Genitori colpevoli, catarsi collettiva

Al margine della recente sentenza di Milano sui ragazzini violentatori

 

Luigi D’Elia

  

Sul Corriere della Sera del 4 Febbraio 2010 leggiamo il seguente articolo: Ragazzini violentatori. Condannati i genitori. I giudici: è mancata l’educazione ai sentimenti

Il Tribunale civile impone un risarcimento di 450 mila euro a danno dei genitori dei minori violentatori di una dodicenne.

Leggendo questo articolo, ci addentriamo, per quanto consentito dai particolari rivelati dal giornale, nelle motivazioni che sono sottese alla decisione del giudice della X sezione civile Bianca La Monica.

 

I genitori di questi minori rei (il giornale definisce “normali” le famiglie in questione) si sono preoccupati, nell’educare i loro figli, dice il giornale, solo del rispetto formale delle regole e non della loro vita sentimentale ed emotiva producendo in tal modo una “carenza o inefficacia di un’educazione al rispetto dell’altro, all’attenzione ai sentimenti e desideri altrui”.

 

Ricordiamo innanzitutto che questa sentenza riguarda il Tribunale Civile, chiamato in causa evidentemente da una richiesta di risarcimento dalla parte lesa.

Invece, in sede Penale, due dei ragazzini stupratori hanno superato la messa alla prova che estingue il processo, mentre gli altri tre sono condannati a pene sospese fra i 2 e i 3 anni.

Ma tornando al Tribunale Civile, quello cioè che commina il risarcimento ai genitori dei minori violentatori, ci siamo domandati innanzitutto come mai questo clamore giornalistico per una sentenza che non appare affatto particolare o divergente dalla comune giurisprudenza: il giudice civile, chiamato in causa probabilmente per un risarcimento di danno biologico ha ritenuto tra le cause efficienti, a motivo della sanzione inflitta, anche il fattore educativo genitoriale riscontrato carente. In caso di reati minorili, ricordiamolo, sono i genitori responsabili legalmente, per cui non si comprende dove sia la novità e la notizia.

 

Probabilmente il giornale ha voluto enfatizzare l’aspetto “esemplare” della sentenza che individua con precisione i responsabili certi dei fatti: i genitori. Cosa che, data in pasto senza troppi particolari giuridici, ci rassicura tutti in una sorta di moderna ed inutile paideia catartica.

 

Dunque distinguiamo nettamente tra fatto giuridico ed enfasi giornalistica e collochiamo il primo, il fatto giuridico, nella consuetudine procedurale, ed il secondo, l’enfasi giornalistica, su un piano ben diverso che attiene invece ad un messaggio sociale ed educativo ben preciso che s’è voluto trasmettere.

 

Certo, questa commistione dei piani comunicativi deve farci riflettere su come una sentenza come questa, oltre a svolgere l’essenziale funzione della giustizia nel proteggere le vittime e punire i colpevoli, svolga anche una funzione culturale comunicando alla società, ristretta e allargata, alcuni principi riparatori e correttivi che, nel caso specifico (i minori e la loro educazione), occorre ripristinare, in quanto violati o trascurati. Svolge cioè una funzione educativa che occorre non sottovalutare, ed è solo su quest’ultimo piano che il nostro contributo e le nostre riflessioni intendono muoversi.

 

Nelle parole della sentenza riportate dal Corriere della Sera il giudice ha riscontrato elementi “oggettivi” di responsabilità dei genitori dei giovani violentatori. Su questo immaginiamo che egli si sia fatto aiutare da consulenti appartenenti al mondo della psicologia, ed anche grazie a questo contributo tecnico, abbia poi deciso di punire i genitori come diretti responsabili dell’impreparazione emotivo-affettiva dei figli.

Non c’è motivo di dubitare della valenza consulenziale, e non fatichiamo ad immaginare che queste famiglie abbiano delle reali e significative difficoltà educative, sia per quanto accaduto, sia laddove la loro difesa, per conto dei loro legali, è apparsa anch’essa formale, come si evince da questo stralcio dell’articolo:“In chiave autoliberatoria, i genitori hanno provato a valorizzare in Tribunale «il rispetto dell’orario di rientro a casa, i buoni o sufficienti risultati scolastici, l’educazione nel rispetto delle persone e dei valori cristiani propri della cultura occidentale, l’avvenuta frequentazione delle lezioni di educazione sessuale a scuola, il fatto che prima di questi fatti alcuni dei ragazzi non avessero dimostrato particolare interesse verso il genere femminile»”.

 

Accertata l’impreparazione emotivo-affettiva di queste famiglie, e prestando la massima fiducia all’impianto tecnico-giuridico della sentenza (i genitori, ripetiamolo, sono e rimangono principali responsabili giuridicamente e moralmente dell’educazione dei figli e chiamati in solido a rispondere dei loro crimini), ci domandiamo però, quale messaggio culturale questa sentenza mandi alla società civile, attraverso la grancassa della stampa, nel momento in cui:

a) questa colpevole responsabilità è esclusivamente attribuita al mondo familiare;

b) la pena riparatoria prevista per i genitori (in ambito civile) riguarda solo un aspetto pecuniario.

 

Sgombriamo il campo dai facili equivoci che un certo moderno stile di pensiero e di argomentazione semplicistico induce e diciamolo forte e chiaro: individuare le responsabilità di tutte le parti in causa non equivale a deresponsabilizzare i genitori.

Che essi paghino, e non solo monetariamente, per le omissioni che il giudice rileva loro. Ma ci domandiamo al contempo se l’analfabetismo emotivo delle famiglie possa essere solo un problema giuridico e non anche sociale, e se il pagare molti soldi per questa colpa sia una risposta sufficientemente ed efficacemente “riparativa”.

 

Ma usciamo per un attimo dalle insidie di una paventata polemica giuridica, cosa assai lontana dalle nostre intenzioni, nonché dalle nostre competenze, ed entriamo nel nostro specifico campo tecnico e argomentativo, quello psicologico.

 

Le prospettive e gli obiettivi degli psicologi e di chi deve amministrare la giustizia sono per certi versi molto diversi, come intuibile, ma per altri molto convergenti.

Per uno psicologo, ad esempio, l’inutilità del costrutto “colpa” riguardo agli obiettivi del proprio lavoro dovrebbe essere considerato un dato formativo acquisito, ed invece un giudice con il costrutto “colpevolezza” (suo parente semantico stretto) ci lavora quotidianamente. Per uno psicologo la causalità lineare dei nessi tra fatti psichici è un’eccezione laddove per un giudice i nessi causali tra i fatti sono alla base della giustizia giusta. Sia lo psicologo che il giudice lavorano con il costrutto “responsabilità”, per lo psicologo, esso è collocato nel campo del soggetto, anche collettivo, per il giudice occupa il campo del diritto individuale e sociale dentro una catena ordinata di nessi tra danni procurati e colpe commesse.

Su questa divaricazione di “posizioni” differenti può apparentemente crearsi un’incomunicabilità tra i due settori, che invece collaborano costruttivamente in innumerevoli casi perché i magistrati e gli avvocati necessitano sempre più delle competenze psicologiche (dello psicologo giuridico in particolare) riguardo la complessità dei fatti umani e sociali.

 

Complessità umana che di fronte a episodi come questo, sempre più frequenti – la violenza di gruppo su minori da parte di altri minori – interrogano tutti noi su come sia mai possibile che figli di buona famiglia si ritrovino così “desolantemente” privi di bussole normative e di senso della realtà, suscitando nelle risposte dell’opinione pubblica posizioni che oscillano dal sentimento di alienità rispetto alle nuove generazioni, alla levata di scudi punitiva del mondo adulto, o viceversa  producono, come in altri casi, atteggiamenti inquietantemente indulgenti.

Nell’ascolto dello psicologo, il grande tema evocato da questi episodi è invece quello del “codice paterno” e della sua irreversibile latitanza e crisi delle nostra epoca, fino al suo tramonto simbolico.

 

Proviamo allora a leggere, senza entrare troppo nei complessi meandri del pensiero teorico (cosa che ci porterebbe lontano), cosa dicono a proposito due nostri grandi maestri, J. Lacan e F. Fornari, sulla natura del “codice paterno” :

 

Lacan dice: “E’ nel Nome del Padre che dobbiamo riconoscere il supporto della funzione simbolica che, dal sorgere dei tempi storici, identifica la propria persona con la figura della legge”

Per Lacan la funzione simbolica del padre (da egli definito “il Nome del Padre”) dovrebbe permettere al figlio piccolo di accedere al piano del desiderio e non più solo a quello del bisogno. È l’interdizione paterna, la sua Legge, che consente la nascita della soggettività e l’accesso all’ordine simbolico sociale e culturale, al linguaggio, e al contempo al principio di realtà.

 

Fornari dice, all’interno della sua teoria dei codici affettivi, a proposito del codice paterno, che esso consiste nel “privilegiamento del principio di realtà e di prestazione, favorendo così sia la progressiva e graduale separazione del figlio dalla madre prima e dalla famiglia poi, sia la sua introduzione nella società più ampia. Contrapposto al codice materno come autocentrico, il codice paterno si costituisce come fondamentalmente eterocentrico, e porta la famiglia ad aprirsi verso l’esterno. Il codice paterno rompe tale simbiosi autarchica e rivela il carattere illusorio dell’onnipotenza che la sostiene elabora fondamentalmente, nel soggetto, la propria mancanza di essere orientandola verso l’esterno, in un altro essere, preoccupato della creazione di aggregati sempre più vasti.

 

In entrambe le teorizzazioni, il core del codice paterno corrisponde a quella funzione psichica che, attraverso il contatto con un reale condizionato, apre all’Altro, al mondo sociale ed in esso si esprime.

Non si tratta certo unicamente di una funzione svolta da un solo individuo, il padre naturale, ma casomai di una funzione che attraverso entrambi genitori (in primis), tutto il mondo degli adulti, le loro storie, le loro appartenenze, le loro culture familiari remote, veicola per il bambino, per il giovane ed il futuro adulto una presenza nel mondo “socializzata”.

 

L’educazione affettiva ed emotiva, esattamente quella individuata come carente nelle famiglie condannate, quella cioè che riesce (o meno) a riconoscere l’alterità dell’altro e ad avere il rispetto della mente, dei sentimenti e del corpo altrui, è qualcosa che si forma nelle famiglie e nelle loro culture come nelle culture di tutti in network relazionali concentrici di appartenenza delle famiglie e dei loro figli.

Impossibile tracciare con nettezza una linea di demarcazione, sarebbe come stabilire l’artificio della presenza di un acquario immerso in un oceano.

In tutto ciò, non dimentichiamolo, continua ad esistere la soggettività degli adolescenti e la loro, seppur formanda, personalità e autodeterminazione.

 

Su questo scenario che stiamo qui tratteggiando cosa rischia, dal nostro punto di vista, la sentenza di Milano sul piano della rappresentazione mediatico-sociale?

Rischia a nostro parere di essere paradossalmente consolatoria e poco efficace proprio laddove voglia essere esemplare, cioè nel ri-tematizzare e rimettere al centro il tramonto simbolico del codice paterno. Ottiene dunque una catarsi collettiva tanto forte quanto effimera che ha l’effetto di scotomizzare ed isolare la famiglia come unica agenzia educativa e valoriale.

Intendiamoci e ripetiamolo, i genitori sono i primi e più importanti educatori dei figli, ma dell’eclissi del codice paterno nella nostra civiltà non si può solo, e comodamente, far carico la famiglia. Dove vive e come vive una famiglia “per bene” crimonogena? Dove vivono e come vivono i loro figli e quali altri adulti e coetanei frequentano? A quali valori si riferiscono? Quali abitudini hanno?

Sarebbero molte, forse troppe, le domande da porre e pur tuttavia necessarie.

 

Quelle famiglie condannate che non possiedono un’adeguata cultura educativa e risultano di fatto criminogene non sono certo il prodotto di una cultura aliena. Sono famiglie “normali”, dice correttamente il giornale, e proprio letteralmente occorre intendere tale accezione: dentro la norma statistica, famiglie cioè come milioni di altre (come le tante che noi psicologi incontriamo quotidianamente), che non sono state in grado di attingere da alcuna parte quel codice paterno, quelle funzioni psichiche e sociali, di cui si diceva poc’anzi. Non hanno potuto acquistarlo al supermercato, non hanno fatto corsi ad hoc, anzi, la loro difesa è ingenuamente emblematica a tal proposito e suona come un aver seguito il normale flusso dell’offerta sociale e più o meno suona così: abbiamo mandato i nostri figli al catechismo, ai corsi di educazione sessuale della scuola, rispettiamo le regole dell’educazione e i valori occidentali… come è mai possibile che si sia prodotto un crimine?

O meglio: di cosa, allora, è il prodotto questo crimine?

 

Tragica domanda, questa. Che però nessuna agenzia sociale, media in testa, sembra in grado di porsi radicalmente fino in fondo. E del resto un Tribunale Civile non può, giustamente, mettere sul banco degli imputati tutta l’attuale cultura, deve scegliere, ed esso, almeno nella versione che i media hanno voluto dare della sentenza, ha scelto di attribuire all’unica responsabilità genitoriale (secondo un classico schema biblico: le colpe dei figli ricadano sui padri, e viceversa), le colpe dei fatti accaduti, senza forse rendersi conto che il codice paterno che viene in tal modo convocato nel suo essere, oltre che “scotomico”, nostalgico e inattuale, non risponde al bisogno sociale di un codice paterno… reale, cioè concretamente praticabile, percorribile.

 

Quelle famiglie casomai avrebbero bisogno di rintracciare e ritrovare il loro codice paterno all’interno di un autentico e sano scambio sociale, con un serio lavoro su di sé attraverso l’altro, attraverso un confronto serrato con istanze educative e di pensiero adeguatamente autorevoli, non certo limitandosi a svuotarsi le tasche e forse ancora una volta a lavarsi irresponsabilmente le mani.

 

Ed allora, così come ci domandiamo incessantemente, da psicologi, come cambia la psicologia in un mondo dove è la trama sociale che soffre e le persone che oggettivamente accusano problematiche psicologiche, più o meno gravi, hanno superato (come dicevamo nell’editoriale dello scorso mese) un quarto totale della popolazione occidentale, allo stesso modo ci domandiamo come cambia la giustizia in un mondo dove le famiglie criminogene non sono peggiori del mondo in cui abitano? La “normalità” non possiamo processarla in tribunale.

 

[Un ringraziamento a Valeria La Via, Piera Serra e Anna Barracco per la competente assistenza su questo articolo]

Chiara Santi

Author: Chiara Santi

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1 Comment

  1. Ringrazio l’autore e la selezione di chi l’ha pubblicato nel sito. Mi ha offerto una riflessione importante e molto utile rispetto all’attività professionale che svolgo. Lavoro come psicologa nella mia città, mi sono confrontata con lavori in giuridica, posta varie domande, mi occupo e mi interesso di famiglia da tempo. Articolo formativo.
    Grazie

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