Lo psicologo? Che s..coach..iatura!

SEGNALAZIONE

Vi scrivo per segnalarvi un articolo comparso sul sito internet affaritaliani.it in cui viene sponsorizzata la figura del coach e in cui mi sembra che lo psicologo non ne esca tanto bene. Che dite?

Lettera firmata

LINK ALL’ARTICOLO ORIGINALE

http://www.affaritaliani.it/coffeebreak/coach191110.html

COMMENTO REDAZIONALE A CURA DELLA DR. SSA ILARIA FABBRI

L’International Coach Federation (ICF), che rappresenta attualmente una delle organizzazioni più autorevoli nel suo campo, definisce il coaching professionale come un rapporto di partnership che si stabilisce tra coach e cliente con lo scopo di aiutare questo ultimo ad ottenere risultati ottimali in ambito sia lavorativo che personale (1). E prosegue riconoscendone il nucleo fondamentale nei termini di una relazione fondata sul rispetto e sull’apprezzamento reciproco come persone. Secondo l’ICF, il coaching rappresenta un intervento che accelera la crescita dell’individuo, permette un accrescimento nelle capacità di pensiero e nella presa di decisioni, un miglioramento nell’efficienza interpersonale, nelle aree della produttività e della soddisfazione personale, oltre a consentire il  raggiungimento di importanti obiettivi personali (1). Il coaching è un intervento che si focalizza esclusivamente sul presente e sul futuro del cliente, in cui viene valutata la situazione attuale di partenza (“dove si trova il cliente oggi”) e quali sono le mosse da fare per raggiungere gli obiettivi preposti (“la meta in cui vorrebbe trovarsi domani”) (1). I suoi destinatari sono persone in grado di gestire efficacemente la propria vita, persone creative e ricche di risorse, che non stanno cioè cercando una guarigione emotiva o sollievi da un dolore psicologico, ma, al contrario, che vorrebbero raggiungere un livello più elevato di performance, di apprendimento o di soddisfazione (1). Per tutte queste ragioni, ma soprattutto per fornire una maggiore comprensione rispetto agli approcci utilizzati, l’ICF ha definito le undici competenze chiave del coaching:

  1. Conoscenza delle linee guida etiche e delle norme professionali e capacità di applicarle in modo adeguato in tutte le situazioni di coaching
  2. Definizione del contratto/accordo di coaching
  3. Capacità di creare sicurezza, fiducia e confidenza con il cliente
  4. Presenza nel coaching, cioè la creazione di relazioni spontanee con il cliente, impiegando uno stile aperto, flessibile e confidenziale
  5. Ascolto attivo, cioè capacità di concentrarsi completamente su ciò che il cliente sta dicendo e su ciò che non sta dicendo, di comprenderne il significato e di sostenere l’auto-espressione/spontaneità del cliente
  6. Domande potenti, che consistono nella capacità di porre le giuste domande per il massimo beneficio nel rapporto tra il coach e il cliente
  7. Comunicazione diretta attraverso la capacità di comunicare in modo efficace nel corso delle sessioni di coaching e di utilizzare un linguaggio che abbia il maggior impatto positivo possibile sul cliente
  8. Creazione di consapevolezza nel clienti
  9. Progettazione di azioni efficacemente orientate ai risultati prefissati
  10. Determinazione degli obiettivi
  11. Gestione dei progressi e delle responsabilità del cliente

Nel contesto organizzativo odierno il coaching, come attività di formazione e di consulenza professionale, viene prestato a vari livelli, anche se per anni il suo contesto naturale è stato quello sportivo. In questo ambito il termine “coach” ha designato da sempre la figura professionale che indirizza le sue competenze verso lo sviluppo delle capacità generali dell’atleta e verso l’ottimizzazione di queste stesse capacità precedentemente potenziate durante lo svolgimento della gara o dell’evento sportivo (2). Nel tempo il termine “coaching” si è rivestito di una miriade di appellativi, da executive coaching, personal coaching, job coaching, etc., ma indipendentemente dalle sfumature di significato che di volta in volta assume, l’idea che muove l’intero processo di coaching è da sempre quella dell’empowerment (3). Questo costrutto si è sviluppato soprattutto a partire dagli anni ottanta all’interno della Psicologia di Comunità e indica un concetto positivo, multidimensionale, che si colloca nell’interazione attiva tra individuo e ambiente sociale di appartenenza (4). Letteralmente il termine empowerment, che deriva dal verbo inglese to empower, significa “favorire l’acquisizione di potere, rendere in grado di” e quindi si riferisce al processo tramite il quale le persone possono accrescere la possibilità di controllare la propria vita, possono acquisire o riscoprire la padronanza di capacità che rinforzano il senso di sé, che stimolano una consapevolezza critica della realtà e inducono all’azione e alla mobilizzazione delle proprie risorse (3). Il processo di empowerment è sostanziato in realtà da alcuni fattori psicologici, quali la self-efficacy, il locus of control interno, l’hopefullness, l’autostima, il vissuto di azione e di protagonismo, l’intelligenza emotiva (4). Dunque, verrebbe da chiedersi: se c’è così tanto di psicologico nel processo di empowerment e se è vero che questo costrutto, insieme a quello di relazione, intesa come esperienza in comune e condizione che comporta sempre reciprocità (5), costituiscono le fondamenta basilari del coaching (1), allora il coaching non dovrebbe essere uno tra gli ambiti di competenza propri dello psicologo?

Secondo l’ICF, il coaching non è una psicoterapia e la guarigione emotiva non è interesse del coaching (1). Questa è cosa certa. Il coaching è un intervento non clinico, volto a scoprire o a ri-attivare nuove strategie di azione più funzionali al raggiungimento di certi obiettivi, ma proprio per questa ragione è davvero molto simile ad alcune tipologie di intervento psicologico, per esempio di counseling, di psicologia del lavoro o di promozione della salute. Infatti è bene ricordare che lo psicologo non si occupa soltanto di clinica, ma sempre e comunque lavora secondo i principi del suo Codice Deontologico e quindi, secondo quanto si legge nel terzo articolo, “…in ogni ambito professionale opera per migliorare la capacità delle persone di comprendere se stessi e gli altri e di comportarsi in maniera consapevole, congrua ed efficace” (6). Allora dove sta il fraintendimento? Per quale ragione molte aziende richiedono un intervento di job coaching e molto più raramente si rivolgono ad uno psicologo del lavoro? E perché il privato cittadino che non è soddisfatto di qualche aspetto della sua vita chiede aiuto ad un life coach, ma difficilmente pensa che qualche colloquio con lo psicologo potrebbe sortire lo stesso effetto? La società in cui viviamo è davvero ancora così schiava del luogo comune secondo il quale chi va dallo psicologo è “fuori di testa”? Oppure è l’aspettativa di un percorso lungo, impegnativo ed economicamente dispendioso ad orientare le persone, privati cittadini o aziende, verso tipologie di intervento diverse da quello psicologico? O semplicemente l’insieme di tutti questi aspetti e magari di altro ancora determina il recente successo del coaching?

Se prendiamo in esame i rispettivi percorsi di formazione professionale, emerge che si diventa  coach grazie a corsi privati offerti da svariate scuole certificate presenti sul territorio. La formazione professionale del coach si svolge in genere durante alcune giornate d’aula,  sicuramente intense e ricche di esercitazioni pratiche, ma che si esauriscono pur sempre nel giro di qualche mese e senza che siano stati richiesti requisiti specifici per accedervi. Lo psicologo, al contrario, si forma grazie ad un percorso costituito da cinque anni di studi universitari, vari tirocini professionalizzanti, il superamento di un esame di Stato e l’iscrizione ad un Ordine regionale. A tutto ciò spesso si aggiungono corsi di perfezionamento, scuole di specializzazione, percorsi psicologici personali od altro, dal momento che, secondo quanto si legge nel quinto articolo del Codice Deontologico, “..lo psicologo è tenuto a mantenere un livello adeguato di preparazione professionale e ad aggiornarsi nella propria disciplina specificatamente nel settore in cui opera..” (6). Al di là delle differenze nel percorso di formazione, esistono tuttavia alcune analogie nelle prestazioni professionali. Entrambe queste figure utilizzano la relazione con il cliente come strumento elettivo del loro lavoro, fanno riferimento a precise norme professionali e teoriche (anche deontologiche, nel caso dello psicologo), definiscono generalmente un contratto-accordo con il cliente (grazie ad un’accurata analisi della domanda, almeno nel caso dello psicologo), cercano di creare relazioni spontanee con il cliente (ma soprattutto basate sulla sincerità, almeno nel caso dello psicologo) utilizzando modalità di comunicazione dirette e l’ascolto attivo. Il lavoro di entrambe queste figure professionali è volto a creare un clima di fiducia e sicurezza, grazie anche alla capacità di porre la domanda giusta al momento giusto (rispettando e, quando possibile, anticipando il timing del cliente, almeno per quanto riguarda lo psicologo). Il lavoro di entrambi è diretto verso la creazione di consapevolezza nel cliente, la progettazione di azioni efficaci (o più correttamente nel caso dello psicologo, alla loro stimolazione), alla determinazione di obiettivi (che, per lo psicologo, saranno necessariamente coerenti, adeguati e funzionali alle reali possibilità della persona che ha davanti) e alla gestione dei progressi del cliente (processo che, nel caso dello psicologo, si traduce nel consolidamento e nel rinforzo positivo degli stessi). Le undici competenze di base del coaching precedentemente menzionate, così come sono state stilate dall’ICF, sarebbero dunque a tutti gli effetti competenze psicologiche e poco importa se il coaching non è un intervento clinico, di fatto molti interventi psicologici non lo sono.

Se da un lato purtroppo esiste ancora il luogo comune secondo il quale chi va dallo psicologo è “fuori di testa”, dall’altro forse anche noi psicologi dovremmo riflettere sul fatto che proprio noi stessi abbiamo contribuito ad alimentarlo, focalizzandoci e cristallizzandoci da sempre un po’ troppo sulla clinica e sulla psicoterapia. Infatti, per quanto interessanti, stimolanti e complessi questi settori della nostra professione possano essere, non la rappresentano nella sua totalità e certo non ne esauriscono le innumerevoli potenzialità. Di fronte alla crescente popolarità di altre professioni per certi versi analoghe o che comunque invadono i nostri specifici ambiti di competenza, dovremo prendere coscienza del fatto che noi per primi abbiamo investito poco fino ad ora su un’immagine positiva dello psicologo. Forse è giunto il momento di invertire la rotta impegnandoci nel promuovere attivamente la figura dello psicologo come di “attivatore-promotore di risorse” e come professionista che utilizza, quando ciò è possibile, interventi brevi focalizzati sul qui ed ora. In altre parole, uno psicologo adatto a tutti.

Riferimenti bibliografici

(1)        Da: http://www.icf-italia.org

(2)        Intonti, P. (2000). L’arte dell’Individual Coaching. Franco Angeli, Milano.

(3)        Piccardo, C. (1995). Empowerment. Strategie di sviluppo organizzativo centrato sulla persona.Cortina, Milano.

(4)      Martellucci, P. M. (2005). Il counseling per il self empowerment. In: Di Fabio, A. & Sirigatti, S. (a cura     di) Counselling prospettive e applicazioni. Ponte alle Grazie, Milano.

(5)     Torre, E. (2005). La relazione d’aiuto: aspetti di complessità. In: Di Fabio, A. &     Sirigatti, S. (a cura di) Counselling prospettive e applicazioni. Ponte alle Grazie, Milano.

(6)        Codice Deontologico dello Psicologo. Testo approvato dal Consiglio Nazionale dell’Ordine ai    sensi dell’art. 28, comma 6 lettera c) della Legge n. 56/89, in data 15-16 dicembre 2006.

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4 Comments

  1. I casi sono due o il percorso universitario, di specializzazione e di formazione psicoterapeutica è eccessivo per poter occuparsi di persone che vogliono sciogliere il malesserre e potenziarsi, in questo caso ci sarebbe solo una speculazione per le istituzioni preposte, ivi compreso l’Ordine degli psicologici, o in realtà è sufficiente frequentare in un tempo molto limitato e alla portata di tutte le intelligenze e conoscenze scolastiche anche minime, vedi conseguitmento della terza media, per applicare tecniche efficaci e curare a vario titolo e livello persone che voglio comunque cambiare.

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  2. Credo che la psicologia moderna, per poter crescere, nell’ambito della stessa formazione accademica debba includere, e non combattere, il counseling, il coaching, la programmazione neurolinguistica, i percorsi di evoluzione personale, ect., ect. Se tutte queste discipline esistono è a causa dei forti “limiti” della psicologia accademica, dove, almeno ai miei tempi, non ti insegnavano neanche il training autogeno!

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  3. Gli abusati coiach aziendali come strumento di gruppi di lavoro fa anche parte della foormazioner dei manager sebbene molti non hanno un formazione psicologica per coindurrre questi gruppi senza scadere nel grupism senza obiettivi.

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  4. @Giampiero Sartarelli,

    Caro collega, hai ragione. E’ da oltre 30 anni che sostengo, con la parola e con lo scritto questa tesi. La psicologia professionale (non solo quella Accademica) è troppo occupata dalle cosiddette psicoterapie e storce il naso verso l’innovazione, la sperimentazione, l’olismo e la via verso il benessere. Così facendo abbiamo “creato” eserciti di officianti paralleli che a qualsiasi titolo esercitano (peraltro senza controllo e senza titoli formali) attività appetibili al “mercato” e che molti psicologi, invece,considerano “poco scientifiche” ?? senza nemmeno conoscerle. Un caro saluto.

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