Tre libri sul comodino: “Che cosa sappiamo della mente”, Vilayanur S. Ramachandran
Recensioni di Anna Barracco: Verità e libero arbitrio fra neuropsicologia, etica e politica
Propongo questo mese ai lettori di OPM una curiosa “trilogia”di recensioni; tutti e tre i testi recensiti riguardano il tema della soggettività e del libero arbitrio, da tre prospettive diverse, forse anche opposte e incommensurabili, e tuttavia proprio per questa incommensurabilità, tutt’altro che incompatibili.
Propongo come ipotesi di lettura critica che la prospettiva neurologico-sperimentale di Ramachandran, quella teologico-filosofica di Mancuso, e quella pedagogico-estetica di Von Horvath trovino proprio nella dialettica che potrebbero generare nel lettore che li affrontasse in contemporanea, una possibile composizione – dinamica – che costituisce a mio avviso la prospettiva genuinamente psicologica del problema della coscienza e del suo più diretto correlato: l’etica.
Sottotitolo: gli ultimi progressi delle neuroscienze raccontati dal massimo esperto mondiale
Editore: Oscar Mondadori
Anno di prima pubblicazione: 2003
Attuale ristampa: 2009
Prezzo: euro 9, 00
Pagine. 134
L’autore: Ramachandran, indiano, nato nel 1951, è professore di neuroscienze e psicologia all’Università della California (S. Diego). E’ autore di centinaia di pubblicazioni scientifiche e fortemente impegnato nella divulgazione. Collabora con “Scientific American” ed è direttore del center for Brain and Cognition di S. Diego.
“L’interdipendenza tra genetica e civiltà fa pensare che, nell’ambito delle funzioni mentali umane, l’eterno dibattito su natura e cultura perda significato: è come chiedere se l’umidità dell’acqua derivi principalmente dai due atomi di idrogeno o dall’atomo di ossigeno, della molecola di H2O. Il cervello è inestricabilmente legato all’humus culturale in cui è immerso e, come una singola cellula non può esistere senza mitocondri simbionti, se fossimo allevati in una caverna dai lupi, o in un ambiente del tutto privo di cultura, saremmo a mala pena umani” (Ramachandran, pag. 108)
Ad una prima lettura il testo sconcerta e un poco anche irrita. In poche pagine l’autore sembra deciso a convincere il lettore che di qui a poco la psichiatria sarà riassorbita dalla neurologia, e che gli studi sul funzionamento del cervello potranno spiegare tutto, dall’arte alla psicopatologia, dal mistero della coscienza alla conoscenza di come si produce e di come funziona la soggettività.
Con una disinvoltura che è accresciuta dallo stile ironico e dalla sorprendente chiarezza, l’autore individua le leggi universali che dominano il nostro senso del bello, spiegandoci anche quali sono i motivi evolutivi cui l’esperienza estetica risponde.
Da Picasso all’imprinting dei pennuti che alla nascita riconoscono il becco della madre-nutrice, dalle sculture indiane all’inseguimento delle femmine operato, nella nebbia o nel folto della foresta, dai nostri progenitori primati, tutto sembra di una tale semplicità che quasi ci sfugge la puntualizzazione onesta dell’autore, e cioè che tali “universali estetici” costituiscono solo il 10% dei fattori che concorrono alla comprensione del fenomeno “arte”, dal momento che il restante 90% è indagabile solo a partire da presupposti di ben altro genere (cioè “culturali”, in senso stretto).
Ma il libro è effettivamente onesto; al di là di forse eccessive semplificazioni, l’autore non nasconde il suo punto di vista o meglio il suo progetto “politico-scientifico”, che è la speranza che si possa passare, tramite gli esperimenti e gli studi sui danni cerebrali, piccoli o grandi, e tramite l’osservazione dei circuiti modulari implicati nelle singole attività cognitive, a superare l’opposizione secolare mente-cervello, natura-cultura, libero arbitrio-determinismo materiale.
Superare questa distinzione per l’autore non significa riduzionismo tout-court, ma passaggio dall’idea di “causa” (cosa causa la malattia mentale? Cosa causa l’isteria? Cosa produce la facoltà riflessiva e in che relazione è tale facoltà con la coscienza?) all’idea di “funzionamento” (non più dunque “cosa causa la malattia mentale”, ma “come si produce, come opera, come funziona, la malattia mentale”).
Nonostante gli esperimenti riportati e lo stringente e anche avvincente percorso che l’autore ci fa fare, fra esperimenti apparentemente insignificanti di soggetti con microlesioni alla corteccia, nonostante la lettura affascinante della sinestesia, come base organica della metafora, o più in generale, della tendenza umana a trasporre e a “spostare” i significanti, nonostante l’affascinate teoria dell’origine non arbitraria del rapporto fra suoni e oggetti designati, teoria che porterebbe davvero a far luce sul mistero biblico della moltiplicazione degli idiomi, la prospettiva resta a mio avviso debole.
Nell’ultimo, bellissimo capitolo, intitolato significativamente “Neuroscienza, la nuova filosofia” forse già meno divulgativo e più intenso, corredato da un apparato di note davvero interessante, l’autore dispiega la sua teoria della coscienza, e quasi suo malgrado si trova a studiare sì i meccanismi che permettono di visualizzare o di mappare come nella corteccia le diverse abilità, le emozioni, le sensazioni, i riconoscimenti, siano incredibilmente distribuiti e associati nei modi più vari, ma anche ad osservare che “il sé è assai arricchito dalle interazioni sociali, e anzi, forse si è evoluto sopratuttto nel contesto sociale …” (pag. 105) O ancora : ” il cervello umano è una macchina per produrre modelli, teorie delle ‘altre menti’ (pag. 106)
Se anche egli tenta mirabilmente di “spiegare” (ma non di spiegazione, ma di osservazione di funzionamento si tratta !) l’isteria, mostrando come il comando di muovere la gamba sia intatto, ma un’altra zona del cervello appare effettivamente e attivamente inibita, egli, con l’onestà del vero ricercatore, ammette che manca il controllo, in quanto non è mai stato possibile sottoporre a osservazione il cervello di un impostore, cioè di un finto isterico, che volesse provare a truffare le assicurazioni (eterno problema degli americani). E’ insomma la menzogna, ancora una volta, la prospettiva soggettiva che non si presta all’oggettivazione scientifica, facendole segnare il passo.
Lo scarto fra scienza e scientismo, è tutta in questa inclusione della prospettiva della menzogna, del “fuori campo”, che certo il buon Ramachandran non dimentica di segnalare anche in molti altri passi, in cui si occupa del linguaggio e dei suoi profondi legami con il corpo in movimento, e non solo con il cervello.
Al dunque quindi, cos’è questo sistema di veto, di cui il soggetto isterico non è cosciente, ma che non è la menzogna deliberata e cosciente?
Qui si introduce il nodo centrale del “libero arbitrio”, di cui il brillantissimo autore indiano sembra voler dimostrare l’inconsistenza, attraverso l’osservazione, certo straordinaria, in base alla quale le aree cerebrali deputate al movimento o all’azione, si accendono prima che il soggetto esperisca a livello cosciente la volontà di eseguire una qualsivoglia azione o esprimere una qualsiasi intenzionalità.
Ma anche qui l’autore onestamente osserva che se questo differimento di pochi microsecondi nel tempo si è generato, e se i soggetti normali non ne hanno percezione, questo dovrà pure avere un senso evolutivo.
In pratica, così come per il segnale televisivo che può giungere lievemente differito a distanza, la convinzione difficile da criticare dei soggetti normali, per cui essi “decidono” di muovere un dito o di mettersi a correre, anche se le aree deputate a metter in atto i fenomeni si accendono PRIMA che questa volontà si produca, non spiega il perché di questo singolare fenomeno. Di questo inganno della coscienza.
L’autore avanza un’ulteriore, affascinante ipotesi: e cioè che alcune patologie psichiatriche originino proprio grazie al fatto che alcuni soggetti percepiscono l’attivazione della corteccia prima di essere raggiunti dalla consapevolezza cosciente di voler fare un determinato gesto. Da qui, deriverebbero i sentimenti di essere controllati, o le voci, o tutti gli altri fenomeni di ricostruzione della realtà minata alla radice da questi disfunzionamenti, cioè da quelle che uno psicoanalista potrebbe chiamare improvvisi ritorni del rimosso.
Infatti il fatto che l’isterico non sia consapevole del sistema di veto che si produce nel cervello quando lui cerca in buona fede di muovere un arto, sono la visualizzazione cerebrale dell’inconscio, così come il fatto che alcuni soggetti possano avere percezione di ciò che accade nel cervello qualche millisecondo prima che loro decidano di mettere in campo una qualche volontà, mentre la maggior parte degli individui non ne ha alcuna coscienza, potrebbe ben essere un’ipotesi di “automatismo mentale” alla de Clérambault. Autore che peraltro il nostro professore indiano cita, ma per farsene gioco. Ma questo, che certo è affascinante, non è che una modalità diversa, da prospettive diverse, di osservare un funzionamento.
Anche Ramachandran, come Freud (che egli cita peraltro alcune volte, riducendolo però ad un teorico del “culturalismo”, o peggio ancora, ad un teorico del primato dell’educazione) e come i filosofi orientali e persino New Age, ai quali si richiama nel suo ultimo capitolo, si interessa profondamente del postulato della coscienza, giungendo alla loro medesima conclusione, e cioè che la percezione dell’io come singolarità è un’illusione, tenuta insieme da complessi meccanismi che ben possono essere analizzati uno a uno, nella loro singolarità e interconnessione neurobiologica e biochimica, ma che come tali costituiscono una sorta di sovrastruttura evolutiva, una sorta di organo immateriale, che l’uomo ha potuto sviluppare progressivamente, unico fra le specie superiori, almeno nell’accezione complessa che nell’uomo si osserva, ma che perde di significato come dato “ontologico”, essendo la distinzione fra “sé e Altro” frutto di un puro inganno prodotto dall’interazione complessa cervello-ambiente-relazione-linguaggio, e pertanto anche fortemente instabile e complesso.