Another brick in “Le mùr”? Parere del Dr. Virginio Baio

A scuola dei nostri maestri

Vorrei dare una idea della mia esperienza con i bambini autistici.

Non lo so se riuscirò a far intravvedere in che misura lo strumento della psicoanalisi è riuscito ad orientarci a reperire a quali condizioni questi bambini ci possono associare come loro partner, per realizzare la loro elaborazione.

Elaborazione decisiva per ritagliarsi un loro posto da dove prendere la parola, guardare il mondo, reperirsi nello spazio e nel tempo, essere nel legame sociale e in un contesto scolastico

Cercherò di presentare a grandi linee un prima, durante e dopo del lavoro con Tano, Victor, Joe.

Prima, in quali condizioni questi bambini arrivano;

durante, come realizzano il loro lavoro in quel particolare momento servendosi di noi;

dopo, cioè quale effetto ottengono.

PRIMA

Tano, Victor e Joe.

Tano, 5 anni, trascorre ore e ore accovacciato ai piedi di una porta mordendo senza sosta gli stipiti di legno e picchiettando il muro con un oggetto solido, mettendo in bocca pezzetti di legno e calcinacci caduti per terra, producendo, allo stesso tempo, in alternanza, un brusio con la bocca.

Victor, tiene incastrate le braccia in una sedia in ferro che porta sulla schiena, restando piegato con la testa dentro una poltrona, mentre mantiene allo stesso tempo in equilibrio agli angoli della sedia in ferro due tazze d’alluminio piene d’acqua. Ogni qualvolta per un suo movimento una tazza cade, una delle sue braccia incastrate nella sedia si libera e parte una gragnola di pugni, di colpi al viso, agli orecchi, agli occhi da trasformarlo in un bimbo tumefatto e ferito.

Joe, 4 anni, arriva nell’istituzione agitando senza sosta una cordicella che porta con sé ovunque e sempre. Nell’attesa che la camionetta venga a riprenderlo per portarlo a casa. Passa la giornata alla porta d’entrata dell’istituzione

DURANTE

Cosa fare? No, non ci chiediamo cosa fare, ma “perché” questi bambini fanno questo. Cerchiamo fra le mille ipotesi teoriche quella che ci aiuta ad attraversare questa opacità rispondendo al perché e che ci sa orientare ed accompagnare efficacemente per l’elaborazione del bambino autistico, quella ipotesi che per ogni bambino sa da un lato proporci quei principi che, dall’altro lato, consentono che la “singolarità” di ciascun bambino si realizzi nella “particolarità” di ciò che fa il centro, il perno della sua elaborazione.

Dal 1974 il filo rosso dell’orientamento delle ipotesi della psicoanalisi di Lacan sono state decisive, efficaci, rigorose, operative.

Il filo rosso di Lacan ci sta ancora oggi orientando nella pratica clinica non di tutti i bambini autistici, ma ogni volta di “questo bambino qui”.

Pronti anche oggi a gettare le ipotesi di Lacan nel cestino, se queste ci portano ad un impasse.

Partiamo da una posizione di non sapere, di non sapere il perché. Cioè cerchiamo il perché, la logica di quello che sottende il fenomeno, la funzione per il bambino, per questo bambino qui.

Perché per esempio Tano divora le porte? Cosa vuole realizzare? E Victor, perché ha bisogno di tutta una complicatissima costruzione che apparentemente finisce per demolirlo? A cosa gli serve? “Chi” lo picchia? E’ lui che “si” picchia? E quella cordicella di Joe. Noi vediamo una cordicella. Ma per Joe che cos’è? Perché la agita?

Fondamentale e decisivo per l’équipe è la riunione generale di tutta l’équipe che, ogni venerdì dal 1974 fino ad oggi, dove si studia, si leggono i testi, gli autori, le scoperte, le soluzioni, come se la sbrogliano, … Dove ognuno dell’équipe inoltre mette in comune, fa parte di quello che dice e fa ogni bambino, di quello che lui ha detto e ha fatto con il bambino. E tutto questo viene passato ai raggi X, viene  confrontato con la logica delle ipotesi che ci orientano.

Per esempio, come operare perché Tano ci associ alla sua operazione?   Organizziamo l’atelier due chitarre dove, oltre ai quattro bambini e l’operatore, ci sono due chitarre: una per i bambini e una per l’operatore. Quando un bambino riceve dall’operatore la chitarra dei bambini, allora quel bambino ha  la parola. Quando è la volta di Tano, la chitarra del bambino resta sul tavolo, mentre lui  continua impassibile le sue stereotipie. Come far sì che Tano si serva dell’operatore come di uno strumento, senza sentirsi aggredito? Come intavolare con lui un inizio di conversazione, usando unicamente le chitarre?

Tano continua a non toccare la chitarra, ma picchietta sulla porta e sul muro, l’operatore fa un accordo di chitarra. Quando Tano si ferma anche l’operatore si ferma. Ma un giorno Tano smette di picchiettare e si gira fissando negli occhi l’operatore. L’operatore allora inizia a cantare gioiosamente “Ecco Tano!” Questa scena si ripete per più volte in diversi giorni, sempre con la stessa modalità, poi un giorno Tano si alza e appoggiato al tavolo si mette a guardare l’operatore mentre continua a picchiettare sulla chitarra del bambino. In un atelier successivo, Tano si avvicina, si appoggia alla chitarra dell’operatore e si mette a picchiettarla, dopo un po’ toglie all’operatore la chitarra di mano, sale sulle sue ginocchia mettendosi al posto della chitarra e picchietta sulla spalla dell’operatore. Infine, all’improvviso con un sorriso, abbraccia l’operatore e gli morde la spalla.

Come leggere quello che è avvenuto? Che cosa sta realizzando questa modalità dell’operatore di continuare l’operazione di Tano istallandosi come partner ci è possibile per ipotesi che noi facciamo orientati da Lacan.

  1. Tano è già al lavoro, tentando una sua invenzione, che però non si annoda e non si àncora.
  2. Tano accetta di associare l’operatore che si era prestato all’operazione e che vi è entrato rispettando il ritmo e l’alternanza di quello che potremmo chiamare la lingua privata di Tano.
  3. L’articolazione minimale che ha luogo tra il picchiettio e l’accordo di chitarra dell’operatore ha come effetto d’apres-coup il sorgere di un soggetto (Tano che si volta a guardare l’operatore) si presentifica nella sospensione del picchiettio, nel girarsi e nel cercare lo sguardo dell’operatore.
  4. Tano può incontrare l’operatore perché quest’ultimo non si presenta come un partner-che-sa, ma come un partner-che-si-associa-alla-elaborazione-di-un-sintomo. Che gli permetterà di farne il suo punto di appoggio, l’ancoraggio, che gli permetterà di “nascere come soggetto”
  5. L’operatore si cala al livello del lavoro di Tano senza pretendere né educare, né correggere, né interpretare.
  6. Il lavoro di Tano sfocia sul morso alla spalla dell’educatore, che, secondo noi, è da leggere come un tentativo- tentativo, perché avviene nel reale e non nel simbolico- di incorporare un tratto dell’Altro, tratto su cui si basa l’identificazione secondo Freud.
  7. Il lavoro di Tano sfocia in un’elaborazione che mette in luce un sapere, seppur minimale, di un funzionamento inconscio, in cui la pantomima di Tano si annoda con l’intervento dell’operatore. Inoltre, non sarà forse vano sapere che il lavoro del padre di Tano ha a che fare con i muri e i calcinacci.
  8. Il sorriso di Tano è il segno di un inizio di soggettivazione e di socializzazione. Come ricorda Lacan. Il sorriso è una comunicazione (Lacan, 1957-58). Il riso e il sorriso sono, infatti, dell’ordine del linguaggio e sono articolabili nel campo delle significazioni- ridere e sorridere vogliono sempre dire qualcosa- e sono quindi dell’ordine del linguaggio.

E Joe? Che cosa sta cercando di realizzare con la sua cordicella? Si tratta forse di un gioco? Quando un bambino gioca, fa prova di possedere lo strumento significante: la bambola, il camioncino o il pallone è ciò con cui egli si relaziona con gli altri bambini. Nel lessico lacaniano è quel significante che lo rappresenta presso altri significanti. Ora, nel caso di Joe, la cordicella non è un significante che lo rappresenta, poiché nulla si articola nella dimensione di una concatenazione: la cordicella di Joe non è fatta per socializzare. Ma allora, se non possiamo dire che Joe giochi con la cordicella, dato che non gli serve a entrare in relazione con i coetanei, che cosa sta facendo? La cordicella che Joe agita senza sosta- come altri bambini autistici agitano un cartoncino, una macchina, un oggetto, oppure agitano il loro corpo in un movimento ritmico in avanti e indietro, o ancora accendono e spengono un interruttore, o aprono e chiudono una porta incessantemente- serve per intrattenere una regolazione simbolica minima. Questa è l’ipotesi che noi facciamo: che si tratti di un’operazione simbolica minima, che consiste nell’applicare a un oggetto qualsiasi- ma che complementa talmente il soggetto autistico da essere un oggetto inseparabile- l’inizio di un battito a due tempi, l’inizio di un battito simbolico, di cui il fort-da del nipotino di Freud ne sarebbe il paradigma.

Solo che, mentre questo battito a due tempi del nipotino di Freud è operativo, ed effettivamente per la maggior parte dei bambini lo è, e apre il bambino alla dimensione simbolica instaurando un rapporto con l’Altro, come avviene nella domanda d’amore, nella domanda di riconoscimento e via dicendo, nel caso del bambino autistico il battito si ripete all’infinito e non apre alla dimensione dell’Altro.

Joe applica alla cordicella un movimento vibratorio, onde per fabbricarsi un significante tutto suo, mancandogli quel significante passe-partout che ci rende tutti “normali”, quel significante che gli permettevi orientarsi nella vita, nel legame sociale. Joe cerca di inventarsi una sua propria chiave che funzioni come quell’organo in più, supplementare, come quell’organo che gli permette di organizzare la sua vita.

Se l’agitare senza sosta questa cordicella è un “lavoro” che lo pacifica, però non si iscrive, non si iscrive in una serie, lasciandolo in una pura ripetizione.

Come operare da parte nostra perché la sua costruzione faccia emergere la sua soggettività, lo produca come soggetto?

In un atelier nel quale ogni bambino parla della sua storia, Joe parla della sua cordicella, che lui dice essere una piccola giraffa, e che la grande giraffa è il papà. Poi la giraffa si trasforma in un coccodrillo, un coccodrillo mamma, no, è un coccodrillo che vuole ammazzare papà. Che è lui stesso il coccodrillo e che vuole ammazzare il papà. Nel proseguo della sua costruzione non porta più nell’atelier la cordicella e parla di un piccolo animale che ha sonno e che vuole andare a dormire. E mentre lo dice, si leva lui stesso le scarpe. Da qui egli si interessa a differenziare gli animali pericolosi da quelli no, gli animali a due zampe da quelli a quattro. Joe sta nascendo al sapere, al suo sapere singolare che trova una sua crescita nella curiosità di sapere.

La classe che esiste fin dagli inizi a l’Antenne ha questa funzione: di aprire anche come nuovo luogo, oltre alla elaborazione di Joe, del soggetto, all’effetto di socializzazione e di scolarizzazione di Joe, prendendo il relais di quello che apparentemente era una stereotipia, l’agitare la cordicella.

DOPO

Al punto, per esempio, che dopo due anni e mezzo di lavoro, Joe integra una scuola, con una presenza discreta e sostenuta di un operatore, con momenti di lavoro tra istituzione e scuola, con effetti tali di inserimento di Joe nella classe da sorprendere l’équipe e la scuola stessa…

E Victor?

Cosa abbiamo fatto per umanizzarlo, perché trovasse una pacificazione, perché ogni minimo segno della nostra presenza non si trasformasse per lui in persecuzione? Cosa abbiamo fatto perché si sbarazzasse del nodo con le braccia dietro la schiena per lavorare con l’operatore prendendo lui stesso il trapano per fare dei buchi nel muro? Cosa erano diventate le sedie nelle quali Victor si incastrava? E’ un divertimento per Victor quando l’operatore arriva al mattino, far cadere tutte le sedie messe sul tavolo (perché si era lavato per terra) per farle cadere e poi scappare ridendo mentre l’operatore fingendo di essere arrabbiato lo rincorre?

Cosa ha inventato l’operatore per farsi associare da Victor nella sua costruzione? L’operatore ha preso il posto di una delle due sedie. Ispirandosi delle ipotesi di Lacan. Quali?

Per esempio

Che questi bambini “non ci intendono perché noi ce ne occupiamo”. Cosa dire loro ma in tal sorta che non si debbano difendere da noi?

Che non aspettano noi per essere già al lavoro per autodifendersi e autocostruirsi la loro elaborazione, dappertutto e senza sosta. Per poter, grazie alla loro elaborazione “nascere come soggetto”. Ci riescono se ci sono dei partner che sappiano la funzione da incarnare per loro.

Partner che sappiano che in quei ragazzi c’è soprattutto un “soggetto” al lavoro per diventarlo attraverso una elaborazione unica, e singolare. Più elaborano e più essi prendono posto  nel legame sociale, prendono la parola,  si oppongono, dicono di no, e si presenta e cresce l’apertura per l’apprendimento

Gli operatori devono sapere viaggiare tra Scilla di non essere una presenza invasiva e Cariddi di “c’è qualcosa da dire loro”.

Gli operatori devono “sapere non sapere” l’elaborazione di questi bambini. Evitare per questi bambini di incarnare un luogo del sapere assoluto.

Tagliamo corto ad un discorso che sarebbe troppo lungo. È proprio la psicoanalisi lacaniana a metterci in guardia dal pericolo dell’applicazione a questi bambini della psicoanalisi: le condizioni non ci sono tuttavia come la psicoanalisi può esserci in modo operativo? La risposta si chiama “la pratica in diversi”. La psicoanalisi, nella modalità della pratica in diversi è un’invenzione come risposta a questa impossibilità. Cioè è una  nuova modalità di lavoro terapeutico che consiste nell’usare la psicoanalisi perché ci permetta di leggere, comprendere questi bambini per poi inventare un modo di vita che gli consenta di affermare la sua posizione soggettiva e stimolare la possibilità di un desiderio nascente. In fondo questo metodo inventato da uno psicoanalista lacaniano, Antonio Di Ciaccia  ricorre alla psicoanalisi a condizione che non venga applicata nessuna forma di psicoanalisi o di terapeutica specifica.

Concluderei dicendo che questo metodo è sovversivo come l’atto al quale ho assistito il mio primo giorno a l’Antenne 110. L’atto sovversivo con il quale inizia ogni giornata dell’Antenne 110 è la riunione di parola. Ogni bambino ha il proprio tempo di parola. In questo tempo il silenzio sembra regnare sovrano. Sembra perché gli operatori prendono come parola il minimo starnuto, rumore di sedia del bambino. Per l’equipe fare un posto e ascoltare quel silenzio inaugura una nuova clinica, una “clinica del soggetto”, e di una nuova pratica di operatori la cui presenza è ricca di un “saper non sapere” il sentiero  che ogni bambino costruirà con la “guida che lo segue” per arrivare alla radura dove avrà il suo posto, l’essere insieme agli altri, seduti in compagnia in quanto protagonista. Come Joe.

Chiara Santi

Author: Chiara Santi

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4 Comments

  1. Le teorie, gli aneddoti e le impressioni di Virginio Baio non sono pertinenti alle linee guida.
    Le linee guida prendono in considerazione studi scientifici, poiche’ hanno lo scopo di indicare i trattamenti che si sono dimostrati efficaci per il trattamento dell’autismo e quelli che si sono dimostrati inefficaci.
    Poiche’ studi del genere sulla psicoanalisi applicata all’autismo non esistono, della psicoanalisi nelle linee guida non si fa menzione.

    Se Virginio Baio vuole che il suo approccio sia contemplato nelle linee guida, deve pubblicare una ricerca sull’efficacia con una elementare comparazione fra misure pre e post trattamento.

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    • che cosa si intende per “trattamenti che si sono dimostrati efficaci per il trattamento dell’autismo”?
      è ancora in corso un dibattito che presuppone il dominio della valutazione di una serie di performances?
      si ritiene davvero che possa interessare al soggetto così detto autistico il suo risultato in termini di prestazione a fronte di una possibile normalizzazione? o forse interessa solo i soggetti così detti non autistici?
      è davvero interessante discutere, ancora, del concetto anacronistico di normalità le cui origini contemporanee datano almeno tre secoli addietro?
      non sarebbe più interessante ascoltare ciò che ha da dirci il soggetto autistico così come sostenuto molto chiaramente da Virginio Baio?

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  2. Anche a me è stato richiesto recentemente di aderire all’appello di un gruppo di parlamentari per la riapertura delle “linee-guida” sull’autismo. Questa la mia risposta:

    “Gentili Colleghi,

    poiché mi avete chiesto di aderire all’appello di un gruppo di parlamentari ad “Aprire un tavolo di riflessione sulla linea guida sull’autismo affinché si sviluppi uno spazio di attenzione vero su questa patologia che non limiti il confronto scientifico alla sola letteratura americana o riduca gli approcci terapeutici al solo modello comportamentale”, desidero chiarire qui perché non aderisco, né aderirà il Centro per la Ricerca in Psicoterapia (CRP) che presiedo.

    Vi ringrazio di avermi fatto conoscere il documento ‘Il trattamento dei disturbi dello spettro autistico nei bambini e negli adolescenti’… Il documento in sé, infatti, molto più di una “linea guida”, è una vera e propria rassegna ragionata ed articolata sulla letteratura scientifica attuale sul trattamento dell’autismo e sindromi correlate. Non è limitato a quella americana e non solo al “modello comportamentale”. A nostro giudizio, quindi, il documento in oggetto è un ottimo strumento per il trasferimento di conoscenze dalla ricerca alla pratica clinica.

    Inoltre, l’autismo riceve già da tempo notevole attenzione da parte di clinici e ricercatori, quindi non si comprende la necessità di aprire un tavolo di riflessione su questo argomento, soprattutto a livello parlamentare, visto che è oggetto già da tempo di convegni, conferenze e dibattiti specialistici. Inoltre, il confronto, se si vuole mantenerlo sul terreno scientifico, non può ignorare gli studi sperimentali, i soli che consentono la verifica degli errori di valutazione. Proprio il tipo di studi esaminati nel documento in questione.

    Se nel documento non trova accoglienza molta della letteratura prodotta in Italia, o su nuovi concetti o orientamenti, è solo perché sono stati esaminati studi pubblicati su riviste scientifiche internazionali, tipicamente anglofone, dove il numero di lavori italiani in questo campo risulta molto esiguo. Non è quindi che vengano esclusi altri approcci teorici, bensì che questi non hanno prodotto una sufficiente documentazione scientifica a livello internazionale.

    La vera contrapposizione infatti non è tra l’uno o l’altro degli orientamenti teorici in questo campo, ma su l’uso o meno della metodologia scientifica di controllo delle ipotesi e degli errori di osservazione e di misura, per corroborarli. C’è, invece, la necessità di finanziare ulteriori ricerche, visto che i trattamenti più efficaci disponibili non sono ugualmente efficaci in tutti i casi, ed una comprensione esaustiva della genesi della sindrome autistica è lungi dall’essere stata raggiunta.

    La presenza di linee-guida, comunque, non può in alcun caso precludere lo sviluppo di nuove ricerche. Piuttosto che trattare le controversie scientifiche, che pure ci sono, in una sede parlamentare, quindi, sarebbe più opportuno formulare la richiesta di sostenere le ricerche stesse con adeguati finanziamenti. Pertanto, per i suddetti motivi, la richiesta di aderire all’appello di un gruppo di parlamentari è quantomeno mal formulata.”

    Sono quindi perfettamente in sintonia con la risposta di Corbellini e concordo che l’espressione “scienza a statuto speciale”, che si vorrebbe accreditare alla psicanalisi, se pure avesse un senso, non potrebbe che avere quello di identificare una pseudoscienza.

    Saluti,
    L. Sibilia

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  3. Il problema credo stia proprio nel fatto che la psicoanalisi si pone sul piano della ricerca del significato, mentre nell’autismo il significato passa in secondo piano. Di fronte ad una stereotipia, che ha evidentemente la funzione di isolare il bambino dalla situazione che sta vivendo oppure costituisce la comunicazione di un disagio o di un’emozione troppo forte non basta comprendere il significato. Bisogna intervenire dando o meglio insegnando al bambino uno strumento di comunicazione più efficace e più soddisfacente per lui. Non si tratta solo di accogliere una diversa soggettività ma di rispondere alla impossibilità comunicativa che questa soggettività esprime.
    Faccio un semplice esempio: l’utilizzo delle immagini. Partendo dal semplice e condiviso dato che uno dei principali sintomi dell’autismo sono le difficoltà comunicative (da cui discendono anche quelle relazionali) sono rimasta straordinariamente colpita dall’effetto che il supporto dell’immagine alla parola hanno dato ai miei bambini. Un’operatrice mi disse: “Prova a pensare di essere in un paese di cui non conosci la lingua e tutti ti parlano in quella lingua. Così si sente R. Dobbiamo aiutarlo con delle immagini, foto o disegni, in modo da rendergli più comprensibile ciò che gli chiediamo”. Questa semplice operazione ha spalancato un mondo: R non si sentiva più isolato ma c’era uno strumento con cui poteva farsi comprendere. Quando gli mostravo la foto della frutta sapeva che poteva fare la merenda, oppure che poteva farmi capire, scegliendo la foto, la merenda che preferiva quel giorno…questo ha immediatamente sostituito le stereotipie e soprattutto le reazioni di aggressività. Se io mi fossi semplicemente limitata ad interpretarle, a cercare di capire il significato che quelle stereotipie o quegli attacchi di aggressività avevano, sarei sicuramente giunta a stanare la dimensione di impotenza che genera in un essere umano l’incapacità di comunicare e di poter trasmettere all’altro i propri desideri. Quando i bambini autistici imparano (e per farlo ci vuole un lavoro continuo, incessante, giornaliero) a utilizzare gli strumenti comunicativi diventano altri bambini, sono più sereni, tranquilli, affettuosi. Allora si che si aprono alla relazione e in quella relazione possono apprezzare i significati. E’ a questo che serve la terapia comportamentale: a dare strumenti che a loro, per natura, sono venuti a mancare. Tutto il resto, significati compresi, viene dopo.

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