Quale statuto epistemologico per la Psicologia?
di Massimo Giuliani
Seguo sulla pagina di Facebook dell’Osservatorio le lamentele di colleghi su una puntata di Porta a Porta in cui si sarebbe discusso di attacchi di panico in un modo sfacciatamente favorevole ai sostenitori della farmacoterapia occultando l’esistenza degli psicologi.
Se posso dire la mia, il danno provocato da un servizio simile in tv è tutto sommato esiguo.
Suppongo che davanti a un messaggio di evidente propaganda (sebbene camuffato da informazione giornalistica) l’utente sappia come regolarsi. E non mi scandalizza che un medico porti l’acqua al proprio mulino: fa solo il proprio mestiere. Come terapeuta quel che posso fare, semmai, è cercare di essere altrettanto bravo nella comunicazione su quel che so fare io.
Mi mette assai meno di buon umore un certo modo di parlare di psicoterapia nei media: al proposito segnalo – giusto a titolo esemplificativo – un articolo uscito su “Il Giornale” qualche mese fa: http://www.ilgiornale.it/a.pic1?ID=300404 (non a caso, su un argomento sul quale psicologi e psicoterapeuti si producono quotidianemente senza risparmiarsi, ormai un fortunato sottogenere della letteratura psicologica: Facebook e le dipendenze annesse).
Cito un passaggio dell’articolo:
“Si chiama “friendship addiction”, “amico-dipendenza”, ed è una vera epidemia che sta esplodendo negli ultimi anni, soprattutto a causa del social network Facebook. A individuare e coniare questa nuova patologia è David Smallwood, uno dei principali psicologi britannici, esperto di dipendenze” per dire che idee simili penetrano nella cultura e promuovono un’immagine della psicologia del tutto alleggerita da qualunque preoccupazione, come dire?, epistemologica.
Cioè: secondo questo modo di informare, la “friendship addiction” è una “patologia” che si “individua”, e non un bizzarro costrutto inventato da David Smallwood (“uno dei principali psicologi britannici”: e che vuol dire? e come si misura? Dal numero di “patologie” “individuate”?).
Quando entro da terapeuta nel dibattito su terapia o pillole, in fondo mi pongo nella stessa prospettiva (come posso definirla? Reificatrice? Essenzialista?) del medico che difende la sua bottega: cioè la terapia, le pillole, sono “cose” di cui posso misurare l'”effetto” (contesto, relazione, linguaggio, osservatore, sono variabili da recidere chirurgicamente). Sono cioè dentro la stessa ideologia: non la metto in discussione.
Io propongo, piuttosto, che una questione da ritenere prioritaria sia quella di rivendicare uno statuto epistemologico “altro” rispetto alla medicina somatica. Articoli come quello che ho citato – che probabilmente piacciono tanto agli psicologi “realisti” perché costruiscono nuove “malattie” da guarire – sono responsabili di una confusione ancora più grave che la superficialità – fin troppo evidente, in fondo – dei dibattiti a Porta a Porta.
Dunque vi domando: qual è la posizione dell’Osservatorio al riguardo?
Oltre a fare la guardia perché il marketing farmaceutico non ci rubi troppi clienti, è interessato anche a un’analisi dei modi in cui i media costruiscono il discorso sulla psicologia?
Questo mi interessa molto di più: perché finché ci ostiniamo a sentirci dei “piccoli medici”, sarà inevitabile che quelli “grandi” ci schiaccino.
24 marzo 2009
Caro Massimo,
tu distingui, mi pare di aver inteso, tra una posizione “culturale” ed una posizione “mercantile” (o merceologica), sostenendo che in fondo la prima questione (quella dello statuto epistemologico della psicologia) sia prioritaria se non prevalente rispetto alla banalità di guerreggiare sulle fette di mercato tra medicalismo e approcci psicologici.
Personalmente, questa separazione nella nostra società postmoderna e neocapitalistica non credo sia così netta (diciamo da almeno mezzo secolo): i flussi di consumo orientano i costrutti culturali (e viceversa, forse). E su questa interazione e continua contaminzione non ci soffermiamo mai abbastanza a riflettere per comprenderne il funzionamento.
L’Osservatorio non si propone la difesa dei target di “consumatori” di psicologia, come tu dici (sarebbe obiettivo davvero mortificante), bensì parte dal principio scientifico che qualunque azione di osservazione non è mai neutrale ma determina nel tempo cambiamenti sugli scenari osservati.
Dal mio punto di vista, poi, l’invenzione di nuove e suggestive denominazioni di “addiction” sono del tutto contigue culturalmente al semplicismo di chi contrabbanda soluzioni immediate e magiche nei talkshow: sono lo stesso fenomeno: marketing. Talora esplicito, talora travestito da ricerca, ma la matrice è identica: utilizzare una narrazione impattante che ci liberi dal male.
Ora, certamente se esiste un baratro tra come i media si rappresentano la psicologia e come io, te e qualcun altro ce la tappresentiamo, è perché ben poco si è fatto affinché le nostre storie di psicologi arrivassero alla dignità di racconto, di risposta utile, di strategia possibile (anche dal punto di vista economico).
Ma con chi ce la vogliamo prendere se non con noi stessi?
25 marzo 2009
Caro Luigi,
no, non ho in mente la distinzione che mi attribuisci fra “cultura” e “mercato”.
Piuttosto dico che ci affanniamo invano a contenere lo strapotere mediatico e culturale della farmacoterapia se parliamo come i medici, pensiamo come i medici, usiamo le metafore dei medici, sfidiamo i medici sul terreno dei medici, ma non siamo medici. E poi ci stupiamo se ci fanno neri.
Prendi ad esempio la frequenza con cui saltano su a dire “diagnosi? Ma se la chiamiamo diagnosi allora dobbiamo farla noi!”.
Non ho nemmeno mai pensato che l’Osservatorio che tu coordini si proponga “la difesa dei target di ‘consumatori’ di psicologia”: ho domandato però se si preoccupa, oltre che di come i media trattano la psicologia, di come gli psicologi trattano la psicologia, sempre più appiattita sull’imitazione del discorso medico e sempre meno capace di proporsi per quello che può essere di diverso.
26 marzo 2009
Caro Massimo,
a me sembra consequenziale nel momento in cui svolgo un’osservazione sistematica sulla narrazione mediatica della psicologia, porre al contempo gli psicologi nella condizione di rispecchiarsi con essa e di posizionarsi rispetto le suddette “delineazioni”. Lo sguardo dell’altro istituisce in buona parte anche il mio stesso su me stesso. Sia in continuità che in discontinuità.
Amo definire questa iniziativa, nel presentarla, un “laboratorio identitario” (l’ennesimo) a disposizione di tutti i colleghi per riflettere sui nostri statuti scentifici, operativi, sociali.
C’è però la condizione, nei processi di formazione dell’identità, di doversi confondere prima di potersi ritrovare. Di doversi differenziare, disidentificare, re-identificare, trovare il proprio “autòs”, la propria cifra di originalità, ma anche le proprie radici comuni.
A me pare che questo processo non sia indolore, né semplice, né rapido e che richieda un infilare le mani nella materia viva del mondo di rappresentazioni, costrutti interni, specchi deformanti, bugs culturali e formativi… Insomma, non è questione da risolvere in asettici spazi accademici o congressuali (asettici anche perché distanti dalla realtà operativa degli psicologi) dove tutto sembra andare al suo posto, quanto piuttosto incrociando l’azione (di ricerca e politica) con un pensiero vigile.
Dunque, i tuoi inviti a ripensare gli statuti epistemologici della psicologia, le sue radici e tradizioni scientifiche, sono i benvenuti. Non a caso, però, per il momento si propongono “per differenze”, e non per affermazione.
Facciamo tutti un passo avanti, allora.
27 marzo 2009
Ottimo.
La mia preoccupazione è soltanto quella che possiamo farci da soli più danni di quanti possa farcene Porta a Porta.
Raccontiamo di quello che sappiamo fare noi (e che spesso ci viene anche bene!), invece di inseguire altri sul loro terreno. Però dobbiamo imparare a farlo.
In America hanno “In Treatment”, noi “L’Italia sul Due”.