La complessità del Suicidio: Inchiesta
Il suicidio è un fenomeno che rappresenta una delle più drammatiche e sconcertanti espressioni del disagio sociale, soprattutto quando colpisce i più giovani. È uno dei tabù più radicati nella nostra società: parlare dell’argomento suscita riluttanza ed evitamento e persino dagli operatori della salute il tema è in gran parte misconosciuto. Eppure l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) lo considera un problema talmente significativo da invitare tutte le realtà locali ad adottare strategie di intervento e prevenzione. È condiviso che il suicidio sembra derivare da una complessa interazione di fattori biologici, genetici, psicologici, sociali, culturali ed ambientali. Secondo quanto indicato dall’OMS costituisce la causa di circa un milione di morti ogni anno, con costi stimabili in milioni di euro, e si prevede, che nel 2020, le vittime potrebbero salire ad un milione e mezzo. Insomma, una problematica tanto complessa quanto delicata a cui è difficile dare una risposta rapida e immediata in ambito di intervento, ma che sicuramente non deve mai farci abbassare la guardia, anche perché, se è vero che il suicidio è la prima causa prevenibile di morte prematura, l’impegno nella prevenzione diventa un’importante sfida e un dovere della collettività.
Abbiamo trattato il tema del suicidio con tre professionisti del settore, ed abbiamo analizzato le problematiche ad esso connesse, alla luce di diverse stimolanti prospettive con l’obiettivo di favorire nuovi spunti di riflessione.
Il suicidio come risultato di un dialogo interiore. Il suicidio nelle carceri
Prof. Maurizio Pompili, Coordinatore del Centro per lo Studio e per la Prevenzione dei Disturbi dell’Umore e del Suicidio, Cattedra di Psichiatria, II Facoltà di Medicina e Chirurgia, Sapienza Università di Roma. Rappresentante italiano dell’International Association for Suicide Prevention (IASP).
La mia visione del suicidio si ispira a quella di Edwin Shneidman. Penso che il suicidio sia il risultato di un dialogo interiore; la mente passa in rassegna tutte le opzioni per risolvere un certo problema che causa sofferenza estrema. Emerge il tema del suicidio e la mente lo rifiuta e continua la verifica delle opzioni. Trova il suicidio, lo rifiuta di nuovo; ma alla fine, fallite tutte le altre possibilità, la mente accetta il suicidio come soluzione, lo pianifica, lo identifica come l’unica risposta, l’unica opzione disponibile.
L’individuo sperimenta uno stato di costrizione psicologica, una visione tunnel, un restringimento delle soluzioni normalmente disponibili. Emerge il pensiero dicotomico, ossia il restringimento del range delle opzioni a due soli rimedi (veramente pochi per un range): avere una soluzione specifica o totale (quasi magica) oppure la cessazione (suicidio). Il suicidio è meglio comprensibile non come desiderio di morte, ma in termini di cessazione del flusso delle idee, come la completa cessazione del proprio stato di coscienza e dunque risoluzione del dolore psicologico insopportabile. Aiutare quell’individuo in questo stato significa permettergli di vivere; cosa che vuole oltre ogni dubbio. Lasciarlo in quel tunnel, invece, significa lasciarlo con l’unica sua opzione per quel dolore così insopportabile, ossia il suicidio.
Molto attuale è il rischio di suicidio nelle carceri. Il suicidio è una delle principali cause di morte in quest’ambito, costituendo non solo un grave fattore di allarme sociale, ma anche un elemento di preoccupazione politico-istituzionale per la risonanza che può avere sugli organi di informazione. Gli istituti di pena sono, infatti, responsabili del controllo e della salvaguardia della popolazione carceraria e quindi rispondono penalmente di eventuali carenze. In tale ambito risulta indispensabile la messa a punto di un sistema di prevenzione e di sostegno che permetta di individuare e aiutare i reclusi con patologie psichiatriche o tendenze suicide attraverso apposite strutture di sostegno e specifiche modalità operative. Ad esempio, i carcerati a rischio di suicidi non vanno messi da soli in cella, il personale di guardia e assistenza deve essere appositamente formato al riconoscimento di eventuali intenzioni auto-distruttive, ecc. In carcere, infatti, la frequenza del suicidio è molto alta rispetto al resto della popolazione, raggiungendo anche rapporti da tre a dieci volte superiori. A questo bisogna aggiungere che anche i tentativi di suicidio sono molto superiori alla media della popolazione.
Significato relazionale e comunicativo del Suicidio
Luigi D’Elia
Psicologo Psicoterapeuta – Coordinatore dell’Osservatorio Psicologia nei Media, Roma
L’Osservatorio Psicologia nei Media non ha ricevuto in questo primo anno segnalazioni riguardanti il suicidio e la sua trattazione mediatica, per cui ce ne siamo occupati solo tangenzialmente. Se devo però rintracciare le caratteristiche della comunicazione mediatica riguardo il suicidio non si può non pensare al nesso che esiste tra l’atto suicidario e l’atto comunicativo e a come questo nesso si propaghi sulla comunicazione mediatica.
Mi spiego. Il suicidio non è solo l’estremo atto autolesivo di chi vuole uscire di scena, ma è al contempo un atto relazionale, seppure paradossale, e un atto comunicativo. Da un lato il suicidio si propone come la rescissione più radicale del legame, il congedo dal consenso umano, dall’altro il suicida vuole continuare ad esistere nella mente dei “sopravvissuti” con valenze emotive e comunicative abbastanza riconoscibili. L’atto comunicativo del suicida (e i biglietti dei suicidari lo dimostrano) suona quasi sempre come un’accusa, una rivendicazione, una recriminazione, anche quando non lo è esplicitamente. Chi rimane si deve confrontare con una presenza ingombrante e colpevolistica di qualcosa che non s’è compreso e di qualcosa di cui non ci si è accorti in tempo, confrontandosi con il vuoto disperante lasciato dal suicida.
Chi si occupa di suicidio sa, inoltre, che non esiste “il suicidio”, ma esistono tanti suicidi quante sono le persone che lo compiono: esiste un suicidio depressivo, un suicidio maniacale, un suicidio impulsivo, un suicidio distruttivo, un suicidio delirante, un suicidio liberatorio, etc. Esiste però un margine d’ineffabilità e d’ignoto in tale gesto che nessuna spiegazione può rendere fino in fondo. Ed allora: da un lato la valenza comunicativa del suicidio corrisponde ad una rottura “epistemologica” violenta e colpevolizzante, dall’altro esiste uno scarto di comprensione dell’atto suicidario per certi versi incolmabile dalle ricostruzioni e dalle spiegazioni possibili.
Ed ecco allora che la stampa e i giornalisti si ritrovano sulla stessa linea di rottura comunicativa e di comprensione consegnataci dal suicida, pressati dalla necessità di informare su eventi di questo genere, in mezzo al guado a dover cercare il modo di fornire la notizia. Ed allora una spiegazione va data “comunque” anche se nel mosaico mancano (e mancheranno sempre) troppi pezzi per comporre un quadro attendibile. Talora questa spiegazione diventa, non a caso, la ricerca di una colpa o di un colpevole: “era disoccupato”; “era solo”; “era stato licenziato”; “era stato lasciato”; “aveva avuto un brutto voto”; “aveva vergogna di dire la verità”; e così via. Ma chi conosce da vicino le persone che si suicidano e ne ripercorre le storie sa bene quanto siano parziali e insufficienti certe spiegazioni.
Riflessione sul suicidio o suicidio della riflessione?
Carmen Cini
Esperta in Bioetica – Docente Scuola di Psicoterapia Comparata, Firenze
Parlare di suicidio dal punto di vista bioetico implica prima di tutto toccare il tema della libertà e il tema della vita. Il suicidio è ineludibilmente tema bioetico che suscita un turbamento dianoetico, prima ancora che etico. Atto riconducibile in primis alla partecipazione dell’uomo al bios: a ciò che rende l’uomo, “uomo”. Comunque, gesto radicato in una volontà e libertà di esercizio di un “biopotere” (nel senso più ampio del termine) per cui l’uomo, decide, consapevolmente o inconsapevolmente, quando e come morire. Fatto millenario e negli ultimi decenni motivo dominante che ha responsabilizzato anche la medicina sollevando il principio del dissenso ad un trattamento, decisione che può portare alla morte (eutanasia passiva) e l’esplicita richiesta di anticipazione della propria morte (eutanasia attiva) o di essere assistito nella propria autoinduzione di morte (suicidio assistito).
La liceità o meno del suicidio richiede, tuttavia, una definizione attenta e specifica che ci possa continuare ad offrire l'”illusione” di comprendere quando è che ci troviamo di fronte ad un’affermazione di libertà (suicidio razionale) e quando, invece, assistiamo ad un’auto- soppressione della vita come reazione ad un’insostenibile patologia fisica, psichica (suicidio patologico) o esistenziale (fattori di vita contingenti). Lasciarsi morire (sospendere o rifiutare trattamenti salvavita) o chiedere di poter o potersi anticipare la propria morte (certa a breve, atroce) non sono forse forme di suicidio regolamentato e burocratizzato? Siamo d’accordo sul fatto che rientrano nel principio cardine dell’autodeterminazione così come il cosiddetto “suicidio razionale”. Ma perché non riflettere sulla possibilità che ad una malattia terminale possa conseguire uno stato psicopatologico che può spingere una persona alla ricerca – consapevole o inconsapevole (?) – di porre fine alla propria esistenza? Oppure, quando una persona ha una patologia psichiatrica si tende generalmente a voler percepire come effetto il suicidio e come causa la patologia stessa. E se, invece, la causa fosse la sofferenza dovuta alla patologia e l’effetto il suicidio come liberazione da essa? Insomma, come facciamo a stabilire che possa esistere una linea che distingue e separa nettamente i due domini di esperienza? Domande a cui la psicopatologia cerca di rispondere da molto tempo… Di fatto, la libertà del suicida sta forse nella nostra difficoltà nel riuscire a determinare la causa della sua scelta. Al di là di tutte le possibili psicocongetture all’appello della verità mancheranno sempre i due protagonisti del misfatto: chi solo può testimoniare di se stesso e dell’altro che è se stesso. Proprio così: l’imputato e la vittima vengono curiosamente a coincidere anche nella loro sparizione. Il suicidio è l’unico “reato” bioesistenziale per cui l’imputato non può essere accusato, subire un processo né tanto meno essere condannato. Nonostante ciò, l’accusa spesso lascia il posto alla compassione, il processo all’analisi delle cause e la condanna a chi rimane marchiato da una mancanza inaccettabile (come tutti i lutti) quanto inconcepibile ed inaspettata. Il suicida cede spesso il posto al fantasma della colpa di chi non ha saputo prevedere, di chi avrebbe potuto evitarlo. Ma si porta comunque via l’affermazione – disperata o gloriosa – di chi agisce perché non vuole o non ce la fa più a “gridare”. La sua voce lascia l’eredità di un silenzio che forse conviene accettare nella sua apparente ed insieme ingannevole udibilità.
Davide Lacangellera
Psicologo – Firenze
25 giugno 2010
Suicidio. L ‘atto di darsi volontariamente la morte. Nell’eterna lotta fra l’Eros e il Tanatos, gli stinti di vita e di morte, l’stinto di morte prevale sull’istinto di vita. Nel mondo animale,l’uomo è l’unico che razionalmente sceglie di rinunciare alla vita. In natura sono poche le specie che lo attuano e per quanto è dato dedurre dagli studi etologici, solo per motivi filogenetici. Non è qui il caso di invocare stati patologici definendo ammalati mentali coloro che lo attuano, in quanto esso viene praticato, in determinate situazioni e condizioni anche da persone normali. Vero che la morte esercita una grande attrazione, quale aspirazione al ritorno allo stato nirvanico di non esistenza che viene contrastato dall’istinto di vita con la creazione della paura della stessa, fantasticando una vita post mortem che tende a negarla definendola un momento di transizione fra uno stato ed un altro. La morte inoltre è una via di fuga molto comoda per sfuggire a tutte quelle situazioni di disagio che pensiamo di non riuscire a gestire o non siamo disposti a pagare il prezzo che comporta l’impegno per il superamento delle stesse. Emil Durkheim nel suo trattato sul Suicidio ha analizzato e classificato le molteplici interpretazioni che il soggetto elabora prima di metterlo in atto, a partire da un attacco sadico colpevolizzante nei confronti delle persone, del mondo, ecc. per punirle con la sua sparizione dalla scena della vita , privandole della sua presenza e facendole sentire in colpa di non avergli permesso di vivere non dandogli ciò che lui desiderava e alle sue condizioni. Come atto eroico altruistico per cui la personale, l’umanità gli deve gratitudine, memoria,ecc.,come gesto di onnipotenza e di sfida nei confronti della paura della morte di cui non ha pazienza di attendere che si verifichi, ma è lui che decide il quando e il come. Come gesto dimostrativo per attirare l’ attenzione su di se. Ecc. ecc. E’ un fatto accertato che quando una persona ha deciso di attuare con fredda determinazione il suicidio come unico mezzo per raggiungere il suo o i suoi scopi, nessuno può salvarlo e se casualmente non riesce a raggiungerlo la prima volta, potete essere certi che la seconda volta non lo manca. Tutti i discordi a posteri non servono ad alcunche. Nella pratica professionale sarà capitato a tutti di sentire pensieri di morte da parte dei pazienti, il più delle volte come richiesta di aiuto in alternativa a trattamenti o farmaci che li possano aiutare a vivere, liberi dalle loro problematiche che la momento sembrano loro insormontabili, ma quando l’istinto di morte prevale in maniera preponderante , non c’è farmaco ne trattamento che li possa aiutare. Personalmente rispetto il diritto di rinunciare a vivere, ma come libera scelta assunta in maniera autonoma e indipendente senza adduzione di false giustificazioni, anche se non la condivido, poiche il mio pensiero è che non esistono motivi validi per morire, ma miliardi per vivere. Leonardo disse ” chi non ama la vita non merita di viverla”. Dr. Tullio Lombardi