LO SPORCO SOTTO AL TAPPETO. Qualche riflessione tra film horror e paura

di Giuseppe Preziosi

I grandi crimini nascono spesso dalle grandi idee, e quanto maggiore è il crimine, tanto più fortemente si crede nell’idea

Zygmunt Bauman

Possono un film o una serie di film raccontare di un’epoca, di una società, di un momento storico? Può farlo il cinema horror estremo, quello pieno di sangue e frattaglie umane, privo di ironia e traboccante di cupo cinismo, quello senza rispetto, politcally uncorrect per natura? Forse possono raccontare di quei sentimenti che non si possono dire, che solitamente non si mostrano, che una buona società (dello spettacolo) non deve mostrare, costretta a nasconderli sotto il tappeto buono per evitare il giudizio negativo degli ospiti; quella polvere che non va mai via, nonostante tutti gli sforzi e tutti i detersivi. C’e’ in ognuno di noi quella parte non narrabile a nessuno (forse neanche nel setting analitico?), quei sentimenti deformi, orribili, mostruosi.
Nel giro di pochi anni sono usciti in Francia una serie di film definiti splatter, horror, torture porn: Calvaire (2004), À l’intérieur  (2007) , Frontiers (2007). Parte della critica cinematografia ha salutato una nuova alba del cinema horror francese (tanto da parlare di  novelle vague dell’horror), altri invece li hanno definiti come pura pornografia dove la sfida è andare sempre oltre il confine del mostrabile.

À l’intérieur.   Notte del 24 dicembre. Francia, Parigi. Mentre bruciano di rivolta le banlieue e la maggior parte delle famiglie si prepara a mettersi a tavola per la cena di natale Sarah preferisce stare da sola, chiudersi in casa e non pensare a quello che succede fuori. È incinta di nove mesi, ha consegnato le chiavi di casa ad un suo amico che domattina la porterà in ospedale per il parto; la sua felicità  è oscurata dalla morte del marito avvenuta 4 mesi prima in un terribile incidente stradale. La sua solitaria notte di vigilia è interrotta da una sconosciuta che bussa alla sua porta.

Calvaire.  Marc è un cantante cabarettista ed ha appena concluso il suo spettacolo in una casa di cura per anziani. Ora si dirige  alla ricerca di nuove serate e nuovo pubblico. Un forte temporale lo dirotta in uno sperduto villaggio e nella casa di Bartel. Marc dovrà affrontare il vuoto lasciato nella vita del suo ospite (e in quella di tutto il villaggio) dall’abbandono dell’unica donna del luogo.

Frontiers. 2005, nel caos generato dalle rivolte seguite all’approssimarsi della vittoria elettorale dell’estrema desta, quattro ragazzi e una ragazza (incinta) decidono di compiere una rapina. Il colpo però non va secondo i piani e uno di loro viene ferito. La banda deve dirottare la fuga verso l’Olanda e dividersi; una parte si reca all’ospedale con il ferito mentre altri due aspetteranno in un ostello; qui i ragazzi faranno la conoscenza con una strana famiglia con simpatie naziste.

Fili rossi non solo di sangue legano questi film. Non ci sono mostri qui, nel senso di esseri fuori natura, fantastici, di fantasia; nessun signore con la maglia a righe che infesta gli incubi dei teen ager, nessun lupo mannaro, nessun sexy vampiro dallo sguardo triste. Ci sono uomini, c’e’ manifesta tutta la brutalità potenziale insita nell’essere umano. Bauman afferma che la base della nascita dello stato moderno è proprio nella chiarificazione dei confini, delle regole, delle divisioni al fine di proteggere l’ordine costituito. All’alba del nuovo millennio questa funzione delle nazioni e dei governi mostra crepe e scricchiolii sinistri. C’e’ qualcosa nascosto lontano dalle grandi città (simulacri della modernità) che vive, si riproduce, cova e aspetta. Aspetta di poter prendere il controllo sulla luce, sulla razionalità. C’e’ un selvaggio che materializza tutto l’orrore della storia e lo venera ancora, lontano dai riflettori. C’è uno sconosciuto che bussa fuori alla porta, proprio lì vicino, sul pianerottolo di casa; vuole qualcosa che è mio, vuole il frutto della mia carne, vuole il mio futuro. Questo orrore mette in pericolo la nascita, la generatività, la creazione, la razza. Donne incinte che vengono braccate e villaggi dove il femminile non esiste se non nella mancanza, nella pulsione all’accoppiamento, nella compulsione della scarica libidica. Lo straniero pervade questi film, straniero come colui che viene a sporcare la purezza dell’ordine costituito, che si trova nel luogo dove non dovrebbe essere;  un diverso che insidia la razza nell’attacco verso il nuovo che sta per nascere. Si odono nel sottofondo gli echi delle rivolte delle banlieue che rimandano alla questione dell’immigrazione, al rinfocolare di politiche razziste nel moderno e civile occidente. Non si può parlare neanche di guerra, né di scontro di civiltà ma di pura e semplice lotta per la sopravvivenza; pochi dialoghi, poche parole, grugniti, urla. Bauman scrive “..quanto meno la gente controlla il proprio destino e quanto meno confida di riuscire a ottenerne il controllo, tanto più sarà incline a vedere gli altri come vischiosi, e tanto più febbrilmente cercherà di liberarsi della vicinanza degli estranei, sentendosene invasa e avvertendo l’estranietà come una inondazione dalla quale è difficile non farsi travolgere..”  quale immagine migliore di Yasmine che si trascina nel fango, si divincola attraverso atroci dolori per salvarsi, salvare la vita dentro di sé contro un orrore che la immobilizza in un presente di paura, che sempre ineluttabile, onnipresente, senza via di scampo. Ancora più insopportabile è Marc assume il suo destino immobile, fermo, rassegnato dopo gli inutili tentativi di salvarsi dalla bestialità che lo circonda.
Essere umani che tornano ad uno stadio primitivo, irrazionale, guidati solo dall’istinto; Sarah che si costruisce una lancia per difendere la vita che ha dentro di sé; gli uomini al bar in Calvaire, un branco che si anima di un ballo rituale, stereotipato, grottesco; che si eccita per prepararsi a braccare la sua preda (la danza sembra trasformare gli uomini in zombie, essere per definizione vivi ma privi di cervello, animati solo dall’istinto di alimentarsi).
Non è difficile immaginarsi una sceneggiatura italiana:

Terrore a Puggibonzoli (2010). Italia, periferia del sud. Una giovane donna torna a casa in macchina insieme alla sua bambina; dalle ombre della notte improvvisamente appaiono delle figure scure armate di bastoni e pietre; c’e’ una battaglia in corso tra italiani, immigrati e poliziotti, un tutti contro tutti dove scompaiono le ragioni del tutto e si perde l’origine del conflitto. Una sola cosa sembra certa: ci sono decine di telecamere pronte a immortalare i momenti più salienti e feroci ad uso e consumo di tutta la popolazione nazionale. La giovane donna dovrà riuscire a sopravvivere e portare in salvo la figlia senza riuscire a distinguere amici e nemici.

Tutti questi film spostano l’orrore un po’  più in là, ma mai troppo lontano; le periferie sono lì dietro che bruciano, lo ricorda la televisione, la polizia, le ambulanze; i mostri ci assomigliano, hanno le fattezze di vecchietti un po’ matti, uguali a quelli che puoi incontrare nel parchetto sotto casa. Sono parti di noi, sono le nostre parti razziste, intolleranti, stanche, impaurite, terrorizzate; quei pensieri che cerchiamo di affogare sotto il peso della cultura, di tutti i libri letti, della mentalità aperta ma che un orizzonte di insicurezza, crisi, povertà, conflitto riporta alla luce. È questo l’horror moderno o post moderrno, i film che non si devono vedere, spazzatura di serie b, pornografia.

Chiara Santi

Author: Chiara Santi

Share This Post On
You are not authorized to see this part
Please, insert a valid App IDotherwise your plugin won't work.

Submit a Comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *