Il canto di Paloma (La Teta Asustada)
Regia: Claudia Llosa
Sceneggiatura: Claudia Llosa
CON: Magaly Solier, Marino Ballón, Susi Sánchez, Efraín Solís, Bárbara Lazón, Karla Heredia, Delci Heredia, Anita Chaquiri Ruoli ed Interpreti
Fotografia: Natasha Braier
Montaggio: Frank Gutierrez
Musiche: Selma Mutal
Produzione: Oberon Cinematográfica, Wanda Visión, Vela Producciones
Distribuzione: Archibald Enterprise Film
Paese: Spagna, Perù 2008
Uscita Cinema: 08/05/2009
Genere: Drammatico
Durata: 103 Min
Formato: Colore 35 mm, 1:1.85
di Manuela Materdomini
Anche quest’anno il Festival Internazionale del Cinema di Berlino si è confermato un marchio di qualità. L’Orso d’oro, il prestigioso premio che nel passato è stato conferito ad alcuni tra i mostri sacri del panorama cinematografico internazionale come Ingmar Bergam, Pierpaolo Pasolini, Claude Chabrol, Roman Polanski solo per citarne alcuni, questa volta è stato assegnato alla giovane regista peruviana Claudia Llosa.
Con una maestria degna del premio che le è stato conferito, la regista ha girato un film delicato, di considerevole bellezza, ricco di colori vivaci. Ambientato nei sobborghi di Lima, la storica capitale del Perù, il film si apre con un canto in lingua quechua che, proprio come nell’antica Grecia, diventa la forma di racconto di una storia eroica: il dramma di una donna anziana sopravvissuta ad uno stupro atroce subito negli anni del terrorismo. Presto la donna muore ed inizia il viaggio di sua figlia, la protagonista, di cui la donna era incinta al momento dello stupro. Per dare degna sepoltura al corpo della madre, la ragazza si mette in cammino fuori del campo in cui vive con la famiglia, alla ricerca del denaro necessario e di un giaciglio adatto per la sepoltura. Ma prima di riuscire a portare a termine la sua missione, incontra la vita ed entra in contatto per la prima volta con quel mondo esterno che tanto le fa paura, lei che ha assistito allo stupro della madre da dentro, dal grembo, lei che ha bevuto il latte della paura dalla Teta Asustada (questo è il titolo originale della pellicola) e che sanguina dal naso ogni volta che si spaventa.
La narrazione degli eventi si configura, su un altro livello, come narrazione di un teatro interno animato da fantasmi oscuri e angoscianti che sembrano essere stati tramandati di madre in figlia. Alla luce di questo, ogni incontro che la protagonista fa nel corso del racconto segna una tappa di un’evoluzione che si esplica nella possibilità di contattare un mondo interno apparentemente chiuso e terrorizzato da qualsiasi stimolo esterno, ostruito simbolicamente da una patata che lei ha inserito nella vagina, che cresce nel ventre e le cui radici fuoriescono dal suo corpo. Nulla dunque sembra poter entrare dentro di lei. E invece, nella villa di una compositrice borghese presso la quale presta servizio, la protagonista si affaccia alla vita, come a una finestra dalla quale scruta l’universo per la prima volta. Ammalia con il suo canto soave, poetico e talvolta disperato, la ricca signora che ha perso l’ispirazione e non sa più scrivere la musica. In cambio del suo canto e con la stessa avidità con la quale signora attinge a lei come a una fonte ancora vergine, la protagonista prende le perle di una collana, spezzata come la creatività, e costruisce, perla dopo perla, la sua identità.
“Il canto di Paloma” sembra un film tutto femminile (le protagoniste sono infatti femmine: la ragazza, la madre defunta, la musica, la morte, la paura,) sul quale aleggia, tuttavia, lo spettro di un maschile violento e usurpatore. Con lo scorrere della pellicola, tale scenario va via via modificandosi. Grazie all’incontro che la protagonista fa con il giardiniere che cura le piante della compositrice presso la quale lei presta servizio, emerge l’immagine di un maschile più delicato, che non stupra, che non lacera, con il quale diventa possibile misurarsi, parlare e persino, forse, innamorasi.
La scelta di un giardiniere come personaggio che consente l’accesso ad una relazionalità pensabile con l’altro sesso sembra particolarmente felice. La protagonista, infatti, si relaziona con un uomo che coltiva i fiori, che con discreta delicatezza e sensibilità, la accompagna nel percorso che la condurrà a riappropriarsi della sua storia, a liberarsi della patata che porta nel grembo e a consegnare, infine, il corpo della madre alla spiaggia dell’oceano.
Sul finale, la regista ci regala ancora una fotografia suggestiva : il fiore della patata, bianco, bello, donato dal giardiniere alla protagonista, così raro a crescere e sbocciato su un terreno brullo, selvatico, a prima vista sterile come sembrava l’animo della protagonista.
Sullo sfondo, la cultura tradizionale peruviana tratteggiata con lo stile ironico e giocoso di chi la conosce perché in qualche modo vi appartiene: musica, feste di matrimoni, bambini che giocano per la strada, cani, sorrisi sdentati, facce di anziani, in un mix di modernità e tradizione che stridono e coesistono in un unico quadro malinconico che riecheggia gli scenari felliniani di La Strada (1954) e Amarcord (1973).
30 giugno 2009
non sono ancora riuscita a vedere il film, e purtroppo penso che dovrò accontentarmi dello schermo di casa… dopo le pennellate calde e suadenti di questo quadro, dipinto nella recensione, me ne dispiaccio ancora di più!
complimenti per la bella e colta descrizione che ne fai!!