italiana, ma tale processo è analogo, solo con lievi sfasamenti cronologici, in tutto l’occidente), e queste date sono:
- l 1959 introduzione della pillola anticoncezionale: si realizza lo svincolo dall’obbligo di procreazione che passa definitivamente sotto il controllo esclusivo della donna, diversamente da quanto avveniva prima con l’uso di altre tecniche anticoncezionali pre-esistenti.
- l 1970 legge sul divorzio: cambia il diritto di famiglia e finisce la subalternità (economica e psicologica) della donna nella coppia la quale si svincola dal ruolo coniugale obbligato. Sono infatti le donne in maggioranza a richiederlo.
- l 1979 legge sull’aborto: si sancisce definitivamente la libera autodeterminazione alla maternità desiderata da parte della donna svincolandola dal ruolo obbligato di madre.
Il recepimento culturale, nonché sociale e giuridico, ricordato da queste tre date esemplificative, dei cambiamenti avvenuti riguardo il ruolo emergente della donna nella società, non si limita naturalmente a pillola, divorzio e aborto.
Tali novità mettevano fine al controllo sociale su maternità e coniugalità femminile e al suo ruolo eminentemente sacrificale, e separavano definitivamente la sessualità dal concepimento lungo un itinerario che parte da lontanissimo (probabilmente dagli albori della nostra specie) e che arriva fino alle ultime tecniche fecondative. Ma il percorso di arrivo a questi risultati è stato lungo e laborioso attraverso molte tappe intermedie, passando attraverso il cambiamento della società nel complesso ed in particolare attraverso l’accesso allo studio (interdetto alle donne, tranne rare eccezioni, fino a poche decine di anni fa) e alla formazione; attraverso il loro progressivo avanzamento nel mondo del lavoro che le società prima industriale e poi soprattutto post-industriale richiedevano; lo svincolo dall’allattamento naturale dei lattanti; l’ausilio di strutture pubbliche alternative come gli asili-nido o l’ausilio di collaboratori domestici. A tutto ciò è conseguito una necessaria ri-contrattazione all’interno delle coppie avvenuta negli ultimi decenni su diversi piani, simbolici e pratici a cominciare dalla riduzione dal ruolo casalingo prevalente, fino alla limitazione della dipendenza economica dal maschile, passando per una revisione delle differenze di compiti e competenze familiari e sociali a partire dal fattore genere sessuale.
Il percorso qui riportato, sebbene segni una tendenza evidente, è però ben lungi dall’essere compiuto. L’asimmetria di genere, nelle case italiane, è ancora altissima. I dati dell’ISTAT ribadiscono che “le attività di pulizia e riordino della casa, e quelle relative alla preparazione dei pasti, risultano di competenza quasi esclusivamente femminile (il 90% delle ore dedicate a queste attività è svolto dalle donne). Per quanto riguarda il mondo del lavoro, basti ricordare che l’Italia ha il più basso livello di partecipazione femminile al mercato del lavoro tra tutti i 25 stati membri dell’Unione Europea; quasi la metà delle donne in età lavorativa non partecipa alla vita economica; il 20% delle donne che al momento della gravidanza lavora smette dopo la nascita del figlio; le occupazioni a prevalenza femminile sono associate a profili professionali non elevati, posizioni subordinate, retribuzioni basse, scarse opportunità di carriera, e non c’è un solo ambito nel nostra paese in cui nelle posizioni apicali si noti un’equilibrata composizione di genere.” (dati riportati in: Maria Letizia Pruna, Donne al lavoro, Il Mulino, Bologna, 2007)
La tendenza verso l’autogoverno della donna rappresenta quindi un passaggio culturale fondamentale, probabilmente inarrestabile, ma necessita per compiersi pienamente di un viraggio di rappresentazioni sociali che permettano di superare le contraddizioni odierne per cui, ad esempio, la donna non è più costretta ad essere incatenata al ruolo unico di madre di famiglia, ma è chiamata a svolgere una pluralità di funzioni personali e sociali ancora oggi non compiutamente armonizzabili (la vita delle donne si è infatti maledettamente complicata!).
I fatti cui assistiamo oggi rendono ancora più evidente che questo itinerario è tutt’altro che compiuto e che certe acquisizioni culturali e civili che sembravano scontate non lo sono per nulla (forse perché troppo rapide?) e assistiamo a movimenti relativi alle rappresentazioni psicologiche e sociali che testimoniano piuttosto una necessità di rinegoziazione restauratrice sulla proprietà del corpo femminile.
Ma nel frattempo sono cambiate alcune logiche ed alcuni codici sociali e la partita sulla proprietà del corpo femminile oggi si gioca con nuove regole.
Dopo oltre un secolo di mutamenti, e talora di battaglie civili, tutti orientati a dis-iscrivere il corpo della donna dalla sacralità familiare e sociale di cui era ineludibile, ma asservito, fondamento di continuità, oggi riscopriamo una nuova iscrizione del corpo femminile dentro codici del tutto diversi (specie nella loro riproposizione estremizzata, che unisce l’eros al consumismo) per i quali esso è diventato uno tra gli status-symbol, tra la gadgettistica disponibile sul mercato della felicità e contagiosamente sospinta dai media.
Potremmo dire che il potere sul corpo femminile non ha abbandonato la presa ed è passato, volendo essere essenziali, dal controllo delle nascite al controllo del piacere. Si è passati da un corpo subordinato al logos sociale votato alla prolificità dove i valori correlati erano ovviamente fedeltà e affidabilità, ad un corpo subordinato alle regole economiche nel senso di “allocazione alternativa da fornire alla merce rara”. La bellezza, la sensualità, l’allegria, il calore, l’eccitazione che un corpo femminile spontaneamente produce sono diventati la merce rara da distillare a chi se lo può permettere, possibilmente a pagamento.
Una donna priva di queste caratteristiche o incapace di personificarle nel guardaroba dei suoi falsi-sé, è destinata a sentirsi esclusa.
Individuato il bene d’uso (quello appena descritto), il target, il mercato, e le strategie di vendita, tutto si muove da sé.
Ciò che conta è assicurarsi una quantità di merce sufficiente ad allietare, dove per “letizia” non s’intende più la gioia vissuta nelle relazioni (quella è gratuita, e fuori target…), ma l’esercizio rassicurante e reiterativo del potere che si conferma capace di accantonare sempre e di nuovo quella merce rara.
Se guardiamo all’erotizzazione estrema, possiamo prendere ad esempio la pornografia, in cui il problema non è prevalentemente l’aspetto di sopraffazione nei confronti del femminile, ma la sessualizzazione esasperata, che, sebbene coinvolga sia gli uomini che le donne, rischia di schiacciare nuovamente sull’antica dicotomia il genere che ha una più lunga consuetudine con gli stereotipi. Riconoscendolo, di nuovo, solo in quanto carne.
Il problema è che l’omosocialità esiste, è sempre esistita nelle culture. Come dimostrano anche i civilissimi maschi che marcano la propria separazione dal femminile appendendo nei luoghi di lavoro i calendari con le veline nude, in quanto simbolo della specificità e solidarietà del gruppo. Laddove, per consolidata prassi pornografica, l’unica donna autorizzata a partecipare alla socialità maschile è la prostituta (Loredana Lipperini, “Ancora dalla parte delle bambine“, Feltrinelli, Milano, 2007)
In modo contraddittorio, la società propone da una parte l’ossessione al godimento continuo, dall’altro il richiamo alla dignità della donna. Elisabeth Badinter (“La strada degli errori“, Feltrinelli, Milano, 2004) sottolinea il rischio di tornare all’idea di una sessualità femminile sacralizzata, dove l’unico modo di mettere ordine, di fornire una misura a una società in apparenza sessuomane è quello di opporvi la concezione antitetica, per cui le donne richiedono il famigerato sesso al femminile, fatto delle triade nota: “preliminari, durata, sentimento“. Dove il sesso, in fondo, in fondo, torna a finalizzarsi al solo concepimento.
Le donne si trovano così strette fra la volgarità pubblicitaria e le tentazioni del sentimentalismo più languido. E tutto questo torna a presupporre un argomento principe, il territorio di contesa da sempre: il loro corpo.
La sessualizzazione estrema rimanda anche ad una delle questioni centrali della società odierna: l’identità è legata all’apparire. Ariel Levy (“Sporche femmine scioviniste“, Castelvecchi, 2005) nota come per poter essere degna di nota ogni cosa debba essere “sexy”. Sexy non significa che sei eccitante, significa semplicemente che vali. La sovraesposizione a sfondo sessuale ha molto più a che fare con il consumo che con il contatto. Il sex appeal è diventato una valuta nello scambio sociale, e le persone sono disposte a spendere una grande quantità di tempo e denaro per accaparrarselo. Essere attraente significa che sei notato, che sei popolare, che la gente parla di te. L’autrice sostiene: “Nel caso tu sia donna, significa essenzialmente che sei scopabile e vendibile. I nostri modelli di riferimento sono le star dell’industria porno“.
Questo spiega anche l’erotizzazione sempre più precoce delle ragazze, e perfino delle bambine (basta dare un’occhiata al look e alle aspirazioni adultomorfe delle bambine di certe pubblicità rivolte proprio al pubblico femminile minorile), che non conquistano un piacere sessuale, ma un riconoscimento sociale. Il sesso è solo un mero strumento, attraverso il quale apparire ed avere successo nel gruppo dei coetanei. In quest’ottica è comprensibile la centralità dei media ed in particolare di Internet, che diffondendo l’immagine in tempo reale e annullando le distanze, permette di centuplicare l’effetto.
Ci si domanderà a questo punto: dov’è finita sulla scena che stiamo descrivendo la soggettualità femminile così faticosamente emersa in un secolo di civilizzazione?
Svanita, ricacciata in basso, o forse meglio dire annichilita sotto le sferzate della ragione economica? Nessuno scandalo dunque per donne che impersonano o indossano la maschera della fatuità, oppure che mostrano comportamenti ancillari, sottomessi o di “arredamento mediatico”? Nulla di strano che alle persone-donne si preferiscano talora le loro versioni caricaturali più umilianti?
Nella pratica psicologico-clinica è cosa nota che persone (donne e uomini) che usano la seduzione come prevalente modalità relazionale mostrano in genere una disposizione alla manipolazione (attiva e passiva) che è spesso di copertura di seri problemi di personalità.
E dunque il modello femminile di successo è diventato una persona disturbata? Ovviamente questo alle donne non può andare affatto bene.
Il corpo della donna scippato all’unica proprietaria plausibile, la donna stessa, circola nella barbarie dell’attuale de-cultura come “oggetto parziale” da rivendere a tranci ben impacchettati e sigillati sul rassicurante banco del marketing mediatico e nelle stanze del potere. Purché l’interezza della donna non diventi troppo inquietante.
23 novembre 2009
Mi permetto di segnalare agli autori del bellissimo articolo che la sottoscritta e la collega Prof. Anne Maass stiamo lavorando nell’ambito del nostro laboratorio di ricerca sperimentale in psicologia sociale sul tema dell’oggettivazione del corpo femminile, anche grazie collaborazione di Lorella Zanardo. E’ un piacere leggere e sentire un pensare comune fra molti di noi. Cordialmente,
Mara Cadinu
24 novembre 2009
Cari colleghi,
sono lieta di leggere e quindi di vedere scritte parole delle quali sento un’enorme mancanza nei contesti giovanili. Parlo ora da madre e non da psicoterapeuta di una bambina di 12 anni, ora considerata ragazza e oggettivata nel corpo come donna dalle sue coetanee. Il dilagare dell’erotizzazione dei corpi sulle/delle giovanissime appartiane al quotidiano, l’identificazione delle tappe di crescita in funzione delle prestazioni sessuali, sconfina il piano della fantasia (senza forse neanche permettersela) per divenire automaticamente un passaggio all’atto. Di contraltare l’insicurezza e l’immaturità ,congrua vengono negate e rifiutate…le paure non esistono…tranne che per noi adetti ai lavori che assistiamo a sempre maggiori sintomatologie ansiose, di prestazione e di identità e quindi concordando con voi di falso sè. Dovremmo proporre come categoria professionale anche incontri nelle “famose scuole medie” dove si possa iniziare a ragionare.
Gabriella Merenda
28 novembre 2009
Car* collegh*
complimenti per questo editoriale così ben scritto e denso di significati.
Come donna e anche in quanto neo dottoressa in Psicologia, mi interrogo da anni su questi argomenti ed è stato un piacere leggervi.
Buon lavoro! Arianna D’Ambrosio
13 aprile 2014
Sono contenta di leggere parole di questo genere perché credo che il cambiamento parta dalla presa di coscienza. Purtroppo la realtà attuale non è ben chiara a tutti, comprese molte donne, ed è fondamentale informarsi ed informare per agire correttamente e cambiare. Cambiare sé stessi, cambiare chi si ha attorno, cambiare la società.
Buon lavoro!
Valentina