Un Paese di ipocondriaci? Psicologia e spesa sanitaria.

Luigi D’Elia

Ho appena finito di leggere, tutto d’un fiato, il saggio “L’Amara Medicina” di Roberto Volpi (Mondadori, 2008), un libro che, qualora non l’abbiano già letto, spero si trovi in cima alle scrivanie o ai comodini dei ministri, assessori regionali e funzionari statali di ogni ordine e grado.
Dire che questo sia un libro istruttivo, è dire ben poco rispetto all’impatto che una visione razionale della politica sanitaria potrebbe avere sulla vita e sulle tasche di tutti noi.
La lettura di questo libro nasce da un motivo apparentemente lontano, e cioè dalla segnalazione sull’ipocondria giunta al nostro Osservatorio, nel quale un collega psichiatra propone come cura proprio dell’ipocondria una bella psicofarmacoterapia…(!). Giusto per confermare che l’ipocondria è, per la gran parte dei medici, un problema inaffrontabile e incurabile e, in fondo, incomprensibile.
Poco prima che ricevessimo questa segnalazione avevo intercettato in tv (Superquark) la notizia secondo la quale la metà delle visite e degli screening medici sono inutili, e cercando conferma di questo imbarazzante, quasi inverosimile, dato mi sono imbattuto nel libro di Volpi, nel quale, assieme a molte altre importanti notizie, questo dato veniva (purtroppo) confermato da puntuali statistiche.
Il libro di Volpi (che ricordiamo, non è un pericoloso eversivo, ma uno statistico che ha lavorato in diverse amministrazioni pubbliche, compreso il ministero del welfare) non fa sconti alla cultura medica che ha impostato da anni la sua politica su un’idea di prevenzione poco radicata nella razionalità, ma piuttosto su una sorta di “espansione euforica” della medicina, ed in particolare di quella preventiva, con nessuna aderenza con i dati epidemiologici.
Ho letto il libro innanzitutto come un comune cittadino interessato alle tematiche, ma l’ho letto anche come Psicologo, professione questa mia che con la salute, il benessere e la prevenzione ha molto a che spartire.
In particolare l’idea che una considerevole fetta della spesa pubblica sanitaria sia di fatto sprecata in interventi inutili (parliamo di alcuni punti del PIL!) a causa essenzialmente di fattori culturali che s’intrecciano con fattori psicologici, mi ha suscitato una risposta di grande disappunto.
Come sarebbe a dire, mi sono detto, fiumi di denari pubblici e privati (parliamo di circa la metà della spesa sanitaria) si sprecano allegramente solo perché esiste un fortissimo orientamento culturale a curare chi non è ha bisogno sulla base di un insensato, anarchico e ansiogeno bombardamento mediatico in questa direzione? O solo perché – aggiungo dal vertice di uno Psicologo – non si sanno riconoscere (o più probabilmente si vogliono togliere dai piedi concedendo prescrizioni di ogni genere) gli ansiosi, gli ipocondriaci, i depressi, o tutti quei pazienti che affollano gli ambulatori medici e che sono richiedenti di cure mediche in pectore, e cioè di attenzioni e/o cure psicologiche sotto mentite spoglie?
Varrebbe un approfondimento a parte la considerazione che qui emerge secondo la quale la medicina risponderebbe con cure inappropriate a qualcosa che ha lei stessa prodotto: l’ansia delle malattie e delle prestazioni salutistiche in persone sane.
Una medicina performativa e consumistica, millantata come preventiva, concepita per persone sane e che pretendono alte prestazioni dal proprio corpo e che non vogliono ammalarsi mai, si è affiancata sempre più (quasi a sostituirsi) ad una medicina curativa, inducendo domande di salute improprie, costose e irreali. Cos’è questo, un delirio collettivo?
Certo, è impensabile ed improponibile attribuire alla sola categoria nosologica “ipocondria” e agli ipocondriaci (e ai medici che gli vanno appresso) la responsabilità degli sprechi sanitari: molto più probabile ipotizzare che il fenomeno delle visite/screening inutili sia più variegato e riguardi l’incontro tra numerose variabili:

  1. una pressione sociale e mediatica a curarsi indotta dall’Industria della Salute (essere più “performanti”) anche laddove non sia necessario.
  2. un sentimento di precarietà esistenziale e di angoscia che trasversalmente riguarda una galassia di situazioni personali in un range ampissimo dentro il quale possiamo certamente ritrovare l’ideazione propriamente ipocondriaca, quella ansiosa, quella depressiva, quella ossessiva, e mille altre sfumature non necessariamente psicopatologiche (come al solito il confine tra derive socio-culturali e psicopatologia anche in questo caso è assolutamente sfumato).
  3. la forma somatoforme che assume tale diffuso e multiforme disagio che generalmente il medico di base, e talora lo specialista, non è abituato a riconoscere come tale.
  4. La difficoltà ad individuare lo psicologo come referente elettivo di questo genere di problematiche (spesso una difficoltà veicolata da uno stigma in tal senso) ed il perdurare  nell’individuare il medico come referente unico per ogni tipologia di problema somatico.

Da Psicologo, inoltre, faccio ulteriormente appello ai miei saperi per attingere al concetto di collusione antiterapeutica e donarlo agli amici medici in chiara difficoltà con questa massa di pazienti, figli della modernità e affetti dall’altrettanto moderno spirito soteriologico della medicina, del quale, sono sicuro, i medici stessi non vedono l’ora di liberarsi.
Colludere con il paziente significa assecondarlo, tenerselo buono, compiacerlo facendo il suo gioco, ma questo accade nel momento in cui il paziente mette in scacco il curante con il corteo di emozioni e proiezioni poco mentalizzate che gli riversa addosso e che il curante spessissimo non sa o non riesce a metabolizzare.
Non si pretende certo che gli amici medici (di base e specialisti) si trasformino in valenti psicologi (ad ognuno il proprio mestiere), ma di fronte ad un’emorragia di questa portata per le casse dello Stato, credo che sarebbe il caso che si cominci a riconoscere i limiti degli interventi medici e si faccia ricorso alle competenze più idonee per individuare ed affrontare il problema.
Non voglia sembrare una banale difesa di ufficio corporativa questa mia (il Dott. Volpi giustamente mi fulminerebbe), ma in paesi dove l’epidemiologia e gli studi di economia sanitaria, come la Gran Bretagna, hanno una lunga tradizione, la presenza funzionale dei saperi psicologici nella riduzione della spesa sanitaria è stata prevista e programmata, come dimostra questa notizia (che riguarda però solo la depressione e l’ansia e non l’ipocondria).
A questo occorre aggiungere che le strategie e gli strumenti della Psicologia e della Psicoterapia hanno dimostrato attendibilità ed efficacia nel testare, riconoscere ed intervenire in maniera alternativa su tutte quelle tipologie di pazienti che fanno abuso di visite, screening e analisi mediche, nonché di medicinali inutili (per ulteriori informazioni, consultare le bibliografie dei nostri esaurienti pareri di Porcelli e Ginanneschi sul tema ipocondria).
In un Paese che programma la spesa sanitaria sulla base di evidenze epidemiologiche e statistiche invece di gettarla dalla finestra, tutte queste sarebbero nozioni disponibili agli amministratori e ai loro consulenti tecnici, ed esisterebbero ricerche-pilota sull’integrazione psicologi-medici di base per il riconoscimento delle diagnosi funzionali o psicogene, e dunque una maggiore precisione della risposta medica al fine di una riduzione della spesa sanitaria.
Personalmente non sono a conoscenza di molte ricerche di questo genere in Italia (tranne quelle di un gruppo afferente alla cattedra di Psicologia della Salute di Roma di Luigi Solano: qui trovate molto materiale disponibile) nelle quali però l’aspetto economico-sanitario non è stato sufficientemente implementato.
Non vedo però soverchie difficoltà a costruire un programma di ricerca-intervento pilota su scala più ampia nell’intento di verificare l’ipotesi che qui sostengo, e che riguarda la riduzione drastica della spesa sanitaria.
In realtà questo lavoro di affiancamento sarebbe solo una piccola parte del mansionario di un ipotetico psicologo di base, di cui si fa proposta da qualche tempo, ma che appare ancora come un lontano miraggio per la nostra sanità pubblica e privata.
Una figura di sistema, questa dello psicologo di base, che, se usato con intelligenza, risponderebbe nella sanità italiana ad innumerevoli bugs culturali della cosiddetta prevenzione medica, che come afferma Volpi non considera con oggettività i reali fattori di rischio, e troverebbe senso maggiormente in variabili non strettamente legate alla cura e alla medicina in sé, quanto piuttosto nell’intervento sugli stili di vita, sulla socialità, sul recupero del rapporto col proprio corpo, le proprie emozioni, il proprio tempo libero, sui comportamenti alimentari, etc., etc. etc., tutte variabili queste che attengono esattamente al lavoro della psicologia professionale.
Il monopolio che la medicina e la sua cultura soteriologica ha realizzato negli ultimi decenni sulla salute rischia di “espropriare” (termine utilizzato da Ivan Illich già nel ’74 nel suo Nemesi Medica, ideale primo capitolo del libro di Volpi) gli utenti dei servizi sanitari di un equilibrato contatto con la realtà, conducendoli ad inseguire piuttosto una visione consumistica delle prestazioni e dei prodotti sanitari stessi che come un boomerang si sta sempre più rivolgendo contro i cittadini e le loro tasche.

Author: Brian

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4 Comments

  1. il commento numero 1 chi l’ha scritto!??
    Non si capisce neanche se si dimostra a favore o contrario a quanto detto nell’editoriale….
    Visto che ha fatto la fatica di rispondere, potrebbe essere chiaro nell’esposizione dei suoi concetti….. a meno che questi non siano chiari neanche a lui/lei

    (sembra un partecipante a quei reality dove lo scopo non dichiarato è quello di proporre al pubblico polemiche e litigate, anche se poi a volte, chi più “sbraita”, meno dice)

    Laura B.

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  2. Sono una Psicoanalista e ho fatto 4 anni di Medicina Psicosomatica, sono perfettamente d’accordo con l’A. dell’articolo, anche se io stesso mi servo dei medici quando la diagnosi è dubbia, ma la quantità di pazienti ipocondriaci che mi arrivano è impressionante e tutti vanno ad intasare gli studi di voi medici, che, se aveste un minimo di coltura Psicologica, sapreste riconoscere una richiesta di aiuto ben diversa da farmaci ed esami, ma guarda caso nessun paziente mi è mai stato inviato da un medico, come se ci fosse la paura che noi rubiamo il lavoro, qui non si è ancora imparato a lavorare in team, ognuno sta a guardia del proprio orticello ringhiando a chiunque ci entri, mentre noi Psicologi facciamo molti invii ai medici senza paura che ci rubino nulla. Traete voi una conclusione

    Dr. Gianna Porri

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  3. Non facciamo facili generalizzazioni, ci sono medici e medici come ci sono psicologi e psicologi, non basta svolgere una o l’altra professione per essere più o meno capaci di mettersi in discussione. Personalmente ricevo invii di ipocondriaci da medici di base e alcuni di loro sanno perfettamente distinguere il lavoro medico da quello psi. Dovremmo smettere con questa continua competizione, se uniamo le nostre competenze possiamo essere una grossa risorsa per il nostro paese.
    Per rispondere a F. D’Elia,la scelta di ogni persona per il proprio futuro se è una scelta non può essere seconda a niente, se invece la facoltà si sceglie perchè si crede che quella sia la migliore per gli altri, non so quanto si possa svolgere il proprio lavoro con passione.
    A. Palmisano

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