Commento all’Articolo di Baker, McFall, Shoham – Davide Dèttore
di Davide Dèttore
Nell’ottobre del 2007 il governo inglese, su proposta di Lord Layard, professore alla London School of Economics e consulente governativo, ha approvato lo stanziamento di 400 milioni di euro in un triennio per riorganizzare il sistema sanitario in modo da favorire l’accesso ai trattamenti psicoterapeutici basanti sull’evidenza nell’ambito della medicina generale (Care Services Improvement Partnership, 2007). Ciò dovrebbe comportare la formazione di circa 10.000 nuovi terapeuti e l’istituzione di 250 centri per il trattamento psicologico in Gran Bretagna nei successivi. Questi centri, mirati al trattamento d’ansia e depressione, saranno caratterizzati da un approccio psicoterapeutico unicamente cognitivo-comportamentale, poiché questo è stato dimostrato mediante evidenze scientifico essere in grado di produrre, in modo efficace ed efficiente dal punto di vista sia temporale sia economico, una remissione duratura, a differenza dei farmaci che producono effetti solo nel corso della loro assunzione.
Un primo lodevole e molto interessante tentativo di realizzare questo programma è stato realizzato a Doncaster, nello Yorkshire, da Richards e Suckling (2008), secondo il modello di “stepped care”, che comporta la somministrazione di interventi di terapia cognitivo-comportamentale a intensità variabile (bassa o elevata), in funzione di una valutazione clinica preliminare e/o della risposta del paziente all’intervento di più bassa intensità, che costituisce l’approccio di prima istanza per i problemi di depressione e di ansia. È rilevante il fatto che l’intervento a “bassa intensità” viene somministrato da cosiddetti “case managers”, persone selezionate non in base a un peculiare livello di istruzione, ma secondo le loro competenze interpersonali e una disponibilità a lavorare nel campo della salute mentale; tutti furono sottoposti a un programma di formazione nelle competenze di base della terapia cognitivo-comportamentale (TCC) presso l’Università di York e a una supervisione settimanale dei loro casi da parte di psicoterapeuti. Negli interventi a bassa intensità, dopo il colloquio iniziale, il contatto con i pazienti viene condotto fondamentalmente tramite telefono e un sistema di codificazione e di assessment in itinere fatto dai case managers direttamente su schede informatizzate poste in rete. In taluni casi si può fare riferimento di CD consegnati ai pazienti, con programmi per autosomministrarsi alcune tecniche cognitivo-comportamentali. Gli autori riferiscono un elevato successo di tale programma, sia da un punto di vista del miglioramento clinico, sia della soddisfazione dei pazienti, sia del rapporto costi-vantaggi, in quanto permette di seguire molte persone a bassi costi.
L’articolo di Richards e Suckling (2008) in cui si riporta tale programma è inserito in un numero monografico della rivista “Clinical Psychology Forum”, che è l’organo della Divisione di Psicologia Clinica della British Psychological Society (BPS), l’associazione professionale e scientifica di psicologia che nel Regno Unito, al pari della American Psychological Association (APA) negli USA, costituisce il garante della professione psicologica, al pari dell’Ordine degli Psicologi italiano che però è regolamentato da legislazione nazionale, diversamente da quanto accade nei paesi anglosassoni.
In tale numero monografico sono contenuti diversi articoli di commento al progetto “Improving access to psychological therapy” dei due soprannominati autori e al piano generale governativo per il trattamento dei disturbi psicologici. Le tematiche ivi affrontate sono molto adeguate alla discussione dell’articolo di Baker, McFall e Shoham (2008), che ci troviamo a commentare.
Innanzitutto, come si è detto sopra, nei paesi anglosassoni il controllo sulle prestazioni professionali degli psicologi non è esercitato da un Ordine regolamentato da leggi dello Stato, come in Italia, ma da associazioni professionali di alto prestigio, come la BPS e l’APA, che mantengono il loro status grazie al loro elevato livello scientifico e forniscono le certificazioni di garanzia ai vari corsi universitari di psicologia, consolidando ulteriormente la propria fama venendo associate a famose università, che a loro volta sono certificate dall’associazione stessa, in un circolo ricorsivo.
L’articolo di Baker et al. è, almeno in parte, una espressione di una guerra di potere e di prestigio attualmente in corso fra la Association for Psychological Science (APS) e l’APA per la supremazia come associazione americana di psicologia dominante, e si esprime in una lotta acerrima per ottenere che università di chiara fama chiedano all’una o all’altra di potere essere certificate, in modo da ottenere i reciproci vantaggi sopra delineati. La APS cerca di prevalere sull’APA ponendo una particolare enfasi sulla necessità di una preparazione altamente scientifica degli psicologi, in modo che la pratica non possa derivare solo da convinzioni o esperienze personali ma da principi fondati su evidenze scientifiche.
Non c’è dubbio che tale esigenza espressa dagli autori sia fondata e condivisibile, in quanto deontologicamente del tutto corretta. Infatti, il punto fondamentale presente nel progetto inglese di ristrutturazione dei servizi di psicologia e nella tesi di Baker et al. è che la pratica psicologica debba essere fondata su evidenze scientifiche, innanzitutto per quanto riguarda gli interventi psicoterapeutici, che devono essere dimostrati efficaci (fondamentalmente con trial randomizzati e controllati) ma anche efficienti, cioè con un favorevole rapporto costi-benefici (aspetto particolarmente sottolineato dagli autori americani, soprattutto, ma anche da quelli inglesi).
La terapia fondata sulle evidenze ha incontrato grande accettazione e sostegno in diversi ambienti, soprattutto in quelli cognitivo-comportamentali in quanto tale approccio ha a proprio favore moltissimi studi che dimostrano valide ed efficienti le sue procedure, ma ha anche incontrato critiche più o meno giustificate, da una parte da altri approcci meno favoriti dalle sperimentazioni o meno interessati a esse, dall’altra da studiosi che pongono in rilievo alcune difficoltà intrinseche all’approccio evidence based. Fra le critiche più frequenti vi è la scarsezza di studi di validità esterna o ecologica rispetto a quelli che dimostrano la validità interna delle tecniche di TCC (difficoltà del trasferimento dall’ambito sperimentale a quello clinico quotidiano); l’artificiosità dei gruppi clinici utilizzati considerati come soggetti che presentano un unico disturbo, quando nella clinica reale molto più frequente è la comorbilità; l’impiego di procedure manualizzate nel trial clinici, che impiegano uno o poche procedure terapeutiche (per esigenze di dimostrazione scientifica), quando nella pratica reale si impiegano interventi ad ampio spettro; la non considerazione degli aspetti relativi al rapporto terapeutico; la discutibilità degli studi di smantellamento delle terapie, eccetera.
Si tratta di difficoltà obiettive, che è bene tenere presenti, ma che non dovrebbero fare trascurare la necessità di dimostrare l’efficacia/efficienza degli interventi psicologici in modo scientifico e l’impegno deontologico del professionista di essere aggiornato rispetto a ciò e, quindi, di essere formato e di utilizzare le migliori procedure possibili, per il bene dei suoi pazienti e per ridurre i costi sociali dei disturbi mentali e del loro trattamento, basandosi non solo sul proprio discernimento personale ma soprattutto sui dati di studi controllati e randomizzati. Per cui, tenendo conto delle dovute cautele rispetto alle lotte fra società e alle difficoltà sopra delineate pur presenti nell’approccio evidence based in psicoterapia, non si può, a parere di chi scrive, non tenere conto di quanto scrivono Baker et al.
D’altro canto nel loro articolo, come, almeno in parte, nel progetto di Richards e Suckling, vi è un pericolo e una contraddizione preoccupanti. Come si è già detto Richards e Suckling nel loro progetto per gli interventi a bassa intensità avevano impiegato quella che veniva definita una TCC condotta da persone senza laurea né specializzazione né estesa formazione in psicoterapia, ma formate solo con un corso breve di preparazione sulle basi di tale approccio. Anche Baker et al. sottolineano i vari studi che pongono in evidenza che interventi di “terapia” cognitivo-comportamentali efficaci possono essere messi in atto da diplomati con una formazione breve nelle tecniche. In entrambi casi ciò viene sottolineato positivamente, come indicatore di interventi a basso costo.
A questo punto diviene inevitabile una domanda: mediante tali approcci e con questi operatori miglioriamo l’accesso alla “terapia” o miglioriamo l’accesso a “sostegno, coaching, training delle abilità di vita”? Quando questi ultimi processi divengono terapia? Forse tali programmi sono in grado di migliorare l’accesso ai servizi solo a un certo tipo di pazienti, con quadri semplici e ben delimitati, ma per tutti gli altri pazienti, con patologie più gravi e comorbilità, necessitanti un intervento a elevata intensità rimane il problema dell’accesso a psicoterapeuti formati e professionisti, non a semplici case managers, che conoscono solo alcune tecniche e non hanno un approccio ad ampio spettro alla terapia.
Peraltro gli standard of care NICE sottolineano che coloro che forniscono terapia devono “conoscere bene il disturbo che trattano ed essere esperti relativamente a esso” (per cui i terapeuti TCC devono essere formati come professionisti della salute mentale e non solo essere manipolatori di tecniche), e anche “conoscere bene l’approccio evidence based ed essere competenti in esso”.
In questo punto sta la contraddizione intrinseca nell’articolo di Baker et al.: sottolineano con veemenza l’importanza di una preparazione scientifica approfondita degli psicologi e poi auspicano l’affidamento di una “terapia” a diplomati con breve formazione di tecniche, senza operare neppure la distinzione, più correttamente effettuata da Richards e Suckling, fra interventi a bassa e alta intensità.
In psicologia clinica dobbiamo assicurare un training di ampio respiro a professionisti che divengano in grado di affrontare problemi complessi da una prospettiva ampia e culturalmente solida, non formando semplicemente applicatori di tecniche, come addestratori e allenatori, affermando oltretutto che fanno “terapia”. In questo modo si fa un cattivo servizio alla psicologia, ai pazienti e, in ultima analisi, anche alla terapia cognitivo-comportamentale, che è molto di più di un semplice ventaglio di tecniche utilizzabili all’occorrenza come un coltellino svizzero multilama.
Bibliografia
Care Services Improvement Partnership (2007). Commissioning a brighter future. Improving access to psychological therapies. London: CSIP.
Layard, R. (2006). The case for psychological treatment centres. British Medical Journal, 332, 1030-1032.
Richards, D.A., & Suckling, R. (2008). Improving access to psychological therapy. Clinical Psychology Forum, 181, 9-16.