Indovina chi viene a cena?

di Chiara Santi

Immaginate di essere comodamente seduti in casa vostra, nell’appartamento che avete comprato dopo una vita di fatiche e risparmi. All’improvviso, qualcuno entra dalla porta d’ingresso con un passpartout ; di fronte al vostro più che giustificato stupore, dice: “ma questa è casa mia!”. E dopo un attimo, davanti alle vostre ripetute rimostranze, prova a giustificarsi dicendo: “ok, forse non è proprio del tutto casa mia, solo la zona giorno mi appartiene. E, comunque, quante storie…siamo amici, no?”.

Folle? Già.
Ma questo è quello che avviene continuamente a tutti i nostri colleghi di fronte al dilagare di figure che invadono, in modo più o meno esplicito, l’ambito psicologico, sostenendo poi che non stanno facendo nulla di nostra esclusiva pertinenza e che la psicologia non si può delimitare così chiaramente. Tutt’al più, sottolineano con aria bonaria, dobbiamo considerarci come discipline vicine, che dialogano fra loro come vecchi conoscenti.
Insomma, sembra che la psicologia faccia gola un po’ a chiunque; sarà che il mondo della mente è un ambito estremamente affascinante, sarà che la nostra società appare sempre più “malata” ma, per un motivo o per l’altro – dalla porta della salute o da quella della malattia – c’è sempre qualcuno che prova ad infilarsi. Affermando che, anche se non ha svolto formazione specifica sul campo, ha tutto il diritto di entrare. E si infastidisce pure se gli fai notare, gentilmente, che quella è casa tua, appunto.

Spiace vedere che, in questi tentativi poco edificanti, a volte finiscano anche personaggi di spicco e di sicura preparazione. Così, perfino un luminare come Galimberti ha finito per scivolare nel dibattito, cercando di forzare la serratura[1].
In un articolo su Donna, il settimanale edito da Repubblica, in risposta ad una missiva in cui si criticava la legittima scelta da parte del Consiglio Nazionale di rimettere mano al codice deontologico, oltre che la libera espressione di voto dei colleghi che (per quanto in percentuale bassa, come ormai capita sempre nelle votazioni che riguardino i liberi professionisti) a larga maggioranza avevano dato il loro consenso a questa modifica, Galimberti rispondeva: “Adesso, che l’Ordine degli psicologi voglia impedire a Socrate e ai suoi seguaci di fare il mestiere di filosofo, se si è psicologi, mi pare eccessivo”[2].
Capiamo che gli esterni all’annosa diatriba sulle invasioni barbariche che subisce la nostra disciplina possano non essere interessati alle sfumature della questione, ma ad un autore che scrive su un giornale sarebbe richiesta un po’ di accuratezza nel risalire alle fonti e all’esatta materia del contendere – soprattutto quando risponde su un periodico di tale importanza e tiratura – invece che diffondere ad un pubblico di milioni di lettori notizie quanto meno inesatte.
Ecco, la psicologia non vuole proprio impedire ai filosofi di fare il proprio mestiere. Vorrebbe, piuttosto, impedire ai non psicologi di fare quello nostro. Questo, mi permetta Galimberti, dovrebbe come minimo esserci concesso a salvaguardia della nostra professione ma, ancora prima, a tutela dell’utenza, che dovrebbe essere risparmiata dal counseling psicologico selvaggio, tanto per parafrasare il caro vecchio Freud. Certo, la cosa può dispiacere a chi cerca di fare soldi a discapito di qualsiasi altra cosa, ma noi pensiamo che in tema di salute l’adagio “business is business” non possa e non debba valere.
Fra l’altro, scorrendo il resto dell’articolo, scopriamo che, secondo Galimberti, scientifica sarebbe solo “la psicologia delle Università, che studia l’intelligenza, la memoria, il linguaggio, il pensiero, l’apprendimento, l’emozione, la motivazione, in una parola le strutture fondamentali della mente umana, ma non è assolutamente scientifica la psicoterapia, da un lato perché non ha alcun riscontro sperimentale, oggettivamente documentabile, dall’altro perché, come dice Artistotele, dell’individuale non c’è sapere. La psicoterapia non è una scienza, ma un’arte, e male ha fatto il nostro legislatore a consentirne l’accesso solo ai medici e agli psicologi, escludendo i filosofi, quando sulla cura dell’anima le cose più interessanti le hanno dette i filosofi”.

Forse Galimberti non si è tenuto aggiornato sulle ultime – e non solo ultime – validazioni statistiche e scoperte scientifiche in tema di psicoterapia, di cui più volte abbiamo parlato anche nel nostro sito (ad esempio: Migone, 2010 e Migone, 2010) Tuttavia pare strano, a giudicare dall’alta conoscenza della materia che ha sempre dimostrato di avere l’Autore.
Certo, a volte insegnare in un master di counseling filosofico – di cui Galimberti, con discreta solerzia, non manca di informare il pubblico – può rendere meno oggettivi nella valutazione dei fatti, tuttavia sostenere che la psicologia “per acquisire una sua scientificità si è appiattita sul modello medico”, come fa lui, significa non avere ben chiaro né il senso della legge istitutiva della nostra professione (laddove parla di  “strumenti conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazione-riabilitazione e di sostegno in ambito psicologico rivolte alla persona, al gruppo, agli organismi sociali e alle comunità (…) le attività di sperimentazione, ricerca e didattica in tale ambito”) né i suoi innumerevoli ambiti di applicazione sia fuori dal settore clinico sia al suo interno, nel quale non si tratta solo di cura e malattia, bensì in senso molto più ampio di prevenzione, sostegno, empowerment, benessere e molto altro. Insomma, di tutte le attività che, sostanzialmente, i counsellor avocano a sé, sostenendo una netta differenziazione dalla psicologia e dalla psicoterapia.

Di fronte a questa visione così parziale, il Presidente dell’Ordine della Lombardia, Mauro Grimoldi, ha giustamente replicato all’articolo, cercando di riportare un po’ di chiarezza, laddove era stata fatta confusione, specificando che “tutto si può insegnare, ma sono solo le tecniche, che permettono al medico come allo psicologo di agire sul paziente che devono essere usate solo da chi le può usare “sine nocere”al paziente. Non c’è quindi inimicizia, tra psicologia e filosofia, ma l’opposto: gratitudine”.
In risposta a questa precisazione e alla richiesta di un parere dell’Autore rispetto al tema per evitare letture strumentali del suo contributo che, da chi ha un qualche interesse, poteva apparire come un sostegno all’abusivismo, la nuova riflessione di Galimberti limita i danni, ma non aiuta di certo l’utente medio a difendersi da figure al limite della legalità. Galimberti, infatti, sostiene la lotta contro operatori improvvisati della psiche, ma, guarda caso, da questi vorrebbe escludere i consulenti filosofici in quanto – secondo lui – adeguatamente formati.
Già, ma adeguatamente formati a cosa?

Lui sostiene che si rivolgerebbero non ai disagi psichici, ma solo a chi vuole rimettere in ordine la propria vita. Ora, già il fatto che una persona voglia mettere in ordine la propria vita può far sospettare che, da qualche parte, avverta un malessere per come è attualmente impostata. Forse andrebbe ridimensionato e ricollocato il senso di disagio psichico; a qualcuno pare far comodo non solo sostenere che la psicologia si occupa solo di cura, ma anche che il disagio psichico sia uno stato sempre e comunque terribile e deflagrante. In realtà, non ci vuole una mente eccelsa per cogliere come esso possa ben rappresentarsi attraverso una linea continua che parte dallo stato di benessere per arrivare all’estremo della patologia psichica totalmente invalidante, toccando tutti i punti di questo immaginario segmento.
Ecco, tanto per fare chiarezza, la psicologia e psicoterapia in qualche modo si situano fra i due estremi di una retta parallela alla prima, andando ad intervenire su questa in ogni suo settore, laddove l’intervento richieda – citando l’art. 21 del nostro codice deontologico – l’utilizzo di “tutti gli strumenti e  le tecniche  conoscitive  e di intervento relative a processi psichici (relazionali, emotivi, cognitivi, comportamentali) basati  sull’applicazione di principi, conoscenze, modelli o costrutti psicologici”.
Che poi si utilizzi quanto sopra ma gli si dia un nome differente, non cambia la sostanza (esattamente come definirsi counselor e utilizzare strumenti psicologici non evita di essere perseguiti per reato penale di esercizio abusivo della professione).

Pare abbastanza bizzarro, poi, che proprio dalle parti di chi denuncia, criticandolo, l’appiattimento della psicologia sul modello medico, arrivino tutti i disconoscimenti (o le dimenticanze) del caso sulle vastissime aree di intervento in cui la psicologia si situa fuori dall’area di cura in senso stretto.

Insomma, temiamo che, come al solito, non si faccia un buon servizio alla collettività diffondendo idee distorte sull’ambito di applicazione della psicologia e sulla sua scientificità che vanno, guarda caso, a sottolineare come presunte aree lasciate fuori dal suo campo possano essere ben occupate da altre discipline. L’utente, normalmente, fatica già a cogliere le differenze ben più semplici fra psicologo, psicoterapeuta e psichiatra; figuriamoci se ci si mette a confondere le idee anche con una miriade di nuove professioni le quali, invece di ritagliarsi un campo ben specifico di attività, provano a sovrapporsi senza tanti complimenti a quanto da sempre la psicologia fa.



[1] In realtà, non è la prima volta che ci occupiamo di Galimberti e del counselling filosofico da lui sostenuto. In merito alla differenza fra questo e la psicoterapia, abbiamo già scritto qui: http://www.osservatoriopsicologia.com/2012/03/31/come-si-cura-la-sofferenza-dellanima/

 

[2] Perché tanta paura della filosofia?, Umberto Galimberti, inserto “D” di La Repubblica del 03/08/2013

Chiara Santi

Author: Chiara Santi

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