Come si cura la sofferenza dell’anima?

SEGNALAZIONE

“Nell’articolo si parla del consulente filosofico come alternativa efficace alla psicoterapia descritta come un percorso oneroso e molto lungo, quindi poco accessibile ai più in un momento di crisi come questo.  Sono riportate le interviste alla psicologa Gianna Schelotto e alla filosofa Roberta De Monticelli, sottolineando nelle parole della psicologa soprattutto la questione dei limiti della psicoterapia, senza tra l’altro neanche accennare al fatto che non tutta la psicoterapia è psicoanalisi con 3-4 sedute a settimana”. Segnalazione firmata

Articolo originale: Donna Moderna, anno XXV n.1, 04/01/2012, pagg. 34-37, autore Mariella Boerci

COMMENTO REDAZIONALE DI EMMA MARIA COMENSOLI

Soffermandoci sui metodi di cura dell’anima, Roberta De Monticelli punta sull’esercizio del dubbio e sulla ragione che “accende la coscienza”. Non si può che concordare su quest’ultima affermazione suggestiva e vera. Restano in essere due perplessità. L’uomo è (anche) il suo neocortex che lo pungola a produrre domande in continuazione: ma quali sono le “buone domande” in una consulenza filosofica? Chi le decide? Lo psicoterapeuta limita al minimo l’esposizione  della sua personale Weltanschauung (Wilhelm Dilthey 1907) e delle sue idee pedagogiche, non propone soluzioni esterne sulla base delle premesse largamente condivise (gli endoxa aristotelici) per lasciare spazio ai significati della persona che gli sta davanti.

E poi, il metodo del dubbio è applicabile allo stesso modo a tutti i funzionamenti psichici? Chi si avvale della pratica clinica, sa che la “pars destruens” di una psicoterapia mette in crisi soprattutto le conoscenze con valenza strategica di adattamento con la frequente conseguenza di indurre nella persona un movimento regressivo delle strutture psichiche (che non avviene esclusivamente in psicoanalisi). Difatti, il lavoro più delicato per la coppia terapeutica s’identifica con la pars construens che ha lo scopo di riabilitare le strutture difensive più evolute e la liberazione delle pieghe mentali sane.

Per Gianna Schelotto, la funzione terapeutica è riassunta genericamente nel concetto di assunzione di responsabilità. Non dice che il dovere di rendere conto dei propri atti è una condizione personale da valutare, che il clinico deve vedere di cosa è capace una persona, quanto spazio di crescita ha e quanto sia cosciente del suo malessere per dar ragione alla cura. Individuare le risorse e le fragilità di un assetto psichico rimanda alla pratica diagnostica: l’assunzione di responsabilità da parte del terapeuta va dichiarata, così come la salute psichica di chi cura è un dato imprescindibile per l’esercizio della professione psicoterapeutica. In altre parole, si sta parlando di relazione terapeutica dentro la quale i rischi e i limiti insiti non mancano, uno fra questi è la rigida semplificazione delle categorie conoscitive in cui s’intrappola l’essere umano. Interessante perché emblematico, è il caso riportato in ”La malpractice” In psicoterapia di Lalli e Giachetti http://www.nicolalalli.it/pdf/confronto/malpractice.pdf.

Gianna Schelotto trasmette alle lettrici una visione frettolosa della psicoterapia. Riconosce i limiti del modello psicoanalitico, per il resto non è decifrabile quale psicoterapia abbia in mente. La “psicoterapia per intenderci”, quella del linguaggio comune, sta assumendo il significato abnorme di un rimedio fatato che tratta in blocco i disagi psicologici universali. Gli specialisti del campo dovrebbero informare il grande pubblico che la psicoterapia in realtà è un insieme di “tecnologie” psicologiche derivate da differenti filoni della scienza teorica, così come la cornice storica e culturale dalla quale hanno preso avvio non ha effetti indifferenti sulla loro efficacia. La filosofia (sui generis) richiede un cambio di prospettiva; essa ricerca la verità con l’evidenza, con un metodo di studio che la garantisca da ogni residuo di natura  psicologica, che consenta una critica radicale del sapere già dato. Non è esattamente così per la psicoterapia; in continuità con un orientamento pragmatico, l’utilizzo di un certo costrutto è sostenuto dal benessere che esso permette di raggiungere nell’ambiente clinico, più che dalla pura veridicità logica. Questo particolare rapporto tra verità logica e verità psicologica di cui tiene gran conto la psicoterapia, che lo voglia o no, è dovuto alla realtà del contenitore Sé dove l’ignoto di sé ha un peso indiscutibile, indipendentemente dalla tecnica d’intervento. Il filosofo che si applica alle scienze umane dà input razionali ai neuroni della corteccia, lo psicoterapeuta tenta (se ci riesce) di agire sui neuroni del “cervello profondo” con le tecniche che competono alla psicologia. Non di meno, è vero che la filosofia da sempre investe sulle ragioni della dimensione più eletta dell’uomo, la ragione; ora sta provando a confrontarsi con la realtà percepita e, se il paradigma scientifico è cambiato, i contributi conoscitivi che potrà dare alle neuroscienze come alla dignità umana saranno rilevanti, basti pensare alla filosofia sperimentale http://www.scuolafilosofica.com/tag/filosofia-sperimentale E come si ricerca l’evidenza empirica di una consulenza filosofica? Premesso che la scienza in senso stretto non ha la presunzione di produrre verità assolute, le evidenze scientifiche come prove di efficacia meritano il primo posto nella giustificazione di una scienza applicata, anche se tendiamo a dimenticarcene perché il campo d’indagine è ostico alla misurazione. I dati utili per rispondere sono esigui, perché è ancora poco fattibile identificare le variabili di una consulenza prettamente filosofica da quella psicologica, in primis la relazione che s’instaura perché (tra le altre cose) ha già un valore di presa in carico nella cultura occidentale. Per un approfondimento si veda il testo di  Lahav, Ran, Comprendere la vita, Milano, Apogeo, 2004. Nel campo della psicoterapia, il risultato di un intervento psicoterapeu tico può essere valutato solo in correlazione al disturbo psichico, alla variazione dei sintomi e del concetto di sé. Ci s’interroga su cosa bisogna validare, se i trattamenti approvati sperimentalmente sono quelli più indicativi, se la misurazione incide sui risultati. Nonostante l’impostazione complessa che richiede, la valutazione del cambiamento messo in atto dalla terapia psicologica non è prescindibile dall’azione ragionata sia essa attuata in campo pubblico che privato. Un approccio “evidence based” è il “Progetto sperimentale di valutazione dell’efficacia pratica degli interventi psicoterapeutici”. http://www.sipsot.it/html/ricercafolder/Orgz/Reitano.html

Le psicoterapie contemporanee hanno ridimensionato la rilevanza clinica del processo diagnostico a favore di un intervento che riconosce alla persona un ruolo attivo nella costruzione dei significati che attribuisce alle proprie esperienze. Dal versante della consulenza filosofica, Roberta De Monticelli afferma che “La filosofia è per tutti: non prescrive ricette, prontuari né valori ma insegna o rieduca a sentire; al sentimento di sé e degli altri”. Vero è che il livello di cultura del richiedente non c’entra, questo dovrebbe essere pacifico: ogni essere umano costruisce una personale visione del mondo che lo facilita nell’interpretazione della realtà. Niente di strano che le persone si trovino nella contingenza di chiarificare la propria visione del mondo in rapporto a valori, significati e attese, specialmente nella società attuale caratterizzata da richieste identitarie contraddittorie. Lo stesso Carl Gustav Jung diede una grande importanza al cambiamento della Weltanschauung. http://it.wikipedia.org/wiki/Consulenza_filosofica

Nell’ambito clinico, i rapporti tra consulenza filosofica e psicoterapie si evincono più dalla loro congruenza al modello integrato del benessere umano che dalle questioni poste da verità e significati. Ognuno, con le proprie competenze, è impegnato giocoforza a provare cosa dice dentro la vita un modello integrato d’intervento. In particolare, la psicoterapia è una presa in carico della persona, la consulenza filosofia è chiarificazione personalizzata delle visioni di vita. Mi sembra di poter dire che la specificità del modus operandi stia nella regolazione della distanza psicoterapeuta/consulente filosofico dal problema. Di là dello scoop giornalistico delle parole “come si cura la sofferenza dell’anima?”, riformulerei così la domanda: oggi, l’utilizzo della ragione all’interno di una relazione umana che si dà il compito di risolvere un malessere psichico, è più efficace se s’inoltra nella profondità del sé o se limita il campo d’analisi a una posizione più periferica?  Nel primo caso gli ampi spazi d’interazione facilitano la risoluzione da parte della persona; nel secondo caso la risoluzione richiede alla persona maggiore abilità nel fare diventare oggetto di collegamento l’interazione ridotta. Questo vorrebbe essere un approccio alla “filosofia della consulenza filosofica”, da non fraintendere con l’ottica riduzionista che contrappone la categoria “superficialità”, associata alla consulenza filosofica, a quella di “profondità”, associata alle psicoterapie.

PARERE DEL PROF. PAOLO MIGONE

Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane (http://www.psicoterapiaescienzeumane.it)  (Via Palestro 14, 43123 Parma, Tel. 0521-960595, E-Mail <migone@unipr.it>)

A mio parere la questione del counseling filosofico contiene molti fraintendimenti, a più livelli, e in questo breve intervento cercherò di metterli in luce, ovviamente dal mio punto di vista.  A volte si legge sui giornali che il counseling filosofico potrebbe essere indicato per coloro che non desiderano terapie prolungate, come potrebbe essere una “psicoanalisi”, ma per quelle persone che possono trarre giovamento da rapporti più brevi o meno “profondi”. A parte il fatto che questo vorrebbe dire svalutare lo stesso counseling filosofico, come se esso non fosse “profondo” ma “superficiale”, questa affermazione è completamente sbagliata perché ignora il fatto che ogni psicoterapia può essere breve, anche brevissima, per cui non è certo questo il modo per differenziare il counseling filosofico dalla psicoterapia. Se poi si vuol fare riferimento alla psicoanalisi, come è noto nel movimento psicoanalitico vi è – fin dalle origini, cioè dal dibattito tra Freud e Ferenczi – una importante tradizione clinica e teorica di terapie brevi (lo stesso Freud faceva “terapie” brevissime, a volte anche di una sola seduta; per un approfondimento sulle terapie brevi, rimando a Migone, 2005, 2010 cap. 3). Recentemente l’efficacia delle terapie psicodinamiche brevi è stata dimostrata anche da ricerche empiriche (vedi ad esempio Leichsenring, Rabung & Leibing, 2004), ricerche peraltro cui non è stato sottoposto il counseling filosofico. Né si può sostenere, come potrebbero fare alcuni, che la psicoterapia serve a “curare” e il counseling filosofico a “conoscere”, recuperando una vecchia dicotomia a mio parere fuorviante, un cliché basato su fraintendimenti (era la psicoanalisi, peraltro, che alcuni – ignorando il concetto freudiano di junktim [Freud, 1927, p. 422] – ritenevano servisse a “conoscere” mentre la “psicoterapia” a curare, per cui da questo punto di vista la terapia psicoanalitica e la pratica del counseling filosofico sarebbero omologhe).

Non è questo quindi il modo di affrontare il problema, e non è il principale fraintendimento legato al rapporto tra counseling filosofico e psicoterapia. Ritengo che quello che andrebbe approfondito è il modo con cui debba essere concepita una differenza tra questi due “oggetti”. Uso volutamente il termine neutro “oggetto” perché per prima cosa occorre definire questi due termini (counseling filosofico e psicoterapia), altrimenti non se ne può parlare né si può identificare una differenza tra di loro. Un errore comune infatti è di parlarne assumendo che tutti sappiano di cosa si stia parlando. Prima di definire il counseling filosofico, chiarisco cosa intendo io qui per psicoterapia, perché questa parola allude a moltissime pratiche diverse, con disparate teorie alle spalle (Migone, 2004). Per fare un esempio, vi sono psicoterapie che assomigliano in tutto e per tutto al cosiddetto counseling filosofico (qualunque cosa esso voglia dire), per cui non si capisce perché dovremmo parlare del counseling filosofico e non di quelle psicoterapie (si pensi alle psicoterapie esistenziali, alla logoterapia di Frankl, o alla posizione di Igor Caruso, e così via). O forse dovremmo parlare del motivo per cui oggi si sente il bisogno di lanciare il nuovo marchio “counseling filosofico” per far riferimento a una pratica già presente nel mercato della salute mentale. In questo senso, si potrebbe fare l’ipotesi che dietro al counseling filosofico non vi sia niente di nuovo o di interessante rispetto alle psicoterapie già esistenti, ma semplicemente una questione di mercato, cioè il tentativo di lanciare un nuovo prodotto per poterlo vendere (o per poter far lavorare una fascia di operatori che non possono definirsi “psicoterapeuti” secondo le leggi degli Stati in cui il “counseling filosofico” ha trovato particolare favore, come peraltro etichette quali coaching e così via). In Italia la Legge 56/1989, che limita l’esercizio della psicoterapia a medici o psicologi che abbiano fatto una scuola riconosciuta post-laura di quattro anni, può aver favorito l’importazione di questi approcci.  Per evitare quindi che queste mie riflessioni sul counseling filosofico si fermino qui, arenandosi su questioni – meno interessanti, o forse più interessanti, dipende dai punti di vista – esterne al dibattito scientifico sulla identità di una pratica terapeutica, occorre, come dicevo, chiarire a quale tipo di psicoterapia si fa riferimento quando si usa questa parola. Io qui farò riferimento alle terapie derivate dalla teoria psicoanalitica, che sono anche tra le più diffuse. E dato che si può argomentare che il termine “terapia psicodinamica” può alludere a pratiche diverse, io qui intenderò una pratica terapeutica che utilizza le caratteristiche centrali della terapia psicodinamica, così come ad esempio vengono definite da Shedler (2010, pp. 10-13) in un recente articolo in cui queste caratteristiche sono state derivate empiricamente e non teoricamente. Dato che poi io considero la terapia psicodinamica una applicazione della psicoanalisi intesa come teoria generale, non farò differenza tra le due (per un approfondimento sul problema della differenza tra psicoanalisi e psicoterapia, rimando a Migone, 1991, 2000, 2010 cap. 4). La domanda allora a cui dovremmo cercare di rispondere è la seguente: che differenza c’è tra il counseling filosofico e la terapia psicoanalitica? Il counseling filosofico rappresenta qualcosa di nuovo o di diverso, e se sì, in che modo esattamente è nuovo o diverso rispetto alla terapia psicoanalitica?

Io ritengo che tutte le variabili teoriche e cliniche considerate dal counseling filosofico siano già incluse nel dibattito psicoanalitico così come si è svolto nel corso di ormai più di un secolo; non solo, ma ritengo anche che sia un grosso errore concettuale contrapporre filosofia e psicoanalisi. Ritenere che filosofia e psicoanalisi siano due “oggetti” diversi, o che siano paragonabili in quanto appartenenti alla stessa categoria logica, implica semplicemente non aver capito cosa sia la psicoanalisi. Infatti, per la psicoanalisi non vi può essere alcuna “cosa” (disciplina, argomento, pensiero, comportamento, ecc.) che possa essere esterna ad essa, ma tutto rientra sotto la sua indagine, tutto è “oggetto di analisi”, proprio come secondo l’approccio scientifico tradizionale che non può certo fermarsi di fronte allo studio di qualunque fenomeno, che viene “ridotto” e trattato col suo metodo di studio.

Per farmi capire meglio, faccio degli esempi. Dire che un terapeuta (o meglio, un counselor filosofico) affronta i problemi di un paziente in termini filosofici (cioè utilizza parole della filosofia, considera temi della filosofia o di certi filosofi, parla della vita, della morte, del tempo, ecc.), può significare cose molto diverse agli occhi dello psicoanalista, cioè non necessariamente questi discorsi hanno il loro valore “di facciata” o il significato che un filosofo potrebbe attribuirgli. Uno psicoanalista potrebbe fare l’ipotesi che il counselor filosofico con questi discorsi mette in atto una intellettualizzazione allo scopo di non entrare in contatto con certi temi dolorosi, forse per paure controtransferali (es. evitare qualcosa che cerca di dirgli il paziente) oppure per paure transferali (es. il paziente ha bisogno di intellettualizzare difensivamente e il terapeuta collude con lui), e così via (entrambe queste operazioni possono essere consce o inconsce). Il counselor filosofico potrebbe insomma respingere il paziente, impedirgli di capire, di raggiungere la “verità”, quindi all’opposto, tra l’altro, di quelli che vorrebbero essere gli scopi della filosofia. Certo, potrebbe anche parlare di cose vere e importanti della vita, fare delle riflessioni “filosofiche” sul senso dell’esistenza, ampliare i suoi significati, ma questo avviene già in qualunque psicoterapia, non c’è bisogno di scomodare il counseling filosofico. Volendo usare i termini psicoanalitici, quando non sono intellettualizzazioni o razionalizzazioni difensive potrebbero essere riflessioni da parte dell’Io conscio, e non va dimenticato che la riflessione, come funzione dell’Io, è parte essenziale del lavoro analitico. Forse che il counselor filosofico vuole “educare” il paziente a sopportare la sofferenza grazie a certe riflessioni sul senso della vita e sulla sua inevitabile finitezza? Questo va benissimo ma, ripeto, lo fa già ogni analista quando fa riflettere un paziente. Ogni psicoterapeuta è anche un “filosofo” in questo senso, non può non esserlo, altrimenti non potrebbe neppure parlare o pensare. Non solo, ma ogni psicoterapeuta è anche un filosofo perché non può non porsi continuamente tutti i problemi cosiddetti filosofici, avendo a che fare con tematiche estremamente complesse e delicate che riguardano il significato più profondo della vita dei pazienti.

Concepire la filosofia come qualcosa di esterno alla psicoanalisi significa non conoscere la psicoanalisi, e ricorda altri fraintendimenti simili di cui a volte si sente parlare, ad esempio sul rapporto tra psicoanalisi e religione, meditazione, buddismo, ecc. (il buddismo, tra l’altro, può essere considerato una filosofia). A volte si sente dire che la religione potrebbe fare bene a un certo paziente, come se fosse una “cosa”, uno “strumento in più” da utilizzare. La religione cioè da questi colleghi viene intesa come un elemento che può essere aggiunto o tolto, una sorta di “pacchetto” autonomo che esiste in quanto tale, col suo valore di facciata, con un suo significato non scomponibile, non analizzabile. È evidente che questo modo di ragionare è specificamente antipsicoanalitico perché esclude dall’analisi un aspetto (in questo caso la religione) come se esistesse in quanto tale (come è noto, Freud applicava la psicoanalisi allo studio della religione, della morale, dell’antropologia, della società, ecc.). La stessa cosa per il buddismo. Quegli psicoanalisti che dicono di “integrare” psicoanalisi e buddismo non sanno cosa è la psicoanalisi, ovviamente a mio parere, perché prendono il buddismo in quanto tale, senza interpretarlo con categorie psicoanalitiche (per un approfondimento sul problema della “traduzione” di aspetti delle filosofie orientali nella psicoterapia occidentale, rimando a Migone, 2008, pp. 45-48).

Certamente la terapia psicoanalitica è alla pari con le altre “professioni di aiuto” se vogliamo compiere delle ricerche empiriche sull’efficacia dei diversi approcci terapeutici, però allora dovremmo passare attraverso le forche caudine della metodologia della ricerca in psicoterapia, cioè manualizzare le singole tecniche, selezionare campioni randomizzati e omogenei di pazienti, simulare sperimentazioni al doppio cieco e così via, con difficoltà e problemi anche epistemologici non irrilevanti (per brevità, rimando a Migone, 1996, 2006, 2009; Westen, Morrison Novotny & Thompson-Brenner, 2004; Wachtel, 2010). Dato che nella nostra società le professioni di aiuto sono le più varie, in alcune ricerche, come nel noto studio di Consumer Reports (Seligman, 1995), vengono incluse le prestazioni dei clergy, cioè dei sacerdoti, che in effetti possono essere considerati importanti “psicoterapeuti”. Viene in mente il libro di Giambattista Torellò (1961) É meglio il confessore o lo psicanalista?, molto indicativo al riguardo. E che dire dell’aiuto che danno a tante persone quei validi professionisti come i pedagogisti clinici, i counselor non filosofici, i coach, e così via in una serie infinita di operatori, a volte bravissimi, che dai medici e dagli psicologi arrivano fino ai chiromanti o ai maghi? Tutti, chi più chi meno, abbiamo bisogno di “badanti”. La vita è stressante, e le professioni di aiuto sono così tante che a volte – come si espresse in modo divertente Galli (2007) – sembra che “di fatto siamo diventati una società di badanti, cioè nessuno può più affrontare un problema da solo. (…) Le badanti di basso livello cercano di arrangiarsi, mentre quelle di alto livello si chiamano coach, (…) chi era ai vertici aveva diritto alla moquette, a un quadro d’autore a sua scelta ecc., ora ha diritto a un coach ad alto livello che l’accompagna nelle decisioni, perché dovendone prendere cento non può elaborare le emozioni connesse a questa scelta decisionale. C’è il coach per questo. Ma ovviamente a loro volta i coach, i counselor, gli psicoterapeuti, ecc. ecc. devono accettare una badante loro stessi per riciclare le emozioni, per cui siamo in una società di badanti e di badati. Sembra che la Moldavia sia trasferita in Italia (…)”.

Potrebbe però esservi un altro modo di intendere il counseling filosofico, quello secondo cui il counselor filosofico avrebbe una filosofia di base e una visione del mondo diverse da quella della psicoanalisi (o degli approcci psicoanalitici). Ma sappiamo che nella storia della filosofia vi sono stati moltissimi filosofi, le cui filosofie spesso sono state le une opposte alle altre. Quindi quale “filosofia” caratterizza il counseling filosofico? Se non la specifichiamo, il counseling filosofico perde di significato (intendo dire che perde la sua identità teorica come pratica di aiuto, non mi riferisco alla sua identità come prodotto di mercato, dove può funzionare benissimo perché vi sono altre regole).

Mi sembra che questa concezione secondo cui il counseling filosofico avrebbe una filosofia di base diversa da quella della psicoanalisi sia sposata da un sostenitore molto influente del counseling filosofico, Umberto Galimberti. Una volta fui invitato a Radio RAI-2 a un dibattito con lui, ed ebbi modo di discutere di questi problemi (Galimberti & Migone, 2005). Rimasi colpito da una affermazione di Galimberti che, in modo molto schematico e come la capii, può essere riassunta nel modo seguente:

“Due importanti mali hanno afflitto l’umanità: il cristianesimo e la psicoanalisi. Entrambi promettono all’uomo la salvezza: il cristianesimo promette la redenzione, la resurrezione, la vita dopo la morte; la psicoanalisi promette la guarigione, che è anche questa una sorta di redenzione, di annullamento del dolore. In questo senso la psicoanalisi, nella misura in cui promette di guarire il dolore, può essere una continuazione della tradizione giudaico-cristiana, sarebbe insomma anch’essa una religione, che fornisce un’altra illusione, quella di evitare il dolore. Per la filosofia greca invece non è così, perché la morte fa parte della vita, non si promette di eliminare il dolore, che va invece accettato. La filosofia greca allora sarebbe più ‘terapeutica’ della psicoanalisi, la quale dovrebbe quindi cedere il posto alla pratica filosofica”.

Come dissi a Galimberti in quella trasmissione, io non penso che sia corretto dipingere la psicoanalisi in questo modo, cioè come una promessa di guarigione. Vi sono molti passaggi, sia in Freud che in autori successivi, che mostrano come l’obiettivo della psicoanalisi ricordi proprio la filosofia greca così come è descritta da Galimberti. In quella occasione ad esempio ricordai uno di questi passaggi, spesso citato (Galimberti ammise che non lo conosceva): lo scopo della psicoanalisi non sarebbe quello di promettere salvezza o guarigione, ma quello di «trasformare la (…) miseria isterica in una infelicità comune» (Breuer & Freud, 1892-95, p. 439).

La psicoanalisi quindi promette solo di trasformare la miseria nevrotica in miseria quotidiana, non illude certo il paziente, anzi, il compito specifico della psicoanalisi è quello di disilluderlo, di analizzare le illusioni che continuamente si costruisce a scopo difensivo per non vedere la tragicità della vita. L’uomo spesso nega la morte e la sofferenza in vari modi, e lo psicoanalista aiuta il paziente a fare a meno di queste difese, ad accettare la vita per quello che è, proprio come la filosofia greca che Galimberti contrapponeva alla psicoanalisi. Quello dello psicoanalista è il “mestiere dell’incertezza” (Galli, 2009), la professione del dubbio continuo, della perenne critica a se stessi e al reale (La psicoanalisi come esercizio critico, recitava il titolo di un libro di Jervis, 1989). Ma non mi dilungo su queste cose perché sono note a tutti, costituendo la identità della psicoanalisi, ed è per questo che non comprendo la contrapposizione che vedeva Galimberti tra psicoanalisi e counseling filosofico.

A me sembra anche che il counseling filosofico presenti il rischio di semplificare la complessità dei significati dell’esistenza perché, come del resto le psicoterapie fenomenologiche, può ridurre le variabili in gioco, ad esempio dando meno importanza a quelle inconsce che sono invece ritenute importanti dalle terapie psicodinamiche. Tempo fa mi è capitato di vedere un numero speciale di una importante rivista di filosofia (aut aut, n. 332/2006), dedicato al counseling filosofico, in cui erano descritti anche dei casi clinici, e rimasi colpito – ovviamente questa è stata solo la mia reazione soggettiva – dalla semplicità in cui venivano descritti, come se il counselor filosofico che li esponeva (di cui adesso non ricordo il nome) non avesse sufficiente esperienza o riducesse troppo le questioni a tematiche meramente “filosofiche”. Mi rendo conto che questo sembra paradossale, perché la filosofia per definizione dovrebbe indagare nelle profondità della vita, ma questa fu l’impressione che ne ricavai. Ricordo che in un articolo veniva anche fatta una sorta di ricerca sul numero e tipo di pazienti visti in un servizio di consulenza filosofica di quartiere, e anche lì ebbi una impressione di eccessiva semplicità, quasi di ingenuità, come se si volessero imitare in negativo i difetti di certe ricerche empirico-quantitative in psicoterapia.

Queste ultime osservazioni mi portano a una questione che, per concludere, mi sembra la più importante, anzi l’unica degna di un certo interesse. Se è vero, come io penso, che il counseling filosofico non sia altro che una psicoterapia tra le tante, il vero problema è come vengono formati i counselor filosofici: con quali metodi, in quanto tempo, che possibilità hanno di essere esposti a stimoli culturali provenienti da altri approcci psicoterapeutici, che possibilità hanno di vedere un alto numero pazienti, anche con patologie gravi, che preparazione ed esperienza hanno i loro supervisori, quali testi leggono, ecc. (Galimberti, ad esempio, è membro ordinario di una società junghiana, quindi è “psicoterapeuta” a tutti gli effetti). Io qui non discuto la loro legittimità di trattare persone con problemi psicologici, perché questo aspetto riguarda gli organi legislativi che regolamentano le professioni, gli Ordini professionali che per la loro natura di corporazioni cercano di salvaguardare gli interessi anche economici dei loro iscritti. Per quanto mi riguarda, ben vengano altre professioni che possono aumentare la competizione sul mercato, anche perché è possibilissimo che certi counselor filosofici siano ben più capaci di tanti psichiatri o psicologi, così come può essere vero il contrario. In passato gli psicologi rappresentavano una minaccia per i medici perché potevano conquistare una fetta del mercato della psicoterapia che i medici volevano tenere tutta per sé (per una documentazione della causa legale avvenuta negli Stati Uniti, vedi Migone, 1987, 2010 cap. 15); ora gli psicologi hanno lo stesso timore nei confronti di altre professioni di aiuto, come i pedagogisti clinici, i coach, i mediatori familiari, i counselor, i counselor filosofici, ecc.; magari in futuro i counselor filosofici dovranno difendersi da altre professioni a loro volta competitive (al limite anche con azioni legali, come ora tentano di fare – non raramente perdendo le cause – gli Ordini dei medici e degli psicologi nei confronti di chi pratica la psicoterapia chiamandola con un altro nome). Quello che mi premeva sottolineare in queste mie brevi riflessioni è l’importanza della formazione di questi operatori, perché è ovvio che il counseling filosofico è un tipo di psicoterapia.

Bibliografia

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Galli P.F. (2009). L’identità terapeutica nel regno dell’incertezza. Psicoterapia e Scienze Umane, XLIII, 1: 47-58 (Una versione di questo articolo è stata letta come relazione di apertura del 10th Anniversary Joint Meeting della American Academy of Psychoanalysis and Dynamic Psychiatry [AAPDP] e della Organizzazione di Psicoanalisti Italiani – Federazione e Registro [OPIFER], Milano, 25-26 ottobre 2008).

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Leichsenring F., Rabung S. & Leibing E. (2004). The efficacy of short-term psychodynamic psychotherapy in specific psychiatric disorders. A meta-analysis. Archives of General Psychiatry, 61: 1208-1216.

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Chiara Santi

Author: Chiara Santi

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