Riflessioni sul DSM-5. Paolo Migone
Per comprendere meglio le polemiche che hanno circondato l’uscita del DSM-5, cioè la quinta edizione del Diagnostic and Statistical Manual (DSM) of Mental Disorders dell’American Psychiatric Association (APA), e più in generale i problemi e le difficoltà della diagnosi in psichiatria, può essere utile chiarire alcuni aspetti metodologici di questi manuali, perché non sono sempre noti a tutti. Non è possibile comprendere pienamente il problema della diagnosi secondo il DSM se non si conosce la sua filosofia di base e il modo con cui avviene concretamente il processo diagnostico.
I DSM a tutt’oggi pubblicati sono, considerando le revisioni, i seguenti sette: il DSM-I del 1952, il DSM-II del 1968, il DSM-III del 1980, il DSM-III-R del 1987 (R sta per Revised), il DSM-IV del 1994, il DSM-IV-TR del 2000 (TR sta per Text Revision), e il DSM-V del 2013 (in questa quinta edizione si è deciso di non usare il numero romano, per cui si scrive DSM-5). Va subito detto che le prime due edizioni hanno suscitato poco interesse perché erano semplici elenchi di disturbi con una loro breve descrizione, la vera novità comincia nel 1980 col DSM-III, quello creato da Bob Spitzer, perché ha introdotto aspetti innovativi che verranno poi mantenuti nel DSM-IV guidato da Allen Frances e nel DSM-5 guidato da David Kupfer.
In questa sede, prima di parlare del DSM-5, illustro cinque aspetti del DSM, quelli che mi sembrano i più importanti. Il primo è il cosiddetto sistema “multiassiale”, e va detto che purtroppo questo sistema è stato eliminato dal DSM-5, privando il clinico dell’arricchimento che gli derivava dalla possibilità di vedere il paziente da cinque punti di vista diversi, per cui mostrerò quanto questa eliminazione rappresenti uno dei difetti del DSM-5. Gli altri quattro aspetti riguardano scelte metodologiche di fondo: l’approccio cosiddetto “ateorico”, e le dicotomie politetico/monotetico, validità/attendibilità, categorie/dimensioni. Parlerò poi del DSM-5 e dei motivi per cui ha suscitato così tante polemiche. In questo scritto riprenderò precedenti lavori (Migone, 1983, 1985, 1992-99, 1995, 1999, 1996a, 1996b, 2010a cap. 12, 2010b, 2011, 2012a, 2012b, 2013a, 2013b; de Girolamo & Migone, 1995; ecc.).
Il sistema multiassiale
Come ho detto, il sistema multiassiale è stato introdotto col DSM-III e mantenuto nel DSM-IV, ma è stato eliminato nel DSM-5, e qui ne accenno per mostrare quanto la sua eliminazione abbia in realtà danneggiato il nuovo sistema diagnostico. Il sistema multiassiale prevedeva che il paziente venisse visto simultaneamente secondo cinque “Assi” indipendenti e paralleli tra loro: I) i disturbi clinici (es. schizofrenia, depressione, ecc.); II) disturbi di personalità (che sono una decina, es. borderline, istrionica, ossessivo-compulsiva, narcisistica, paranoide, ecc.); III) le condizioni mediche generali (cioè non psichiatriche, es. polmonite, diabete, ecc., le quali possono aver influenza sul disturbo mentale); IV) problemi psicosociali e ambientali (i cosiddetti stressors o gli “eventi di vita” stressanti, nell’ipotesi che abbiano influenza sul disturbo mentale, es. un lutto, un licenziamento, un divorzio, ecc.); V) valutazione globale del funzionamento (una scala da 0 a 100 che misura il funzionamento sociale).
Il fatto che siano concepiti cinque Assi indipendenti tra loro è di per sé una opzione teorica interessante perché permette di indagare se e come queste cinque prospettive si influenzino reciprocamente. Questo approccio sembra anche una declinazione del famoso “modello biopsicosociale” di cui parlò George Engel (1977), o comunque pare esservi un’attenzione per l’influenza degli aspetti socio-ambientali sulla psicopatologia. Tra l’altro, è opportuno non avere preconcetti riguardo al ruolo delle malattie fisiche (Asse III), dei fattori stressanti (Asse IV) o del funzionamento sociale (Asse V) nella insorgenza della malattia, perché non sono da escludere situazioni che a prima vista appaiono paradossali, sulle quali ci si deve interrogare perché possono fornire informazioni preziose: pazienti con gravi malattie fisiche possono non presentare sofferenza psicologica; gravi lutti o dolorosi eventi di vita possono (“patologicamente”?) non provocare alcuno stato depressivo; una persona al gradino più “basso” del funzionamento sociale – al limite una persona che vive in strada o è un mendicante – può non avere alcun disturbo mentale descritto nel manuale o, all’opposto, persone gravemente disturbate possono dirigere aziende o addirittura diventare capi di stato. Queste informazioni fanno riflettere, sia sullo stato psicologico di un individuo sia sul tipo di società in cui vive.
A proposito della definizione di “disturbo mentale”, che è una questione spinosa, il DSM-III non si tirò indietro e lo definì esplicitamente, ma non è possibile in questa sede affrontare questa complessa problematica. Mi limito a citare l’autorevole posizione di Jerry C. Wakefield (2004), che critica duramente la definizione di disturbo mentale proposta da Spitzer nel DSM-III, senza nel contempo aderire a posizioni “relativizzanti” come quelle di Foucault (1961) o Szasz (1961). Spitzer in seguito farà autocritica e darà ragione a Wakefield, di cui diventerà amico e con cui scriverà alcuni importanti lavori.
A parte gli Assi III, IV e V – che peraltro il clinico spesso trascura, a volte per mancanza di tempo – interessante è la suddivisione della psicopatologia nei primi due Assi paralleli dei disturbi clinici (Asse I) e della personalità (Asse II). Questa è una scelta precisa, che ha implicazioni sulla concezione della malattia mentale (e che tra l’altro non è stata seguita dall’ICD-10, il sistema diagnostico proposto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità [OMS]). Per sintetizzare il razionale di questa suddivisione, si può dire che i disturbi clinici sono temporanei, possono insorgere e poi passare (si pensi alla depressione, ma anche a disturbi gravi come la schizofrenia), mentre i disturbi di personalità durano tutta la vita, si stabilizzano a partire dall’adolescenza e poi subiscono minime variazioni. In altre parole l’Asse I sarebbe sincronico, mentre l’Asse II diacronico, oppure, usando i termini della psicologia della personalità, si tratterebbe della dicotomia “stati/tratti”: gli “stati” (Asse I) vanno e vengono, sono temporanei, mentre i “tratti” della personalità sono stabili, caratterizzano l’identità di una persona. Non a caso nell’Asse II fu incluso dal DSM-III anche il Ritardo mentale, che è un deficit permanente (il DSM-IV lo ha incluso nei disturbi dell’infanzia). Questa differenza tra Asse I e Asse II basata sulla “durata” della malattia comunque non è sempre valida (vi sono disturbi in Asse I che possono essere cronicizzanti), ma può servire per riflettere sul modo con cui questi due “livelli” di funzionamento mentale si rapportano tra loro. Si potrebbe anche ipotizzare – ma non è sempre così – che i disturbi di personalità (Asse II) rappresentano una predisposizione agli omologhi disturbi in Asse I, oppure una forma attenuata di essi, una forma frusta, non “sbocciata”, di un disturbo conclamato in Asse I (come nel caso della personalità schizotipica che è una variante meno grave, anche in termini eredofamiliari, della schizofrenia, oppure nel caso della personalità borderline che secondo alcuni ricercatori potrebbe essere una forma attenuata di un disturbo dell’umore). Certamente la personalità rappresenta la “struttura” di una persona, l’humus da cui i sintomi di Asse I traggono la loro linfa, se così si può dire (Migone, 1997), e può condizionare il modo con cui un disturbo clinico viene vissuto soggettivamente dal paziente e soprattutto trattato dallo psichiatra (nel senso che un paziente con una personalità “sana”, cioè senza diagnosi in Asse II, risponde meglio al trattamento di un disturbo in Asse I perché ne è maggiormente consapevole, coopera meglio col medico, ecc.).
Il DSM-III e il DSM-IV, insomma, coi primi due Assi non concepivano tutti i disturbi mentali all’interno di uno stesso elenco, ma come suddivisi in almeno due tipi che hanno un “senso” diverso, e inoltre col terzo, quarto e quinto Asse prevedevano l’esame di fattori importanti per la comprensione della malattia. Nel DSM-5 dunque questa possibilità di comprensione “dinamica” del disturbo è andata perduta.
L’approccio “ateorico”, meramente descrittivo
Questo è un aspetto fondamentale del DSM-III, del DSM-IV e anche del DSM-5. La spinta a costruire questi manuali venne dall’imbarazzante situazione, sentita negli anni 1960-70, creata dalle tante scuole teoriche che frammentavano la disciplina e impedivano un accordo sulla metodologia diagnostica, per cui, per fare un esempio, la schizofrenia risultava molto più frequente negli Stati Uniti che in Europa. Occorreva stabilire se erano diversi i metodi diagnostici oppure se era diversa l’epidemiologia. Inoltre non si potevano paragonare i risultati di ricerche di paesi diversi (ad esempio sugli effetti un certo trattamento) se non si era sicuri che i pazienti fossero gli stessi. Vi era insomma la forte esigenza di un sistema diagnostico attendibile e che tendenzialmente fosse utilizzato in tutto il mondo. E come era possibile unificare le diverse scuole, facendo in modo che accettassero un sistema comune? Non c’era che un modo, pensò Spitzer, quello di mettere da parte tutte le teorie e basarsi solo sull’aspetto descrittivo, sui sintomi così come sono visti dal clinico. Questo approccio fu chiamato “ateorico”, un termine improprio perché ovviamente non è possibile prescindere da una teoria. Quello che Spitzer voleva dire era che si dovevano ignorare tutte le teorie eziopatogenetiche (le inferenze non dimostrate, le teorie causali delle malattie), e affidarci solo ai dati certi dell’esperienza, ai sintomi così come appaiono al clinico (per questo motivo il DSM-III, tra le altre cose, dovette eliminare i termini “isteria” e “nevrosi”, perché troppo legati a ipotesi teoriche, in questo caso a speculazioni freudiane). Questa impostazione, che non a caso fu definita “neo-kraepeliniana” perché mirava alla categorizzazione di tutte le malattie, è di tutto rispetto, e la sfida che Spitzer voleva lanciare fu veramente eroica: vedere se, utilizzando solo l’aspetto descrittivo, si riuscisse ad arrivare a un sistema diagnostico accettato da tutti e che fosse non solo attendibile ma anche valido (come vedremo dopo, si può ora dire che questa sfida, che ha comportato un esperimento umano di scala mondiale durato più di trent’anni, sia fallita).
A questo scopo si individuarono, per ogni disturbo, alcuni “criteri diagnostici” al più basso livello di inferenza possibile i quali potessero caratterizzarlo, e questa è infatti la principale caratteristica del manuale. Per capire meglio la logica dei criteri diagnostici occorre però ora parlare della dicotomia politetico/monotetico.
La dicotomia politetico/monotetico
Prima di accennare a questa dicotomia, va precisato che il termine “monotetico” non va confuso con “nomotetico”, termine più noto e che appartiene alla dicotomia nomotetico/idiografico.
Apro quindi una parentesi e spendo due parole per descrivere la dicotomia nomotetico-idiografico perché, anche se non ha niente a che fare con la dicotomia politetico/monotetico, può avere rilevanza con la diagnosi come processo di conoscenza. Secondo la dicotomia nomotetico-idiografico (che è collegata all’altra dicotomia, attribuita a Dilthey, delle “due scienze”, le scienze naturali, Naturwissenschaften, e le scienze dello spirito o scienze umane, Geisteswissenschaften), nell’approccio “nomotetico” noi cataloghiamo i dati secondo leggi (nomos), quindi categorie (le diagnosi sono categorie), all’interno delle quali facciamo rientrare i pazienti; l’approccio “idiografico” invece cerca di non utilizzare leggi universali e uguali per tutti, ma di vedere quello che è specifico di un singolo paziente (idios significa “unico”, “idiosincratico” appunto), cerca cioè di aprirsi alla possibilità di conoscere quello che eventualmente non è incluso in leggi già conosciute perché è possibile che un paziente abbia un aspetto che nessun’altro ha o che non è mai stato visto prima (per cui non disponiamo di leggi in cui farlo rientrare), e allora cerchiamo di avvicinarci a lui a mente libera e senza preconcetti diagnostici, utilizzando magari l’empatia o l’intuizione. Fu soprattutto Gordon Allport che, a metà del XX secolo in America, si fece difensore di questo approccio all’interno del dibattito sulla personologia. Vi è peraltro chi argomenta (ad esempio Holt, 1962) che la dicotomia nomotetico-idiografico oggi possa considerarsi superata in quanto basata su una reazione, in un certo senso “romantica”, a una concezione antiquata della scienza.
Chiudo questa parentesi e torno alla dicotomia politetico/monotetico. La introduzione dei criteri diagnostici prevede che per ogni disturbo mentale venga specificato un numero minimo di criteri la cui presenza è necessaria per la diagnosi (ad esempio 5 criteri su 9), e vengono inoltre precisati criteri sia di inclusione che di esclusione. Dal DSM-III in poi è stato adottato un sistema di tipo non “monotetico” ma “politetico”, in cui i pazienti con una determinata diagnosi hanno in comune alcuni criteri diagnostici tutti però di ugual valore ponderale, cioè senza che uno di essi debba per forza essere presente (quello che conta è il loro numero minimo). Al contrario, nel sistema monotetico uno o più criteri diagnostici devono essere obbligatoriamente presenti per poter fare diagnosi; la polmonite tubercolare, ad esempio, non può essere diagnosticata solo con la febbre, la tosse, un riscontro radiografico, ecc. – che sono criteri diagnostici che posso appartenere anche ad altre malattie – ma necessariamente dal reperto del bacillo di Koch nell’espettorato, senza il quale, secondo un approccio monotetico, non è possibile fare diagnosi (e questo ha ripercussioni sulla terapia, perché possiamo dare l’antibiotico che salva il paziente, mentre se la polmonite era virale, oppure si trattava di un tumore, l’antibiotico è inutile e il paziente può morire). Il fatto che tutti i sintomi sono uguali, questa sorta di “democrazia” nei criteri diagnostici (che sono come dei “bussolotti” intercambiabili di cui deve essere presente un numero minimo), discende necessariamente dall’approccio “ateorico” del manuale, infatti ritenere un criterio più importante di altri potrebbe implicare una teoria sottostante o un legame di causalità, mentre è stata fatta una scelta per così dire di umiltà, di rispetto verso tutte le possibili teorie, di esplicita ignoranza verso la complessità della causa delle malattie mentali e di adesione solo al criterio descrittivo.
Il limite del sistema politetico però è rappresentato dalla eccessiva eterogeneità che esso consente, e che può addirittura vanificare il senso dell’inclusione di due pazienti nella stessa categoria: ad esempio, come osservarono Frances et al. (1990), secondo il DSM-III vi sono ben 93 modi differenti di soddisfare i criteri diagnostici della personalità borderline, mentre due pazienti possono soddisfare i criteri della personalità schizotipica senza avere in comune nemmeno un criterio. Secondo il DSM-III infatti erano necessari solo 4 criteri su 8 per la diagnosi di personalità schizotipica, per cui un paziente poteva soddisfare i primi 4 criteri e un altro gli ultimi 4 ed essere entrambi diagnosticati schizotipici (cioè, in modo sconcertante, neppure a livello descrittivo avevano qualcosa in comune); il DSM-III-R e il DSM-IV hanno eliminato questo inconveniente nell’unico modo che era consentito dal sistema politetico, quello di aggiungere un criterio, cioè richiedendo la presenza di almeno 5 criteri su 9 (quindi innalzando la soglia), per cui almeno un criterio deve essere in comune, e questo esempio rende bene l’idea della filosofia del manuale.
Per comprendere meglio come l’approccio politetico abbia pesanti ripercussioni sul problema della validità, occorre ora accennare alla dicotomia validità/attendibilità.
La dicotomia validità/attendibilità
Il concetto di “validità” (validity) è molto diverso da quello di “attendibilità” (reliability). Esistono molti tipi di validità (ad esempio “di facciata”, “descrittiva”, “di costrutto”, “predittiva”, “di contenuto”, “procedurale”, “concorrente”, “divergente”, “di criterio”, “concettuale”, ecc.); una delle più importanti è la “validità di costrutto” (costruct validity) che rappresenta l’insieme delle prove che supportano un modello teorico utile a spiegare l’eziologia di un disturbo. L’attendibilità (o affidabilità) invece si riferisce meramente al grado con cui operatori diversi concordano sulle diagnosi fatte indipendentemente (cioè alla cieca) l’uno dall’altro sullo stesso paziente (nei test, l’attendibilità si riferisce anche al grado con cui si ottiene lo stesso risultato se il test viene ripetuto, ovviamente se nel frattempo non intervengono fattori che modificano il soggetto studiato); una diagnosi quindi può essere molto attendibile ma sbagliata, cioè non valida. Per fare un esempio, come osservò Feinstein (1985), due osservatori che nel descrivere la pioggia si riferiscano ad essa giudicandola neve, pur essendo tra loro in accordo (manifestando quindi una elevata “inter-attendibilità”), cionondimeno non possono essere considerati dei credibili metereologi. L’attendibilità può essere misurata con un “coefficiente di accordo” (il cosiddetto “indice K”): ad esempio nelle “prove sul campo” (field trials) per il DSM-III è emerso che, mentre questo coefficiente nella schizofrenia era pari a 0.81, era invece abbastanza basso nei disturbi di personalità (cioè nell’Asse II), in cui variava da 0.26 a 0.87 a seconda dei singoli disturbi, con una media dello 0.64 (il che significa che in media solo il 64% dei clinici si erano trovati d’accordo sulle diagnosi date, all’insaputa l’uno dell’altro, agli stessi pazienti). Il DSM-III quindi ha alzato l’attendibilità delle diagnosi, che precedentemente era bassissima, ma non ha modificato la validità delle diagnosi, che restano semplici convenzioni. Come ha ammesso anche lo stesso presidente della Società Mondiale di Psichiatria in un recente convegno, il DSM-III e il DSM-IV non sono riusciti a formulare quasi nessuna diagnosi valida, ma solo ad innalzare un po’ l’attendibilità; prova ne è, ad esempio, l’alta comorbilità che è spesso presente in molte diagnosi, cioè i pazienti possono risultare “positivi” a più diagnosi simultaneamente, e questo è un po’ il “tallone d’Achille” dei DSM.
La dicotomia categorie/dimensioni
Per quanto riguarda invece la dicotomia categorie/dimensioni, il DSM-III e il DSM-IV hanno sposato un modello “categoriale” e non “dimensionale” delle malattie mentali. Secondo il modello categoriale, lo stato di malattia sarebbe qualitativamente diverso e separato dallo stato di non malattia, e ogni disturbo (ogni “categoria” diagnostica) sarebbe nettamente separato e diverso dall’altro. Si formerebbero quindi delle “terre di nessuno” tra una diagnosi e l’altra, in cui possiamo collocare le forme ibride, atipiche o miste – le ben note diagnosi NAS (“non altrimenti specificate”) – che sono un po’ un “cestino dei rifiuti” di tutte le altre diagnosi. In altre parole, le diagnosi che non rientrano in alcuna categoria diventano esse stesse altre categorie, per cui non presentano problemi di catalogazione.
Secondo l’approccio dimensionale invece i disturbi mentali vengono considerati variazioni quantitative relative ad esempio alla personalità, alla cognizione, all’umore, ecc. Già la tradizione ippocratica concepiva un continuum tra la salute e la malattia lungo determinate dimensioni, e fu la rivale scuola platonica a postulare che le malattie potessero essere catalogate in tipi ideali e distinti l’uno dall’altro. Si può dire che il modello dimensionale sia più corretto perché più rispondente alla realtà (la natura è quasi sempre “dimensionale”), mentre il modello categoriale è astratto, concependo le malattie come “prototipi” difficilmente osservabili nella realtà clinica (dei quali però si può misurare la distanza dal caso in esame).
A proposito delle diagnosi come “prototipi ideali” di cui si può misurare la distanza dal paziente reale, va menzionata qui la linea di ricerca di Drew Westen et al. (2012) che hanno appunto proposto, per le diagnosi di personalità, un metodo basato sulla “comparazione con dei prototipi” (prototype matching). Questo approccio è interessante perché la sua “filosofia” è alternativa a quella dei DSM in quanto non si basa sul sistema politetico ma sull’idea che i disturbi di personalità siano delle configurazioni globali (Westen et al., 2012, p. 335), delle gestalt che vanno viste come pattern che non sono scomponibili né possono essere “smontabili” aggiungendo o togliendo uno o più criteri diagnostici (riguardo alla “strategia dello smontaggio” [dismantling strategy], che appartiene alla logica di un certo tipo di ricerca in psicoterapia e – potremmo dire – anche a una filosofia della diagnosi basata sul sistema politetico, vedi Westen, Morrison Novotny & Thompson-Brenner, 2004, pp. 29-31). Questi nuovi prototipi di disturbi di personalità (e di una personalità “sana”) identificati da Westen, alternativi a quelli del DSM-IV, sono stati estratti da un campione di 1.201 pazienti scelti a caso nella popolazione degli Stati Uniti (non necessariamente già diagnosticati nell’Asse II del DSM-IV), ai quali è stata somministrata la Shedler-Westen Assessment Procedure (SWAP), uno strumento di indagine della personalità costruito da Shedler e Westen (vedi Westen, Shedler & Lingiardi, 2003).
Per tornare alla dicotomia categorie/dimensioni, quello che è certo è che il modello categoriale è più pratico (si pensi solo alle esigenze statistiche, oltre che alla comodità per il clinico il quale può facilmente “etichettare” un paziente con una certa diagnosi), mentre quello dimensionale è molto complesso e più adatto per la ricerca (per un panorama sui modelli dimensionali della personalità, vedi Migone, 2008). Inoltre si può argomentare che non tutta la realtà clinica è dimensionale: se è vero che un paziente può essere più o meno depresso o più o meno ansioso, non si può certo dire che una donna sia “più o meno incinta”, ma o è incinta o non lo è, quindi in questo caso si deve adottare una logica categoriale.
Il DSM-5
Veniamo ora al DSM-5. Vi è stata molta attesa sul modo con cui il DSM-5 sarebbe riuscito a migliorare le sorti delle precedenti edizioni. La decisione di iniziare a lavorare al DSM-5 fu presa dall’APA nel 1999, e in sèguito fu nominata una task force guidata da David J. Kupfer (con Darrel A. Regier come vicecapo) costituita da 13 gruppi di lavoro. Il 10 febbraio 2010 l’APA ha ufficialmente pubblicato su Internet – al sito http://www.dsm5.org – una bozza provvisoria del DSM-5, elencando i criteri diagnostici, il loro razionale, i dati di ricerca che li sorreggono, il paragone col DSM-IV, ecc., affinché i ricercatori potessero inviare commenti o suggerire modifiche (questo era possibile entro il 20 aprile 2010, dopo di che il sito è rimasto solo visibile, senza poter più inviare commenti). Una seconda bozza del DSM-5 è uscita ai primi di maggio 2011, con la possibilità di inviare commenti fino al 15 giugno 2011. Il 1 dicembre 2012 il “comitato dei garanti” (board of trustees) dell’APA ha ufficialmente approvato il DSM-5, che è uscito nel maggio 2013, dopo vari rinvii della pubblicazione che era stata già annunciata per il 2011 e il 2012. Tra le varie novità contenute nella prima bozza del DSM-5 vi era l’eliminazione di cinque disturbi di personalità (Paranoide, Schizoide, Narcisistico, Istrionico e Dipendente, che erano stati sostituiti dalla specificazione di tratti di personalità, secondo una logica dimensionale; il Disturbo Narcisistico fu poi reintrodotto perché la sua eliminazione aveva suscitato troppe polemiche), l’accorpamento della Sindrome di Asperger (che è una forma lieve di autismo) all’interno dei “Disturbi dello spettro autistico”, l’introduzione di una “Sindrome da rischio psicotico” (che fu poi ritirata per le polemiche suscitate), l’eliminazione del sistema multiassiale (come abbiamo già detto), l’abbassamento della soglia di molti disturbi (come vedremo è questo uno dei problemi principali), ecc.
Le prime reazioni a questa bozza sono state estremamente critiche, ed è per questo motivo che è stata rimandata la pubblicazione più volte. Tra le tante proteste vanno segnalate le dure reazioni di Robert Spitzer e di Allen Frances, molto autorevoli perché sono stati i capi delle Task Force dei due precedenti DSM, rispettivamente il DSM-III e il DSM-IV (ho fatto pubblicare due loro interventi critici in italiano sul n. 2/2011 di Psicoterapia e Scienze Umane, in una sezione intitolata “Guerre psicologiche: critiche alla preparazione del DSM-5”: Spitzer & Frances, 2011). Si vedano ad esempio alcuni contributi di Allen Frances (2010a, 2010b, 2010c, 2010d, 2010-13, 2013a, 2013b, ecc.), e il dibattito alla televisione americana PBS il 10 febbraio 2010 tra Allen Frances e Alan Schatzberg (allora presidente dell’APA), visibile su Internet (Frances & Schatzberg, 2010), e inoltre la presa di posizione congiunta di alcuni dei più prestigiosi ricercatori, teorici e psicoterapeuti di diverso orientamento (Shedler, Beck, Fonagy, Gabbard, Gunderson, Kernberg, Michels e Westen), di critica alle proposte di revisione dei disturbi di personalità nella bozza del DSM-5, pubblicata sull’American Journal of Psychiatry (Shedler et al., 2010); voci di protesta da parte di esponenti di scuole diverse sono sorte anche dall’Italia (Lingiardi et al., 2011). Vi è stata una tale pioggia di lamentele che l’APA si è vista costretta a nominare una commissione di vigilanza con l’incarico di valutare la qualità delle prove in favore delle proposte del DSM-5 (Spitzer & Frances, 2010).
La letteratura critica sul DSM-5 è ormai sterminata, impossibile da citare interamente (molto utile è il sito Internet curato da una inglese, Suzy Chapman: www.dxrevisionwatch.com/dsm-5; segnalo anche il n. 357/2013 della rivista di filosofia aut aut, dedicato alla diagnosi). Sintetizzo alcune delle critiche. Già Frances aveva amaramente notato come il DSM-IV, di cui aveva guidato la task force, aveva fatto salire alle stelle i dati epidemiologici di diverse malattie, ad esempio quelle di autismo e di Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività (ADHD), e queste “epidemie” avevano favorito una crescente tendenza a far passare molte difficoltà della vita per malattie mentali da trattare con farmaci. I disturbi dell’umore nell’infanzia e nell’adolescenza, ad esempio, erano aumentati di 40 volte, generando una pericolosa impennata di prescrizioni farmacologiche per i bambini, anche di appena 3 anni (a volte vengono prescritti farmaci antipsicotici, ritenuti indicati in certe forme bipolari). Nella bozza del DSM-5 troviamo nuove malattie quali “Disturbo da accumulo”, “Dermatillomania” e, come nuove etichette per i bambini come “Disturbo dirompente da disregolazione dell’umore”, ecc.
Riguardo alla proposta di una nuova diagnosi di “Sindrome da rischio psicotico”, è stato fatto notare che non solo è ingiustificata, ma che avrebbe anche l’effetto di “psichiatrizzare” inutilmente numerose persone per far aumentare la vendita di farmaci antipsicotici. Tra l’altro, gli antipsicotici di ultima generazione (i cosiddetti “atipici”) non solo sono molto costosi, ma inducono obesità e non prevengono veramente l’insorgenza della psicosi, senza contare che i test per predire lo sviluppo futuro di una psicosi non sarebbero attendibili (secondo alcuni autori solo una piccolissima percentuale di giovani diagnosticati come “futuri schizofrenici” svilupperà la malattia). Gli studi sul cosiddetto “rischio psicotico” poi sono stati condotti prevalentemente da un solo gruppo di ricercatori, quello guidato dall’australiano Patrick McGorry, contestato da molti; mi è capitato di vedere una intervista a un giovane “candidato schizofrenico” secondo i test di McGorry e devo dire che sono rimasto molto colpito dal fatto che questo ragazzo mi sembrava affetto da disturbi lievissimi (aveva solo qualche spunto di riferimento sensitivo o poco più), mai avrei detto che potrebbe diventare schizofrenico. Per la verità, la cosa che mi ha colpito ancor di più è il modo con cui era condotta l’intervista: consisteva in una serie di domande a raffica sui possibili sintomi che aveva, senza lasciarlo parlare, praticamente impedendogli di esprimersi, di dire la sua, sembrava un interrogatorio della polizia. Rimasi rabbrividito e pensai che questa intervista andrebbe mostrata agli studenti per imparare come non va fatto un colloquio psichiatrico (ma questo è un altro discorso, riguarda più in generale il modo con cui viene praticata la psichiatria oggi [vedi a questo proposito Migone, 2009a]). Fortunatamente questa nuova diagnosi di “Sindrome da rischio psicotico” fu poi ritirata per le tante critiche ricevute (ma rimane nel manuale in un’altra sezione come diagnosi da sottoporre a ulteriori studi).
Il DSM-5 produrrebbe insomma una esplosione di nuove diagnosi e a una medicalizzazione in massa della normalità che sarebbe una miniera d’oro per l’industria farmaceutica (vedi Carlat, 2000; Moynihan & Cassels, 2005; Whitaker, 2010). Questa tendenza è ben documentata da un importante saggio della prof.ssa Angell (2011) – che insegna ad Harvard e non si può dire sia l’ultima venuta perché tra le altre cose ha diretto quella che viene considerata la più importante rivista medica del mondo (il New England Journal of Medicine) – intitolato “L’epidemia di malattie mentali e le illusioni della psichiatria” (l’ho fatto uscire in italiano nel n. 2/2012 di Psicoterapia e Scienze Umane), in cui traccia un quadro impietoso dello stato attuale della psichiatria e dei pesanti condizionamenti delle case farmaceutiche. È molto istruttivo anche il bel libro di Horwitz & Wakefield (2007) The Loss of Sadness. How Psychiatry Transformed Normal Sorrow into Depressive Disorders (“La perdita della tristezza. Come la psichiatria ha trasformato il normale dolore in un disturbo depressivo”), che mostra l’impoverimento dei significati della vita a causa della “psichiatrizzazione” dei nostri sentimenti quotidiani di tristezza, i quali invece sono a volte adattivi, segnali importanti che non vanno eliminati o curati con farmaci. E non va dimenticato che l’efficacia dei farmaci antidepressivi è limitata, infatti in molti studi si è rivelata non tanto diversa dal placebo (vedi Migone, 2005, 2009b; Kirsch, 2009), e una diffusione del loro uso fa in modo che l’impoverimento dei significati della nostra vita sia inversamente proporzionale all’arricchimento delle case farmaceutiche. Di Wakefield (2010) va segnalato anche l’importante articolo “Patologizzare la normalità: l’incapacità della psichiatria di individuare i falsi positivi nelle diagnosi dei disturbi mentali”, che mostra come il DSM-IV non sia assolutamente riuscito a eliminate le diagnosi “false positive”. Nonostante lo sbandierato rigore scientifico, insomma, gli psichiatri non saprebbero distinguere in maniera rigorosa una malattia dalla normale sofferenza quotidiana. Un aumento di diagnosi farebbe crescere anche lo stigma della malattia mentale, che l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) da anni si sforza di combattere con campagne di sensibilizzazione.
Si può dire che uno dei motivi per cui nel DSM-5 vi è stato un generale abbassamento delle soglie dei disturbi mentali è dovuto anche al fatto che si è cercato di introdurre un approccio dimensionale, e in questo modo marcare una differenza dal DSM-III e dal DSM-IV che erano basati sull’approccio categoriale e che per questo erano stati criticati. Infatti l’approccio dimensionale, che concepisce le malattie come distribuite lungo continuum di determinate variabili (quali ad esempio umore, ansia, ecc.), viene considerato molto più corrispondente alla realtà clinica. Però, nel caso del DSM-5, l’approccio dimensionale è servito, per così dire, un po’ come “cavallo di Troia” col quale si è introdotto il concetto di “spettro”, ed è questo che ha favorito un ampliamento dei confini delle malattie, cioè un abbassamento delle soglie tra “salute” e “malattia”.
Bob Spitzer, capo della task force DSM-III, era ben consapevole di questi problemi e, come si è detto, si è unito a Frances in una campagna di sensibilizzazione contro la bozza del DSM-5. In questa campagna sono state raccolte più di 15.000 firme, e Frances ha fatto conferenze in vari Paesi (io stesso gli ho organizzato in ciclo di conferenze in varie città italiane, una anche per gli abbonati di Psicoterapia e Scienze Umane, vedi Frances, 2011). Spitzer (che tra l’altro è autore della prefazione del libro di Horwitz & Wakefield [2007] sulla “perdita della tristezza”, cui si è accennato prima) ha pubblicamente condannato l’APA per avere obbligato i membri della Task Force del DSM-5 a firmare una promessa scritta di mantenere la riservatezza su quello che stavano facendo (Spitzer, 2011). Va ricordato che vi erano problemi anche col DSM-IV, infatti è stato dimostrato che più della metà degli autori del DSM-IV aveva legami finanziari con l’industria farmaceutica (Cosgrove et al., 2006).
Frances (2010c) aveva fatto anche notare che il progetto dei field trials (le “prove sul campo” per testare la bozza del DSM-5) non solo sarebbe stato enormemente costoso (poteva arrivare ai 2-3 milioni di dollari) perché prevedeva 3.000 soggetti, 3 valutazioni per soggetto, 10 differenti centri, la videoregistrazione del 20% delle interviste, ecc., ma non essendo stati risolti gli importanti problemi a monte (la bassa validità, i falsi positivi, ecc.), e non potendo fare correlazioni col DSM-IV data la diversità della struttura dei manuali, non avrebbe dato risultati importanti e non avrebbe permesso di studiare bene i dati di prevalenza. Inoltre non è stata data alcuna priorità alla armonizzazione del DSM-5 con l’undicesima edizione dell’International Classification of Diseases (ICD-11) dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, previsto per il 2015. Anche il testo del DSM-5 lascia molto a desiderare (non è chiaro, ha un pessimo editing, ecc.), ed è importantissimo il modo con cui è scritto il manuale, dato che sarà utilizzato come punto di riferimento da molti; nell’esperienza fatta da Frances col DSM-IV, la stesura del testo si rivelò uno dei compiti più lunghi e difficili, motivo in più per cui era necessario lavorare meglio anche su questo aspetto.
La psichiatria insomma sta attraversando un momento difficile riguardo alla diagnosi (vedi Decker, 2010, per una riflessione da un punto di vista storico), come è testimoniato anche dal recente “manifesto” di 29 psichiatri inglesi pubblicato sul British Journal of Psychiatry (Bracken et al., 2012) sulla crisi dell’attuale paradigma “tecnologico” della psichiatria, in cui viene sottovalutato il ruolo della relazione interpersonale tra medico e paziente, ridotto al minimo il tempo della visita specialistica, ecc. (ho fatto uscire questo articolo sul n. 1/2013 Psicoterapia e Scienze Umane, perché mostra bene un trend che c’è orami da qualche anno).
Alcuni ricercatori del National Institute of Mental Health (NIMH) degli Stati Uniti (Miller, 2010), dal canto loro, stanno lavorando per rispondere alla crisi dei DSM cavalcando l’estremo opposto dell’approccio descrittivo, cioè per identificare nuovi modi di classificare i disturbi mentali basati su precisi circuiti neurali chiamati Research Domain Criteria (RDoC). Sono già stati identificati cinque di questi “dominii” di funzionamento mentale, e l’ambizione di questo progetto dell’NIMH è quello di correlare questi circuiti neurali alla pratica clinica (rimando a Migone, 2010b, pp. 58-59). Inutile dire quanto sia prematuro e illusorio percorrere questa strada, che renderebbe la psichiatria ancor più tecnologica e in questo senso, anche alla luce dei dati di ricerca riportati da Bracken et al. (2012), meno efficace.
Accenno brevemente ora al disturbo borderline, un disturbo di cui si parla tanto, da decenni ormai, e che ad alcuni è sembrato quasi che possa caratterizzarsi come secondo grande paradigma della psicoterapia, dopo quello dell’isteria che ha caratterizzato la prima fase della storia della psicoanalisi. In realtà lo statuto teorico e clinico del disturbo borderline è quanto mai incerto, e questo è vero sia nella psicoterapia sia nella psichiatria (include ad esempio almeno tre diversi cluster psicopatologici che fanno riferimento, rispettivamente, alla impulsività, all’umore e alla identità). Per fare un esempio, il recente PDM, cioè il Manuale Diagnostico Psicodinamico, proposto dal movimento psicoanalitico nel 2006 (PDM Task Force, 2006; per una presentazione, vedi Migone, 2006) ha deciso di togliere questa categoria diagnostica, rendendo il termine “borderline” solo un indicatore di gravità di tutti i disturbi di personalità (seguendo quindi, in sostanza, l’approccio di Kernberg). Il DSM-5 ha mantenuto la diagnosi di disturbo borderline, ma non è stata una scelta indolore, come mi ha confermato Andrew Skodol, che è capo del gruppo di lavoro sui disturbi di personalità all’interno della task force del DSM-5 e che conosco da tempo (nei primi anni 1980, quando lavoravo negli Stati Uniti, mi aiutò a completare una revisione della letteratura sul DSM-III, che fu la prima a uscire a livello internazionale [Migone, 1983]): Skodol mi ha detto che questa diagnosi avrebbe dovuto essere tolta dal DSM-5, ma lui non ha osato toglierla perché avrebbe rischiato che qualcuno, letteralmente, lo “uccidesse per strada” (troppi infatti sono ormai gli interessi su questa diagnosi, vi sono istituti, fondazioni, tecniche terapeutiche manualizzate, finanziamenti, ricercatori che hanno impostato la loro carriera su questo disturbo). Ne aveva fatto le spese il disturbo istrionico, peraltro molto simile al disturbo borderline ed eliminato dalla prima bozza del DSM-5 (entrambi presentano tentativi di suicidio, instabilità emotiva, ecc.).
Ma le cose non sono finite qui, perché si è combattuta fino all’ultimo una dura battaglia per decidere la sorte dell’Asse II (anzi, dei disturbi di personalità, infatti, come si è detto, il sistema multiassiale purtroppo scompare dal DSM-5). La lotta interna era stata così dura che, ad esempio, nell’aprile 2012 Roel Verheul e John Livesley si sono dimessi dal gruppo di lavoro sui disturbi di personalità per protesta contro le scelte che venivano prese (Verheul e Livesley sono due ricercatori molto prestigiosi, tra l’altro gli unici due non statunitensi di questo gruppo di lavoro) (Frances, 2012a). Ebbene, questa battaglia si è conclusa con una grossa sorpresa: la Commissione di vigilanza dell’APA è intervenuta e ha deciso che il sistema dimensionale nella classificazione dei disturbi di personalità del DSM-5 andava abbandonato (perché troppo complesso e difficile da usare per il clinico) e che bisognava tornare alle vecchie dieci categorie del DSM-IV. Tutti i disturbi di personalità che erano stati eliminati sono stati reintrodotti; la proposta di approccio dimensionale per i disturbi di personalità è stata comunque pubblicata nel DSM-5, ma in una sezione separata, la Sezione III (“Emerging Measures and Models”), e col titolo “Alternative DSM-5 Model for Personality Disorders”, cioè come un “modello alternativo” per i disturbi di personalità. L’abbandono della originaria classificazione dimensionale dei disturbi di personalità mi sembra una ulteriore prova della cattiva conduzione della task force del DSM-5, che ha buttato via molte energie, tempo e denaro senza prevedere che stava facendo scelte che poi avrebbe dovuto ritirare.
Quindi, nonostante tutte queste criticità, e nonostante appaia ovvio che il DSM-5 non era ancora pronto, esso è stato comunque pubblicato nel maggio 2013 (l’edizione italiana è prevista per i primi mesi del 2014 presso l’editore Raffaello Cortina di Milano). Ma dietro alle pompose parole dell’annuncio di Dilip Jeste, attuale presidente dell’APA, è celata una realtà ancor più amara. Come il presidente dell’APA ha confessato ad Allen Frances (2012, comunicazione personale), il manuale non era pronto e la sua pubblicazione in teoria avrebbe dovuto essere ancora posticipata, ma l’APA non poteva permetterselo: vi sono state troppe spese (per il DSM-5 sono stati spesi 25 milioni di dollari, mentre Frances aveva speso “solo” 5 milioni di dollari per il DSM-IV), molti psichiatri americani per protesta si erano dimessi dall’APA per cui sono anche venuti a mancare gli introiti delle loro iscrizioni, si è creato un grosso deficit di bilancio e l’unico modo per evitare la bancarotta era pubblicare il manuale subito e rifarsi con gli enormi introiti che produrrà. Come è successo per le precedenti edizioni, i guadagni ricavati dalla vendita dei diritti del manuale, che verrà tradotto in tutte le lingue del mondo, saranno immensi (non a caso, la bozza del DSM-5 è stata tolta dal sito Internet dell’APA allo scopo di aumentare le vendite).
Per terminare, elenco quelle che secondo Allen Frances (2012d) sono le undici diagnosi del DSM-5 che creeranno maggiori danni:
1) Disturbo di disregolazione dirompente dell’umore: gli scatti di rabbia diventeranno un disturbo mentale, e coloro che ne patiranno di più saranno i bambini ai quali verranno dati dei farmaci. Già negli anni scorsi, come si è detto, avevamo assistito a tre “mode”: il Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività (ADHD) che era aumentato tre volte, l’autismo che era aumentato venti volte, e il disturbo bipolare infantile che era aumentato ben quaranta volte. Questa nuova diagnosi di disregolazione dirompente dell’umore può essere una quarta moda che ci accompagnerà nei prossimi anni.
2) Il normale lutto diventerà Depressione maggiore, facendo prendere farmaci inutili a tante persone che hanno perduto una persona amata e impoverendo i significati della loro vita.
3) Le normali dimenticanze e debolezze cognitive della vecchiaia verranno diagnosticate come Disturbo neurocognitivo minore, creando falsi allarmi e sofferenze in persone che non svilupperanno mai una demenza vera e propria, e anche in quelli che la svilupperanno dato che non vi è terapia per questo “disturbo”.
4) La diagnosi di Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività (ADHD) dell’adulto subirà una ulteriore ascesa, con aumento dell’abuso di stimolanti nel mercato parallelo delle droghe da strada.
5) A causa dell’abbassamento della soglia dei criteri del Binge Eating Disorder (Disturbo da alimentazione incontrollata), abbuffarsi di cibo dodici volte in tre mesi non sarà più segno di golosità o disponibilità di buon cibo, ma di malattia mentale.
6) Contrariamente a quanto si era pensato per il fatto che veniva introdotto il concetto di “spettro”, i diversi criteri diagnostici dell’autismo, per il modo con cui sono stati specificati, abbasseranno i tassi di questo disturbo nella popolazione (del 10% secondo la task force del DSM-5, o del 50% secondo altre fonti). Questo sarà un bene, ma c’è il rischio che vengano tolti a molti bambini gli insegnanti di supporto che nelle fasce deboli sono fondamentali (Frances, 2012b, 2012c).
7) Le persone che abusano per la prima volta di droghe verranno messe nella stessa categoria diagnostica dei tossicodipendenti di lunga data, che hanno diverse necessità, prognosi e uno stigma correlato.
8) L’introduzione del concetto di “dipendenze comportamentali” (le “nuove dipendenze”) potrà subdolamente favorire una cultura secondo la quale tutto quello che ci pace molto diventa un disturbo mentale; occorre stare in guardia dall’uso sconsiderato di diagnosi quali dipendenza da Internet o dal sesso, nonché dai costosi programmi di trattamento che verranno proposti per speculare su questi nuovi “pazienti”.
9) Il confine tra il Disturbo d’ansia generalizzato e la normale ansia quotidiana, che è già poco chiaro, lo sarà ancor meno, col risultato che vi saranno molti nuovi “pazienti” ansiosi i quali prenderanno i farmaci ansiolitici che, come è noto, creano dipendenza e assuefazione, e le case farmaceutiche ci lucreranno perché molti di questi pazienti li assumeranno per tutta la vita.
10) L’abuso della diagnosi di Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD) che già avviene in psichiatria forense aumenterà ancora di più, con effetti facilmente immaginabili.
11) Successivamente Frances (2012e) ha aggiunto una undicesima proposta del DSM-5 che a suo parere è totalmente ingiustificata e che etichetterà molte persone come malate mentali: i Disturbi somatoformi del DSM-IV sono stati rinominati “Disturbi da sintomi somatici” (eliminando le diagnosi di Disturbo da somatizzazione, Ipocondria, Disturbo algico e Disturbo somatoforme indifferenziato), e basterà che una persona con una malattia fisica sia seriamente preoccupata (si pensi a chi è affetto da cancro o altra malattia terminale) per ricadere in questa diagnosi.
Più in generale, si può dire che una delle conseguenze negative del DSM-5 sarà che, a causa dell’abbassamento delle soglie di molte diagnosi, le risorse per il trattamento dei pazienti gravi, che sono già scarse, lo saranno ancora di più perché verranno dirottate per la cura di quella moltitudine di “pazienti” lievi, i quali saranno anche danneggiati dalle nuove diagnosi con cui verranno etichettati.
Il DSM-5, conclude Frances (2012d), per i suoi aspetti iatrogeni indurrà molti medici a violare l’importante giuramento ippocratico cui sono tenuti a ubbidire: primum non nocere (“per prima cosa, non fare del male”).
Paolo Migone
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane (http://www.psicoterapiaescienzeumane.it)
(Via Palestro 14, 43123 Parma, Tel. 0521-960595, E-Mail <migone@unipr.it>)
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6 agosto 2014
Il dott. Migone è una potenza analitica che scrive sempre cose interessanti.
Più umilmente mi chiedo perche si debba dedicare tanto tempo ed attenzione al dsm
un testo ideologico, politico e falsario, che serve semplicemente interessi economici. Che il pensiero libero lo possa liquidare insieme a tutte le migliaia di etichettature in due righe..e magari cercare di guardare oltre… Almeno provarci…