Tre libri sul comodino:“La vita autentica”,Vito Mancuso

Cosa sappiamo della mente

La vita autentica

Gioventù senza Dio

Recensioni di Anna Barracco: Verità e libero arbitrio fra neuropsicologia, etica e politica

Editore: Raffaello Cortina

Anno: 2009, prima edizione

Prezzo: euro 13,50

Pagine: 171

 

L’autore: Vito Mancuso è docente di teologia moderna e contemporanea all’Università San Raffaele di Milano ed editorialista di “Repubblica”. E’ l’autore del best-seller “l’anima e il suo destino”.

 

“La verità è molto più che esattezza, perché l’esattezza dice solo un aspetto particolare della realtà. La verità è invece l’intero delle relazioni e in essa si può entrare solo mediante l’adeguazione della nostra intelligenza e della nostra volontà alla totalità del reale, un’adeguazione che richiede grande intelligenza emotiva e grande umiltà” (Mancuso, pag. 119)

 

Che cos’è l’autenticità, cosa ci permette di distinguere un “vero uomo” e di  stimarlo, anche se partiamo da presupposti e convincimenti politici ed etici completamente diversi?

 

L’autore parte da queste considerazioni apparentemente tutte contenute nell’ambito filosofico-teologico, ma in realtà apre una straordinaria prospettiva etica.

 

Per portarci all’etica, non trascura i grandi interrogativi delle neuroscienze, prelevati dal dibattito attuale, che pure ricalcano un’antinomia eterna ed infinita, rintracciabile già nella Bibbia (dove ad un’idea ordinata e sacrale della vita che si ritrova in alcuni salmi e libri, fa da contrappunto la pessimistica visione presente nel Qohelet). La stessa irriducibile antinomia fra ordine e dannazione, fra liberà e necessità, si ritrova nel pensiero filosofico, che da una parte riproduce in più varianti  il pensiero di Sileno, per cui l’uomo è figlio del “caos e della pena”, e dall’altra invece troviamo i filosofi del vivere come “cosa desiderabile e per natura buona”. Aristotele, Zenone, e poi Spinoza, Leibniz, Hegel, e dalla parte di Sileno,  principalmente Nietzche e Shopenauer.

Ma le cose non si modificano con l’avvento del dibattito scientifico. Da una parte, il premio Nobel della medicina, Monod, alla fine degli anni ’60, parla di ”antica alleanza infranta; l’uomo finalmente sa di essere solo nell’immensità indifferente dell’universo da cui è emerso per caso” , e dall’altra Duve, sempre Nobel della medicina nel 1974: “io considero questo universo non come uno scherzo cosmico, bensì come un’entità dotata di significato, fatta in modo tale da generare la vita e la mente, destinata a dare origine ad esseri pensanti, in grado di discernere la verità, di apprezzare la bellezza, di sentire amore,di desiderare il bene, di definire il male, di sperimentare il mistero …” Anche molti interpreti di Darwin hanno dibattuto e dibattono circa la portata telologica del sistema evoluzionistico, e un dato di fatto è che molte utopie socio-politiche si ispirarono coscientemente al grande scienziato (“il Capitale” di Marx è dedicato a Darwin) implicitamente riconoscendovi –a torto, forse – questa dimensione progressiva e finalizzata, mentre altri sottolinearono, con forza,  la cecità del meccanismo selezione-mutazione.

 

Chi ha ragione, dunque?

Mancuso osserva che spesso le differenti teorie riguardano l’interpretazione dei medesimi dati, pertanto ogni scienza risente di una sua filosofia più o meno implicita, e dietro all’alternativa causa/disegno rispunta l’antinomia metafisica di sempre: il pensiero della necessità diffida del pensiero della libertà e parla di sacralità della vita, come frutto di un preciso disegno; il pensiero della liberà diffida di una presunta oggettività naturale che non è frutto di alcun disegno e dunque pone il primato della libertà.

 

Il percorso di Einstein testimonia il faticoso lavoro dialettico che ha portato questo scienziato, come altri pensatori, secondo l’autore, a decostruire i concetti di libertà, volontà, autodeterminazione. In un suo scritto della maturità Einstein legge Spinoza:  “Non credo affatto alla libertà dell’uomo nel senso filosofico della parola. Ciascuno agisce non soltanto sotto l’impulso di un imperativo esteriore, ma anche secondo una necessità interiore. L’aforisma di Schopenauer secondo cui è certo che l’uomo può fare ciò che vuole, ma non può volere se non quello che vuole, mi ha vivamente impressionato fin dalla giovinezza”. (cit. in Mancuso, pag. 51)

Ma in seguito sappiamo che dopo la seconda guerra mondiale, Einstein maturò un’etica radicalmente diversa, che lo spinse a scrivere rivolgendosi ai capi di governo di tutto il mondo:”Se vogliamo possiamo avere davanti a noi un continuo progresso in benessere, conoscenze e saggezza. Vogliamo invece scegliere la morte perché non siamo capaci di dimenticare le nostre controversie? (…) Ricordate la vostra umanità e dimenticate il resto. Se sarete capaci di farlo vi è aperta la via di un nuovo paradiso, altrimenti è davanti a voi il rischio della morte universale” (Einstein, come io vedo il mondo, 1943, cit. in Mancuso, pag. 52).

 

Che senso avrebbero queste esortazioni, si chiede Mancuso, fuori da una prospettiva che cerchi invece il senso di espressioni come “se volgiamo” “se saprete ricordare”, “se sarete capaci” in un appello alla libertà?

Ecco dunque una prima conclusione: pur nella dialettica e nel dubbio metodico insegnato da Cartesio , la vita autentica consiste nell’esercizio della libertà.

Oggi il dubbio metodico sul “cogito”, si ritrova nel teatro delle neuroscienze, se al cogito attribuiamo (e non mi sembra una forzatura) il senso dell’esercizio della soggettività intesa appunto come volontà.

Il dubbio metodico non potrebbe essere più radicale di così, se quando diciamo “io penso” ci assale il dubbio che “IO” non sia nient’altro che una risultanza illusoria e meccanica di processi chimici ed elettrici.

Tuttavia Mancuso recupera una robusta critica epistemologica, e cioè l’idea che il limite delle neuroscienze stia proprio nel voler conoscere un oggetto, la libertà, di cui l’Io peculiarmente consiste, ma che è immateriale. Ciò che costituisce la forza della scienza, cioè il metodo sperimentale, segna anche i suoi confini: “se controllando l’attività elettrica del cervello con l’elettroencefalogramma, o i suoi campi magnetici con il magnetoencefalogramma, o l’andare e venire dei flussi sanguigni con la risonanza magnetica funzionale, se insomma utilizzando una delle tecniche di neuroimaging oggi a disposizione non si riesce a spiegare dove sorge e cos’è la coscienza, e con essa, la libertà, visto che non esiste una zona specifica a essa deputata all’interno del cervello, da ciò non è lecito dedurre che  coscienza e  libertà non esistano, ma semmai che le neuroscienze non sono adeguate a comprendere il livello dell’essere che si manifesta come coscienza, libertà, responsabilità” (Mancuso, pag. 73).

La torta non può esistere senza gli ingredienti e senza la ricetta, ma non è riducibile ad essi.

 

L’autenticità è dunque innanzi tutto una fedeltà alla propria libertà e a sé stessi.

 

E qui si apre  la seconda, grande aporia filosofico teologica. L’autenticità riguarda l’uso che si fa della libertà.

Il progetto di un’esistenza impone sempre di trovare una misura dell’autenticità come fedeltà a se stessi, una fedeltà che si situi a metà strada, fra se stessi e gli altri, e che abbia pertanto come bussola un principio impersonale, e oggettivo, di valori.

 

Qui si apre il cuore del saggio, che è quello che articola libertà e verità. L’uomo autentico è per Mancuso  colui che misura la sua libertà col metro della verità. Ma anche la verità, come  l’autenticità, è concetto insidioso e niente affatto scontato. “Siamo vecchi, noi occidentali. Abbiamo una lunga storia alle spalle e migliaia di libri che hanno fatto a pezzi l’ideale di una verità unica e immutabile (…) Noi postmoderni occidentali nei confronti della verità siamo nelle medesima situazione del poeta latino alle prese  con l’infelice condizione di non poter più vivere insieme alla sua donna, dopo tutti i guai che gli aveva fatto patire, ma neppure di poter vivere senza di lei” (Mancuso, pag. 112, 113).

 

La verità che è guida dell‘uomo libero non è dunque l’evidenza, non è l’esattezza bensì qualcosa che si muove come si muove la vita.  Mancuso ci offre l’esempio meraviglioso del teologo, vittima del regime nazista, Bonhoeffer, riportato nel trattatelo di etica scritto poco prima di morire, martire del regime nazista, intitolato “che cosa significa dire la verità?”, del 1942. Un  bimbo, interrogato dal maestro, davanti a tutti i compagni, circa il vizio del padre, alcolizzato, nega, e dunque mente, ma in quella menzogna, rispetto all’esattezza della realtà dei fatti, c’è una verità di ordine relazionale, o di “frame” si potrebbe anche dire, che riguarda l’ingerenza feroce e ingiusta del maestro nel privato dell’allievo, il suo esporlo alla vergogna e la corrispettiva necessità dello scolaro di ripristinare questo ordine di verità. A questo dato relazionale, Banhoeffer aggiunge  la doppia circostanza dello scolaro che sostiene il maestro, testimoniando che il padre del ragazzo è effettivamente alcolizzato, e dell’altro scolaro che invece testimonia il contrario, cioè il falso, contro la parola del maestro.

Entrambe le prospettive disegnano, attorno al centro di gravità rappresentato dalla verità, la posizione etica di chi necessita di aderire all’autorità, con cui spesso si scambia la ricerca della verità, anche inconsapevolmente assoggettandosi a significanti padroni nel ragionamento ideologico, politico ma anche scientifico, e la posizione di chi, dicendo il falso, difende qualcosa che va al di là della pura attualità e ha di mira l’etica delle relazioni, dei rapporti di forza.

“La verità autentica ” conclude dunque Mancuso “ha natura  relazionale, coincide con il bene e con la giustizia, e perciò le idee che intendono rappresentarla si verificano pragmaticamente sulla capacità di produrre bene e giustizia” (Mancuso, pag. 125)

Pertanto la verità è un processo dinamico, è una “tensione verso”, nel senso Kantiano per cui “ogni uomo è la sua speranza, ogni uomo è definito dall’oggetto del suo sperare” e la speranza è destinata a rimanere tale, dunque mobile e dinamica, e a non trasformarsi mai in sapere. La dedizione della libertà (ovvero dell’intenzionalità soggettiva) a questa speranza rende la vita soggettivamente e oggettivamente autentica, in questo “spazio impersonale”, fra la fedeltà a sé stessi e la tensione ai valori, per cui l’uomo autentico, ateo o credente, è l’uomo che vive per la giustizia, il bene, la verità.

 

Se Mancuso si fermasse qui, non uscirebbe dalla teologia, per quanto in una prospettiva ricca di riferimenti filosofici e in grado di dialogare con la scienza moderna. Ma nell’ultimo capitolo, fedele al suo disegno di autenticità e di verità con sé stesso, non ci fa mancare l’interrogativo finale: perché mai si dovrebbe essere autentici? Perché questa autenticità tesa a sostenere una speranza di giustizia e di bene? Non è invece la vita un gioco di forze, spesso cruento, in cui occorre saper cambiare le proprie maschere in modo da adattarsi sempre alle situazioni in modo efficace ed utilitaristico?

Anche questo contraddittorio non è nuovo alla storia del pensiero filosofico, e Mancuso cita “Gorgia” di Platone, dove perfino il diritto è smascherato come il tentativo dei deboli di difendersi dalla legge del più forte,  e a Callicle del “Gorgia”   fa eco Nietzsche, con la “volontà di potenza” e la morale come “risentimento dei deboli”.

Mancuso lascia aperta anche questa aporia, fedele all’idea che la verità è un processo dinamico, ma ricorre alla dimensione storica per mostrare come il pensiero nichilista abbia aperto alla tragedia nazista.

Com’è possibile dunque decidere se hanno ragione Socrate e Platone a parlare di virtù, o Callicle e i sofisti a parlare di forza e di convenienza? Ha ragione Kant, col suo imperativo categorico, o Nietzsche con la sua volontà di potenza?

Il tutto, per Mancuso, si chiarisce nell’ottica relazionale, nella scelta cioè della concezione di un io ripiegato su sé stesso, o di un io che si apra al “noi” che implica il passaggio all’oggettivo, all’impersonale. L’io stesso è il risultato di relazioni e non esiste in sé stesso.

E perché non si può vivere opportunisticamente, come Callicle, anche all’interno delle relazioni? I rapporti di forza, potrebbe rispondere Callicle (o Darwin, o Nietzsche) non sono forse relazioni?

 

Per rispondere,  Mancuso ricorre alla fisica quantica, e alla materia come energia.

 

“La fisica insegna che l’essere è energia. Non c’è nulla di statico, di consistente in sé e per sé, non ci sono sostanze prime ma solo aggregati (…) non si sa se le particelle sub atomiche siano corpuscoli oppure onde. (…) oggi noi sappiamo che ogni fenomeno vince il disordine e il caos solo in virtù delle sue relazioni, le quali risultano costitutive della sua ontologia”. (Mancuso, pag. 153)

 

La predisposizione alla relazione ordinata secondo Mancuso è iscritta nella carne, nei 23 cromosomi di cui l’ultima coppia è la coppia di “sposi”, i gameti,  che necessita di incontrare un altro individuo. Vi è poi il riscontro della psicologia e del bisogno estremo di relazioni, fra cui l’amore, come estrema tensione all’unità, di cui troviamo  la grande intuizione nel “Simposio”.

 

Quello che a livello dell’organismo è “salute”, come ricerca ordinata di relazioni,  a livello delle relazioni fra gli organismi è “giustizia”.

 

La medicina, il diritto, la politica, l’economia raggiungono tanto più il loro obiettivo quanto più sanno creare relazioni ordinate, e l’azione a favore di un mondo più giusto produce relazioni ordinate.

Anche la volontà di potenza ha un suo posto in questo ordine: i migliori leader non sono quelli che impongono se stessi a dispetto di altri, ma coloro che sanno creare sistema, squadra, organizzazione. La logica della relazione ordinata non esclude affatto il conflitto, e qui Mancuso ricorda, non senza una vera e coinvolgente passione civile, oltre al teologo Banhoeffer, martire nel tragico scontro col nazionalsocialismo, anche i giudici Falcone e Borsellino.

Essere al mondo in definitiva è un bene, per l’autore, pur nel mistero della condizione umana, ma è un bene che costa caro, e solo in questa prospettiva egli accetta la prospettiva cristiana della croce, intesa come l’accettazione responsabile della lotta e della relativa sofferenza che è implicata nel non abbandonare il campo di battaglia, nella tensione di sopportare l’inevitabile momento negativo nel processo dialettico teso all’armonia relazionale.

 

Il punto fermo su cui si basa dunque questa etica dell’azione, non è un primum movens fisico, non è un principio teologico ma è la dinamica stessa della vita come continua interpretazione di sé stessi, guidati però da un coerente  criterio interpretativo. Un uomo dunque è qualcuno che interpreta la propria libertà; uno che non obbedisce, ma pensa, pensa per obbedire alla verità, perché sa che la più dura prigionia  è quella verso sé stessi, che può essere sconfitta solo con un amore più grande dell’amore per sé stessi, che è appunto l’amore per la verità intesa come tensione alla giustizia e al bene. La vita autentica è dunque un viaggio alla ricerca della conoscenza, sostenuto dalla curiosità e dalla speranza, un viaggio senza fine,  attraverso le relazioni.

 

 

 

Author: Brian

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