di Chiara Santi
Cari lettori,
il 2013 è stato, fino ad oggi, per l’Osservatorio, un anno complesso e difficile, anche per via di mutamenti importanti dello staff redazionale. Dopo tanto movimento interno, speriamo di essere finalmente approdati ad una fase di nuova vita e riorganizzazione che permetta di garantire, come in passato, la nostra analisi sulla rappresentazione della psicologia nel mondo dei media. Siamo dispiaciuti per il rallentamento dei lavori che è stato inevitabile, ma speriamo vivamente di essere giunti al termine delle complicazioni, anche se certo non della riorganizzazione interna.
Per quanto riguarda i contenuti del nostro lavoro, questo ritorno dalle vacanze è caratterizzato da differenti contributi che ci fanno riflettere, in qualche modo, sull’attuale peso della psicologia nei media e nella società in generale. Infatti, pur riferendosi a temi anche molto differenti fra loro, gli articoli di questa newsletter potrebbero di fondo ricollegarsi ad una stessa tendenza, lampante ai nostri tempi, cioè quella di tentare di soppiantare con sempre maggiore forza la nostra stessa essenza di esseri umani.
Relazioni, emozioni, sentimenti, ansie, dubbi, paure, desideri sembrano ogni giorno di più relegati ad un ruolo secondario, quasi un accessorio inutile e fastidioso del nostro vivere, il quale vorrebbe essere idealmente ricondotto ad un processo che ci obbliga a recitare la parte di comparse rispetto alla tecnologia, al corpo ed ai suoi meccanismi, nonché all’obiettivo primario della competizione, del potere e del successo fini a se stessi.
E’ evidente come, in una società che aumenta in continuazione il ritmo dei suoi lavori e dei suoi progressi, che richiede di essere presenti su molti aspetti contemporaneamente, piuttosto che approfondirne pochi, che fa della velocità e dell’espansione in orizzontale, più che in verticale, i suoi miti, tutto ciò che richiede pensiero, riflessione accurata, tempo e non banalizzazione, viene ad essere visto come un nemico da combattere, un intralcio sulla via del sviluppo che pare richiedere risposte immediate e pronte per l’uso.
L’obiettivo sembra essere una sorta di magico annullamento del differimento della gratificazione su cui dovrebbe fondarsi, invece, un sano senso di realtà e di competenza sociale della vita adulta.
In fondo, è una tendenza che vediamo continuamente nei nostri studi; pazienti che non riescono a concepire terapie che non siano basate sulla risposta miracolosa o immediata al loro bisogno e che richiedano una riflessione su di sé che vada oltre a pochi incontri. Ormai una tendenza che colpisce non più solo le terapie a lungo termine, ma anche quelle a breve termine, se questo non si riduce a “brevissimo”. La crisi economica ha solo accentuato tale inclinazione e talvolta copre altre motivazioni; si giustificano con difficoltà economiche quella che è anche – e che sarebbe comunque persino in presenza di disponibilità di soldi – una difficoltà più generale ad accedere al tempo e allo spazio della presa di consapevolezza e del lavoro, faticoso e non immediato, su di sé.
Naturalmente, non si può non riconoscere l’importanza di ciò che il progresso ci ha portato e di come esso abbia mutato anche in positivo molti aspetti della nostra vita. Ma, come spesso accade, in medio stat virtus, mentre la tendenza degli uomini è, solitamente, quella di passare da un estremo all’altro, senza integrare gli aspetti positivi degli opposti in una visione più ampia e meno dicotomica (per non dire, talvolta, completamente scissa).
La tecnologia, così come le conoscenze medico-organicistiche sempre più vaste, sono aspetti fondamentali e positivi della nostra vita. Tuttavia, l’approccio riduzionistico dato dalla cultura attuale tende ad ipersemplificare la dimensione umana come se le persone fossero pura materia fisica condizionata unicamente da molecole o un hardware fra gli altri con cui scambiare bit in un sistema binario, finendo per destituire della sua essenzialità psicoemotiva l’uomo.
Il rasoio di Occam non è sempre assioma incontestato o, perlomeno, nel caso degli esseri umani le soluzioni più semplici ai problemi devono tenere comunque inevitabilmente conto di una complessità data da un’unità mente-psiche-corpo unica nel suo genere e in tutto l’Universo a noi conosciuto.
Sarebbe, allo stesso modo, ipersemplificazione anche la tendenza a psicologizzare ogni singolo aspetto della nostra vita, dimenticando le altre dimensioni essenziali dell’organismo. Oggi come oggi, però, tranne rari casi, l’orientamento è nella direzione opposta, proprio perché l’aspetto psichico sembra quello più imprevedibile e con combinazioni talmente numerose che prenderlo in considerazione rende tutto più difficile.
E nell’era votata alla rapidità e superficialità, la complessità viene considerata uno dei peccati maggiori, da rimuovere o, appunto, ridurre al minimo indispensabile per annullarne tutta la significatività.
In questo contesto è ovvio che si finisca per gridare al successo se viene inventata un’applicazione in grado di sostituire – così si dice – il terapeuta. Non che non sia, da una prospettiva tecnologica, un risultato strabiliante. Ma dal punto di vista umano si perde tutto il mondo del simbolico, del significato, dell’emozione dell’incontro con l’Altro che è fondante della nostra vita e delle nostre reazioni psichiche – anche quelle tese al nostro miglioramento – e non semplice esercizio di stile. D’altra parte, è noto da molti anni, ormai, che uno degli elementi trasformativi per eccellenza in terapia consiste proprio nella relazione.
Allo stesso modo, un tema complesso come la sessualità, che è così inscindibilmente legata ai rapporti umani, al senso che essi prendono, alla capacità di donarsi e di ricevere, all’espressione e simbolizzazione dei diversi sentimenti (persino quando espresso in forma autoerotica esiste sempre un Altro nella mente cui rapportarsi) viene sempre più ridotto a mera espressione fisica i cui disturbi vanno letti in un’ottica puramente meccanica e di totale isolamento dal mondo relazionale in cui si esprimono e del quale ci dovrebbero, invece, indicare dei significati.
Ancora, non privo di un certo legame con questo tema, persino il nostro dossier sulle novità introdotte dal DSM-5 nella parte in cui si rilevano non solo gli indubbi vantaggi apportati dal celebre manuale, ma anche i limiti che, nel corso degli anni, sono sempre più emersi e, pare, in maniera particolarmente preponderante in quest’ultima versione che da una parte sembra comportare il rischio – in una sorta di inversione paradossale – di patologizzare ansie e preoccupazioni presenti nella normale vita quotidiana (spesso in forme e misure tutto sommato anche adattive, come può essere la depressione temporanea relativa ad un lutto e alla necessità della sua elaborazione), mentre dall’altra si è avvicinato alla possibilità, ad un certo momento della sua stesura, di depatologizzare disfunzioni ormai sempre più pesanti e diffusi nella società, come il disturbo narcisistico di personalità (che è poi stato riammesso nell’ultima fase).
Ci si chiede se anche in questo caso non si possa intravvedere una sorta di deumanizzazione laddove si può considerare normale il narcisismo imperante nella nostra società con la sua tendenza ad oggettivizzare le persone, a considerarle strumenti da utilizzare per i propri fini egoistici e patologico chi reagisce in modo umano ad alcuni eventi dolorosi della vita.
Anche questo, in un certo senso, è togliere il senso fondante dell’essere umano, la sua caratteristica irriducibile, legata a sentimenti e relazioni. Proprio quegli aspetti che svolgono una differenza fondamentale fra una vita insulsa ed una appassionante, il centro stesso della nostra motivazione a vivere.
27 ottobre 2013
Gentile Collega,
non potrei essere più d’accordo su quanto scrivi. Anche io, come te e tanti altri colleghi, mi confronto quotidianamente con pazienti che pretendono di ottenere una risposta magica e immediata a problematiche complesse che richiederebbero invece una dolorosa presa di coscienza ed una fatica soggettiva (e non solo!). Che fare??? Ogni volta afferro il più minuto brandello di autenticità che il mio paziente mi porge e tento di aprirmi un varco in quella solida ma anche fragile facciata di autogiustificazioni intellettualizzate e puerili, assumendomi in prima persona la sofferenza che il mio paziente così pervicacemente rifiuta. Non sempre riesco a fare crollare quel grattacielo costruito sulla sabbia in maniera tale che si possa ricostruire dalle macerie perchè se la responsabilità della cura compete al terapeuta, la responsabilità della guarigione nel nostro lavoro compete al paziente. Se il paziente non vuole guarire dal suo male, c’è poco che il terapeuta possa fare. Come altri colleghi, continuo la mia battaglia quotidiana su tanti fronti diversi tentando in questo modo di riaffermare l’umano.
Buon lavoro anche a te!
Cordialmente,
Chiara
6 novembre 2013
Capisco bene la difficoltà; d’altra parte, penso che uno dei nostri compiti, in quest’epoca, sia proprio quello di non demordere, di portare il senso dell’umano proprio fra quei pazienti che lo stanno perdendo e, perciò, più hanno bisogno. Mentre, a volte, vedo la tendenza del terapeuta a colludere, a seguire strade facili e superficiali. Naturalmemnte non sto parlando di terapie brevi, che sono altrettanto valide ed efficaci, se ben fatte ed applicate alle situazioni giuste, come quelle più lunghe. Né si tratta di differenza fra orientamenti. Si parla, invece, di differenze di visioni, di modi di intendere la professione. Di sentire che noi siamo al servizio del paziente e dobbiamo aiutarlo (anche se non coincide con la sua idea di cosa sia buono e giusto) e non che il paziente serve a noi (economicamednte o psicologicamnente.