Tre libri sul comodino:“Gioventù senza Dio”,Odon Von Horvath

Cosa sappiamo della mente

La vita autentica

Gioventù senza Dio

 

Recensioni di Anna Barracco: Verità e libero arbitrio fra neuropsicologia, etica e politica

Editore: tascabili Bompiani

Prezzo: euro 7,00

Pagine: 150

Genere: Romanzo

L’autore: Odon von Horvath (Fiume 1901 – Parigi, 1938) è drammaturgo e romanziere austriaco. Figli odi un piccolo diplomatico ungherese, studiò teatro e germanistica a Monaco. Nel 1933 si trasferì a Vienna, quindi nel 1938 a Parigi dove poco dopo morì in un tragico incidente, al culmine dell’apoteosi nazista, che egli aveva disperatamente avversato.

“Da quando esiste la società umana non può, per ragioni di conservazione, rinunciare al delitto. Ma almeno i delitti si tacevano, si nascondevano, se ne provava vergogna. Oggi ne siamo fieri. E’ una peste di cui siamo tutti ammalati, amici e nemici. Le nostre anime sono piene di ulcere nere, e presto moriranno. Continueremo sì a vivere, ma saremo morti”.

 Il trentaquattrenne professore di liceo, si trova ad attraversare stancamente e come un entomologo che osservi una realtà che gli è distante, la decomposizione della società tedesca, che sta covando il nazionalsocialismo.

E’ impotente contro il montare della propaganda, infarcita di banalità che assurgono a verità assolute, se ne sta, fra il depresso e l’arrabbiato, nel suo angolino a subire le angherie degli allievi, che non tollerano alcun contraddittorio. Non c’è dialettica possibile. Anche dire che i “negri” sono esseri umani come gli altri è motivo di oltraggio. Gli allievi coinvolgono i genitori, il professore viene ripreso stancamente dal preside, che gli propone paternamente di ritrattare. Gli allievi firmano compatti una lettera richiedendo la rimozione del professore, dalle idee indegne, dall’ufficio.

Egli resiste, nauseato e impotente, come un fantasma vagante per la città desolata, ma nella prima parte del romanzo sembra che la prospettiva della vittima e del carnefice si disegni così. I giovani ottusi carnefici in gregge, che “odiano qualunque pensiero, se ne infischiano dell’uomo. Vogliono essere delle macchine, delle viti, delle ruote, delle bielle. O meglio ancora delle munizioni (..) Ma un momento… non è una grande virtù quest’accettazione del sacrificio supremo? Certo, se la causa è giusta, ma nel nostro caso, di che causa si tratta? Il Giusto è ciò che giova alla tribù, dice la radio.

Quello che non ci da un utile, è giusto. Quindi tutto è permesso, il furto, il delitto, l’incendio, lo spergiuro”. Il professore, la vittima rassegnata e impotente.

 Ma ecco che in una costruzione incalzante che dal romanzo ci porta al teatro, lo scenario cambia.

Il professore si trova ad accompagnare il gregge feroce degli scolari ad un campo paramilitare, e lì accade l’imprevedibile.

Egli scopre una tresca amorosa fra un allievo e una giovane emarginata, che vive di espedienti e piccoli furti.

Già nell’incontro con questa giovane, dal nome inevitabile – Eva – egli sembra ri- sintonizzarsi con un senso di giustizia che è ancora uno stanco automatismo, privo di consapevolezza, dal momento che sventa un furto ad una vecchia signora cieca, inducendo la giovane Eva e i suoi piccolissimi complici alla fuga.

La ritroverà dunque una notte, insospettito dai fruscii e dalle misteriose uscite di un allievo, il giovane L. . In una notte di luna il professore assiste come ipnotizzato ad un amplesso silenzioso fra Eva e L. (tutti i protagonisti sono senza nome, ma solo lettere puntate, numeri, munizioni, bielle, piccoli punti intercambiabili e oscuri, carne da cannone …) e, incapace di sottrarsi a quella visione si attarda e qualcuno forse,  nell’oscurità lattiginosa della nebbia,  lo vede rientrare furtivo.

Il giorno dopo, il professore durante l’escursione dei ragazzi, esplora la tenda di L. e forza la serratura del cofanetto dove è contenuto il diario del giovane “Adamo” come ora lo chiama,  alla ricerca di particolari relativi alla storia con Eva. L. e il compagno di tenda si erano litigati furiosamente, a causa di quel diario, e il professore cerca qualcosa che dia un senso e una direzione in quelle letture segrete, in quelle lettere d’amore e di passione, che gli offrano un diverso spaccato di quella gioventù, o forse invece cerca un’arma di ricatto, un “dente per dente”, contro l’odio manifestato dagli allievi contro d lui. E’ una curiosità ancora senza nome e senza una vera direzione, un contagio perverso che egli discerne ancora con chiarezza.

Ma il cofanetto non si richiude. La piccola serratura forzata, salta. Il cofanetto è solo un giocattolo infantile, materia inerte che si ribella alle previsioni e modifica capricciosamente  i destini.

 Questo misero e semplicissimo caso, produce una cascata di eventi, a valanga.

L. accusa il suo compagno di stanza di aver forzato il cofanetto, e il professore non trova la forza di parlare,  potendo soltanto  mentire a se stesso: non è il momento, aspetto domani, parlerò quando sarà presente il sergente, parlerò in un momento più adatto.

I fatti precipitano. Il compagno di stanza di L. sparisce, e dopo due giorni viene ritrovato morto, con il capo fracassato da una pietra.

L. è sorpreso dal professore, poche ore prima del ritrovamento del cadavere, con le mani graffiate e il volto livido.

Tutto sembra chiarirsi fulmineamente. L. aveva minacciato di morte chiunque avesse letto il suo diario, e aveva picchiato il compagno al rientro dalla prima escursione, accusandolo di aver forzato il cofanetto.

Il cancro del professore cresce, sotto forma di una voce insistente che però non trova sfogo. Perché raccontare quella banale e insignificante verità? Il fatto che sia stato lui, e non il compagno di L. a forzare il cofanetto, non fa certo di lui il colpevole della morte del giovane. Che significato può avere? Che incidenza ha  sul reale?

Si torna in città, L. confessa l’omicidio, ma non è credibile. Molti punti appaiono oscuri e L. non fa menzione di Eva.

Si apre qui la scena del processo. “Verità” prive di qualsiasi tensione etica si confrontano. Quella dell’avvocato di L. e di sua madre, tutto impegnato a sostenere l’innocenza di L. , per puro mestiere. Quella del Pubblico Ministero, quella degli astanti.

In quel luogo di meschinità incrociate e di tentati, goffi eroismi adolescenziali, e di dolore comunque percettibile,  il professore prende  inspiegabilmente il giuramento di rito “alla lettera” e  trova il coraggio di dire la sua, insignificante verità, che irrompe come un terremoto.

Non cambia nulla, apparentemente, ma la rivelazione contagia il giovane L., aprendo un fronte fra lui e la madre.

Il professore viene sospeso dall’insegnamento e un procedimento si apre contro di lui. Paradossalmente, il suo semplice constatare di essersi attenuto al giuramento, solleva irritazione e sconcerto. Ma egli si sente leggero, stranamente come liberato da un fardello immenso, il fardello del rapporto con sé stesso.

L’epilogo, decisamente imprevedibile,  non lo anticiperò certo, per non togliere al lettore il piacere dell’azione, degna del grande teatro espressionista.

Il romanzo è tuttavia di una modernità che sconcerta, in questi tempi di berlusconismo becero e trionfante, in cui tutti forse ci sentiamo un po’ entomologi ed estranei, per poi purtroppo scoprirci invece nient’affatto estranei, a tratti contagiati dalla stessa impotenza, dalla stessa rabbia fredda e sconsolata del trentaquattrenne professore. Come lui forse, minimizziamo i nostri atti, quello che ci mettiamo di nostro nelle cose, e lo facciamo a scapito del rapporto di autenticità con noi stessi e con i nostri valori.

“Ciò che impedisce alla nostra vita di essere autentica sono le menzogne che diciamo a noi stessi, all’origine di quelle che diciamo agli altri” ( Mancuso, “La vita autentica”, 2003, Cortina)

Il romanzo, nonostante la materia robustamente etica, mantiene uno stile freddo e distaccato, carico di disperazione impotente, che man mano esplode e si libera nel sollievo finale, che non ha nulla però del trionfo del bene sul male, o dell'”arrivano i nostri”. La vicenda mantiene i singoli personaggi in un dialogo solitario e tragico con il proprio destino, e a questa solitudine estrema non sfuggono i personaggi- simbolo : il professore protagonista, il nichilista, il prete del paese, i bimbi sfruttati e affamati, affacciati dai vetri neri delle finestre socchiuse delle  fabbriche, e soprattutto le sordide  figure di educatori e pedagogisti dell’epoca della notte della ragione, che genera mostri,  che siano madri, giudici, istitutori, presidi, militari.

Author: Brian

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