di Chiara Santi
E’ un buon rientro dalle vacanze quello della psicologia italiana. Dopo il recente successo della sentenza definitiva 14408/2011, ottenuta dall’Ordine degli psicologi dell’Emilia Romagna, che riconosceva la psicoanalisi come forma di psicoterapia (chiudendo quindi in futuro la possibilità di appellarsi al termine “psicoanalisi”, non ricompreso nella 56/89, per esercitare abusivamente l’attività di psicoterapeuta), settembre si apre con un incontestabile trionfo dell’Ordine degli psicologi della Lombardia, grazie alla sentenza 10289/2011, in merito all’annosa questione della piena applicabilità dell’art. 21 del nostro codice deontologico.
Ironia della sorte, ai sostenitori del libero insegnamento (che, portato ai suoi estremi, ci ricorda un po’ l’indimenticabile gag di Corrado Guzzanti sulla Casa delle Libertà: “facciamo un po’ come c…o ci pare!”), i quali avevano sempre opposto l’art. 33 della Costituzione come baluardo contro le possibili sanzioni derivanti dall’applicazione dell’art. 21, è stato risposto, fra gli altri e numerosi rilievi, proprio con la stessa norma da loro così spesso invocata: “Questa necessaria riconduzione degli “atti tipici” della professione dello psicologo ad atti concreti di prestazione, rende ragione dei limiti dell’insegnamento (come tale libero in quanto manifestazione del pensiero) dell’uso degli strumenti di conoscenza necessari a rendere le sopra identificate prestazioni, volte a soddisfare bisogni collettivi rilevanti per l’interesse generale della comunità, a garanzia della capacità tecniche e morali occorrenti per il retto esercizio della professione anche ai fini dell’”abilitazione” di cui all’art.33 della Costituzione: è incontrovertibile che eventuali compromissioni del diritto all’insegnamento possono essere normativamente determinate per superiori esigenze costituzionali quali quelle di tutela della salute pubblica, in un settore di pregnante rilievo emotivo in continua evoluzione, con l’esigenza connessa di prevedere meccanismi che consentano una costante verifica delle metodiche validate dalla comunità scientifica in un dato momento storico”.
D’altra parte, una delle ambiguità su cui erano sempre state basate le opinioni dei formatori di counselor, era che insegnare aspetti psicologici ad altri professionisti (spesso il counselor svolge già un altro impiego che desidera arricchire con alcuni nuovi compiti e competenze o affiancare ad una vera e propria nuova attività) ha l’indubbia utilità di far loro svolgere al meglio il proprio lavoro, quando questo entra in contatto con sofferenza o aspetti psichici. Su tale affermazione non possiamo che concordare e nessuno, nella nostra categoria, ha mai sostenuto il contrario. Elementi di teoria psicologica possono sempre essere utili ad insegnanti, medici, educatori, infermieri, ecc. Il problema, ovviamente, nasce quando da elementi teorici si passa a strumenti operativi veri e propri che, per essere maneggiati adeguatamente e con cognizione di causa, richiedono una formazione lunga ed adeguata. Avere conoscenze “spot” su come somministrare un test, condurre un colloquio o effettuare una diagnosi senza possedere l’adeguato background di conoscenze psicologiche su cui vanno ad innestarsi questi singoli interventi, rischia veramente di arrecare danno in un campo molto delicato come quello della salute psichica. Questo concetto, fra l’altro, non sfugge al giudice quando sostiene che “siffatta prospettazione si fonda sull’ambigua distinzione tra l’insegnamento della conoscenza e l’insegnamento dell’uso degli strumenti, per sostenere strumentalmente la legittimità della prima (la conoscenza) onde derivarne la legittimità anche del secondo (l’uso)”.
Altro convincimento – che da sempre gli oppositori di tali corsi sostengono – assolutamente confermato dal Giudice è che non solo non sia corretto insegnare strumenti tipici della professione a chi non ne fa parte, ma che questo equivarrebbe addirittura all’istigazione ad un reato: “deve convenirsi con la difesa del resistente che l’insegnamento dell’uso degli strumenti a persone estranee equivale in tutto e per tutto a facilitare l’esercizio abusivo della professione”. Il Giudice, fra l’altro, non si limita a sottolineare la scorrettezza di tale operazione, ma definisce la gravità particolare della stessa, trattandosi di un ambito che “richiede, se possibile, una sensibilità ancora maggiore trattandosi della personalità di ciascun individuo e la necessità di un lavoro di ristrutturazione dell’intimo e di riorganizzazione del sistema cognitivo-emotivo”.
L’importanza particolare che riveste questa sentenza, rispetto ad altre precedenti e pur importanti che si muovevano in qualche modo già in questa direzione, è la scrupolosa attenzione che il Giudice ha riservato alla questione, analizzando estesamente tutte le sfaccettature del problema, dimostrando una piena conoscenza dell’ambito di lavoro dello psicologo, della sua delicatezza, nonché della netta differenza (chiarissima per noi, ma da non dare affatto per scontata in coloro che non sono addentro alla professione) che esiste fra conoscenza teorica ed applicazione operativa di tecniche. Siamo perfettamente consapevoli dell’attuale provvisorietà di tali enunciazioni e delle possibilità di fare ricorso contro questa decisione che potrebbe portare a modifiche della stessa nei successivi gradi di giudizio. Tuttavia, la precisione con cui è stato analizzato il problema e la chiara espressione delle motivazioni che hanno portato alla sentenza rende piuttosto difficile immaginare che essa potrebbe essere totalmente ribaltata in appello. Difficile, insomma, distruggere la ferrea logica che ha portato a tali conclusioni.
Mi preme sottolineare come il motivo di esultanza per tale risultato non risieda in un banale corporativismo, in una vittoria di lobby. Si tratta di qualcosa di molto più importante ed eticamente rilevante e, cioè, di ridare alle persone il loro diritto, in ambito di salute, di essere curati con competenza e conoscenze adeguate; consiste anche, in definitiva, nel ribadire la delicatezza della sfera psichica, la cui comprensione è troppo complessa per essere costretta in qualche centinaio di ore di formazione e sdoganata in pillole alla Bignami maniera. Viene riaffermata, quindi, l’importanza della tutela dell’utente, insieme al riconoscimento dell’assoluta rilevanza della nostra disciplina e della necessità che essa venga condotta con mezzi e formazione adatti.
Non significa riconoscere tout court un primato ai colleghi dato dal possesso di un “semplice” pezzo di carta; sappiamo bene come non sia sufficiente la laurea, il tirocinio e l’iscrizione all’Albo per fare di una persona un professionista competente. Ma se non è condizione sufficiente, è decisamente necessaria per garantire un minimo di basi su cui il sapere tecnico-procedurale deve andare ad inserirsi.
Sembrerebbe ovvio; eppure, in un mondo sempre più basato su superficialità della conoscenza, velocità e mancanza di senso del limite, occorrono sentenze per ribadirlo.
26 settembre 2011
MI congratulo innanzitutto con Chiara Santi per la chiarezza e capacità di sintesi dell’editoriale. La mia obiezione è inclusa nel titolo stesso “dare allo psicologo quello che è lo psicologo” che richiama ovviamente una frase evangelica che invia a “dare a Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare”. Utilizzando questa analogia, in questo caso, a chi dover dare l’altra parte? credo proprio alle “discipline affini”, primo fra tutte il counseling. infatti:
1. se non vi dubbio alcuno che il percorso formativo come specializzazione post-laurea sia il più adeguato alla delicatezza della professione, è pur vero che
1.1 sino alla pubblicazione della legge 56/89 anche altre figure professionali potevano accadere a questa formazione. Che destino possono avere le persone motivate a dedicarsi alla relazione di aiuto pur in assenza di una laurea in psicologia o medicina?
1.2 la Dichiarazione di Strasburgo, alla base della Associazione Europea di Psicoterapia, non mette questo vincolo, come del resto avviene tuttora in moti paesi “civili” dell’Europa e del mondo.
1.3 importante, per tale impostazione normativa, non è tanto il prerequisito del “titolo in premessa”, quanto che il percorso formativo nella psicoterapia abbia gli ingredienti necessari, primo fra tutti quella “personal experience”, quel lavoro “su di sè” che la legge italiana ancora non prevede e che caratterizza in modo assolutamente specifico una formazione che nno si risolva in mera “informazione”. Requisito, questo, che è presente in genere in corsi di counseling e non nella formazione dello psicologo in molti orientamenti nella psicoterapia
2. il mondo civile va nella direzione di una diversificazione e specializzazione delle professioni (il coaching è diverso dal counsleing, ad esempio) ed entrambi hanno la loro collocazione in una società diversificata e che chiede interventi mirati su esigenze più specifiche e con strumenti adeguati a questa stessa specificità della domanda. Il resto, come si voglia definire, è comunque protezionismo che indica la debolezza di una professione che non riesce a proporsi in modo efficace e competitivo anche in ambiti così essenziali come la psicologia scolastica (inutile prendersela con gli insegnanti impegnati negli sportelli di counseling, quando in Italia non si riesce a garantire la presenza dello psicologo nella scuola) e nell’ambito sanitario (dialisi, infertilità, trapianti, terminali etc.).
3. anzichè sentirsi minacciati dai counselors (solo una ristretta minoranza di coloro che terminano un corso di formazione segue dei casi) gli psicologi farebbero bene ad alzare il tiro nella difesa della professione contrastando, ad esempio, il fatto che a seguito di specializzazioni in psichiatria (dove drammaticamente sempre più spesso si imparare solo ad usare farmaci), neuropsichiatria infantile o psicologia clinica, venga consentita l’immissione nell’elenco degli psicoterapeuti anche in assenza di qualunque formazione specifica per non parlare del “lavoro personale”. Privilegio, questo, che in altri paesi non è consentito.
4. esistono ingegneri civili, architetti e geometri. In analogia: psichiatri, psicoterapeuti (non dico psicologi, perchè gli attuali ordinamenti di facoltà non danno strumenti di gestione della “relazione terapeutica” che non può darsi per “implicita” alla formazione teorica)e … counslors (o come voglia chiamarsi una attività professionale “intermedia” tra lo psicoterapeuta e … la “pacca sulla spalla”). Negare l’esigenza di questa professione intermedia significa negare la realtà. La stessa emergerà comunque, se non in questa, sotto altre forme solo cambiando di nome. Con grande soddisfazione di legali che avranno agio ad azzeccare sempre nuovi garbugli
5. quello che manca, semmai, è una definizione degli “atti tipici” della professione che, se violati, legittimano la difesa da parte degli ordini professionali. Si da il caso che l’Ordine degli psicologi, a 22 anni dalla pubblicazione della Legge, non li abbia ancora definiti.
Come incriminare di violazione di atti tipici se gli stessi non sono stati ancora stabiliti? la cosa sconcertante è che, come conclude la legge citata (10289/2011) “Al riguardo non può essere contestato che la difesa della qualità della professione degli psicologi si basa anche sul fatto che non deve essere divulgato l’uso degli strumenti conoscitivi e cioè i test psicologici concretamente somministrati per non pregiudicarne la validità: il che costituisce il nucleo essenziale delle delibere impugnate, in conformità alla prescrizione del codice deontologico”.
Ma … “ci consenta signor Giudice chi insegna mai i “test psicologici” ai counselors?”
Grazie per accettare un commento da un non-psicologo cosa che in genere altri siti non consentono impedendo un vero confronto di idee.
Riccardo Zerbetto
psichiatra e psicoterapeuta
Direttore del Centro Studi di Terapia della Gestalt
già presidente della European Association for Psychotherapy
26 settembre 2011
@Riccardo Zerbetto,
Gentile dott. Zerbetto,
E evidente che le nostre idee su come deve venire impostata una professione divergono alquanto. Ben venga, visto che il confronto e la discussione sono sempre il motore della crescita. Trovo però complesso ribattere punto per punto, non perché non sia interessante la discussione, ma perché partiamo da premesse di base totalmente opposte. Ad esempio, dove lei non vede una via intermedia fra la pacca sulla spalla e la psicoterapia, io ci vedo esattamente il lavoro dello psicologo (anche se definirlo “una via di mezzo” non è il termine migliore, ma era giusto per capirci rimanendo sugli stessi termini usati da lei).
Allo stesso modo, parlare di protezionismo in merito a professioni tanto delicate e di rilievo per i suoi possibili effetti, non lo trovo molto corretto. Dovremmo allo stesso modo parlare di protezionismo, in termini negativi, ogni volta che un Ordine dei medici riporta una vittoria per esercizio abusivo della professione o, allo stesso modo, per altri Ordini. Personalmente, io preferisco ancora essere operato da un chirurgo o da un dentista appositamente formato che non da qualcuno che decide di fare un corso che rappresenti, nella migliore delle ipotesi, una versione sintetica di altri iter ufficiali e completi.
Ancora, ritengo fuorviante associare Paesi diversi con politiche e modalità formative completamente differenti per sostenere che da altre parti esiste il counselling. Vede, se io vivessi in Gran Bretagna, con un sistema formativo diverso dal nostro e, diciamocelo, una serietà generale maggiore che in Italia, probabilmente non avrei nulla da ridire sul sistema accreditatorio in vigore da loro che permette una suddivisione delle professioni sanitarie differente rispetto alla nostra. Ma siamo in Italia e io ritengo che la cultura e le usanze della società che ci circonda debbano sempre e comunque essere tenute in considerazione, quando si vuole fare un’analisi complessa delle situazioni.
Infine, per quanto mi renda conto di essere decisamente démodé, considerate le attuali mode del nostro italico paese, io credo ancora che, se esistono delle leggi, bene o male sarebbe carino osservarle. Se qualcosa non mi va bene e rappresento un gruppo più o meno ampio di persone, proverò al limite a modificare le cose seguendo strade permesse e non ad aggirare la legge perché io la ritengo sbagliata. Concordo, quindi, sul fatto che i rappresentanti nazionali della mia professione dovrebbero muoversi il più possibile per affermare anche attraverso la strada legislativa la figura dello psicologo nella scuola o in altri contesti, laddove questa presenza possa migliorare lo stato di cose esistenti. Ma non mi sognerei mai, tanto per usare un esempio estremo (mi piace sempre eccedere negli esempi, gli estremi secondo me chiariscono meglio i concetti) di ricattare dei dirigenti scolastici per far sì che mi diano un posto da psicologo ufficiale nella loro scuola. Ad esempio, proprio per citare un punto che ha evidenziato nella sua replica, gli psicologi sono alla fine arrivati ad avere una legge che sancisse la nascita ufficiale della loro professione e la sua definizione, mettendo così fine alla confusione precedente. insomma, si sono mossi per strade ufficiali ed evidentemente una qualche ragione ce l’avevano, se alla fine è stata creata la 56/89.
Sugli atti tipici: credo che sarebbe utile avere alcune definizioni di atti tipici dello psicologo, anche se sempre più, attraverso varie sentenze, si stanno formando delle indicazioni in giurisprudenza. Il mio desiderio di definizione, però, è legato proprio al fatto che si eviterebbe una confusione che alcuni, a volte, gonfiano ad arte, per comodità, perché in realtà, per buona parte delle nostre funzioni, non è così difficile comprendere cosa attiene ad uno psicologo e non ad altri, esattamente come ci è chiaro per il medico. Ad esempio, esiste una qualche legge che esprima, in modo preciso e dettagliato, molto più di quanto sia presente nella nostra 56/89, quali siano gli atti tipici del medico? A me pare di no e che questi siano stati, di volta, in volta, esplicitati e chiariti nelle varie sentenze, solitamente in relazione proprio agli esercizi abusivi. esattamente come sta accadendo per gli psicologi. Di conseguenza, non si vede perché si debba dare per scontato che cosa sia squisitamente medico, mentre sulla professione psicologica dobbiamo andare avanti infinitamente a disquisire di cosa sia o non sia psicologico e se non c’è scritto in una specifica legge, allora nessuno può dirlo.
Sono assolutamente convinta del fatto che un buon professionista non si formi esclusivamente seguendo un percorso definito per legge, ma qualche punto fermo da qualche parte ci vuole e questo è quello da noi previsto in Italia.
E d’altra parte, proprio perché non vi è alcuna regolamentazione del counsellor al momento, sa bene anche lei che ci sono in giro corsi di ogni tipo; anche volendo mettere da parte per un attimo il discorso di legalità, bisogna comunque notare che, accanto a corsi che tentano di dare una formazione più strutturata, esistono anche altri di qualche giorno al massimo, dove si promettono risultati mirabolanti. Ecco, vede, questo non potrà mai accadere con lo psicologo, nessuno potrà mai prometterti di diventare psicologo in un week-end. E anche questo non è poco.
Sono, invece, assolutamente d’accordo con lei sull’importanza che avrebbe un percorso di formazione su di sé obbligatorio per chiunque volesse svolgere la professione di psicoterapeuta; la maggior parte delle scuole di specializzazione psicoanalitiche (e, ormai, molte anche di altri orientamenti) la richiedono, ma in alcuni casi non vi è l’obbligo. E, comunque, non vi è obbligo di legge. Mentre, certamente, questa è una tappa importante, anzi fondamentale, della formazione. Ma se stessimo a discutere delle lacune del sistema formativo italiano in generale, credo che troveremmo molti più punti d’accordo di quanti, certamente, ne possiamo avere sulla vicenda psicologo/counselor. E questo, me lo lasci dire, non è un problema solo della formazione in psicologia, ma della formazione universitaria in Italia tout court, tranne qualche lodevole eccezione.
29 settembre 2011
Caro dott. zerbetto
il suo commento da non-psicologo,fa intuire la sua doppiezza.HO lavorato per 35 ani nella psichiatria .. lo psichiatra fa il medico ,lo psicologo, i’infermiere, l’assistente sociale e poi lo nega .
arrivederci
30 settembre 2011
Gentile Dr.ssa Santi,
mi trovo molto d’accordo con le opinioni che lei esprime sulla questione “counselor”,così come nella risposta che lei fornisce all’intervento del Dott. Zerbetto. Non entro nel merito di una questione comunque complessa;vorrei solo citare un episodio molto recente in cui, partecipando ad un corso di formazione di volontariato aperto a varie competenze e dove comunque l’aspetto psicologico è sicuramente importante,mi è capitato di sentir dire da una persona come me iscritta al corso,di avere avuto una formazione nel counseling (non so di quale durata ) che tale formazione era orientata anche “ad acquisire competenze e strumenti di intervento connessi ai vari approcci derivanti dalle diverse teorie psicologiche”(cognitivismo piuttosto che gestalt e via dicendo ), e che attualmente la persona in questione fa “terapia” di coppia .
Beh, francamente, già il presentare la molteplicità degli approcci appresi come elementi di sicura e assoluta positività, mi ha generato un qualche sobbalzo – e non perchè ritenga che ci si debba rigidamente attestare su di un unico approccio nella convinzione che quello sia l’unico valido, ma perchè sono consapevole di come sia complesso e delicato il lavoro terapeutico e di quanto sia difficile riuscire a far convivere anche solo a livello teorico,punti di vista differenti fra loro. Mi è sembrato che la persona in questione vivesse la varietà di teorie e pratiche apprese come una sorta di vessillo e non come un elemento di difficile gestione e complessità da maneggiare con grande attenzione.
In secondo luogo, quel riferimento al suo svolgere “terapia” in quanto counselor,mi ha proprio creato un grande disagio : sono troppo suscettibile, o il counselling è una cosa e la psicoterapia un’altra ? Mi piacerebbe che anche altri si esprimessero su questo aspetto. In ogni caso,la questione del chiarire quali siano gli atti tipici dello psicologo piuttosto che del counselor o di altre figure professionali, mi pare di fondamentale importanza.
Insomma, grande è il disordine sotto il cielo e grandi sono anche i rischi di far danno in territori delicati e fragili …
Naturalmente i miei tentativi fare distinguo e l’atteggiamento critico – non aggressivo – che ho assunto nei confronti di quella persona mi hanno immediatamente collocata nella schiera dei soliti psicologi attaccati tenacemente alla loro casta e indisponibili a cedere spazi di territorio ad altri !
cordialmente,
Laura Grasso – Psicologa,Psicoterapeuta
2 ottobre 2011
Gentili Signori,
Ho letto con attenzione i vostri commenti.
Riguardo alla figura del Counsellor, sempre più diffusa, sinceramente non riesco a comprendere per quale motivo invece di “farla sparire” (per difendere i privilegi di una delle tante caste che, anche in tempi drammatici di paralisi economica, si chiudono al mondo) non si prova a regolamentarla con indicazioni precise ed enti accreditati e autorevoli che vigilino sul buon operato di questi professionisti. I Counsellor stessi lo vorrebbero, ma mi sembra che questa richiesta venga sistematicamente ignorata…
In UK esiste un ente chiamato BACP (British Association for Counselling & Psychoteraphy) che gode di grande credibilità anche presso il NHS (il Sistema sanitario nazionale britannico): questo ente prevede requisiti di formazione e accreditamento simili a quelli di molte scuole di counselling italiane. In UK i counsellor collaborano da anni con enti pubblici e privati, con psicologi e psicoterapeuti.
Non credo sia un caso che in Italia il più delle volte counsellor e psicologi non riescano a collaborare in armonia come avviene negli altri paesi europei e oltreoceano. Così come non credo sia un caso che in Italia (in totale controtendenza rispetto al resto d’Europa) si continui ad osteggiare la liberalizzazione di alcune figure professionali: all’estero si privilegiano procedure di accreditamento unificate, in Italia il protezionismo degli ordini professionali
Credo che un bravo psicologo, competete e qualificato, non abbia motivi per osteggiare il riconoscimento e la regolamentazione della figura del counsellor.
Al contrario, visto che il suo obiettivo principale è la tutela dell’utente finale, dovrebbe favorire questo processo invece di ostacolarlo (ammesso che la tutela dell’utente finale sia l’obiettivo principale)
In prima persona mi sono rivolta ad un counsellor con 4 anni di studi e 6 anni di esperienza alle spalle e ho potuto constatare l’utilità e l’efficacia del suo intervento. Prima mi ero rivolta a tre diversi psicologi. Di seguito vi riassumo la mia esperienza:
1° psicologo: mi faceva parlare per ore a ruota libera pronunciando qualche “mmh” ogni tanto. A fine seduta: 60 euro + iva e tanti saluti
2° psicologo: questo invece parlava anche per il primo, dandomi consigli e “istruzioni di vita” e interrompendomi ogni 5 minuti (con mia grande irritazione). Per fortuna il mio “disagio” non era così grave da impedirmi di comprendere quello che era veramente giusto per me in mezzo al suo marasma di “aforismi psicologici” (alcuni probabilmente tratti dagli inserti di Donna Moderna)
3° psicologo: dopo 40 minuti da inizio seduta, sono scoppiata in lacrime per un trauma di cui avevo iniziato a parlare. In quel momento questa sensibile “Cottimista della Psiche” mi guarda, mi mette una mano sulla spalla e mi dice “Possiamo finire qui tesoro?”…. ovviamente fuori aveva un altro cliente che attendeva il suo “turno”…. mi sono irrigidita e le ho risposto “Le sembra che possiamo finire qui?”: la psicologa non ha risposto nulla e non ha fatto nulla per trattenermi (altri soldi l’aspettavano fuori dalla porta). Sono uscita sconvolta, con le lacrime agli occhi e tornando a casa ho rischiato di fare un incidente. Ovviamente non sono più tornata
Dopo queste tre entusiasmanti esperienze e dopo aver “scoperto” che gli psicologi (a differenza di psicoterapeuti e counsellor) non sono tenuti a sottoporsi a sedute individuali e percorsi di crescita personale prima di prendere in cura dei pazienti (questo mi ha chiarito molte cose!!), mi sono rivolta ad un counsellor e ci vado tutt’ora. Penso che il protezionismo degli ordini aiuti a tutelare psicologi come quelli in cui mi sono imbattuta.
Gli psicologi veramente capaci non hanno bisogno della “protezione” dell’Ordine, non hanno bisogno di “barricarsi” dietro a privilegi medievali perché professionalità, umanità, etica e competenze permette loro di affermarsi sul mercato e convivere con altre figure emergenti in modo costruttivo e armonico.
Personalmente anche qualora la figura del counsellor venisse bandita dal panorama italiano, continuerei ad andare da questa persona che fino ad oggi mi ha aiutato dove tre “professionisti” iscritti all’albo hanno fallito. Come me la pensano altre persone con cui ho avuto l’opportunità di confrontarmi su questo argomento.
Non pubblico intenzionalmente le mie generalità, in quanto questa email contiene dati sensibili inerenti a terapie da me intraprese.
Se, coerentemente con l’atteggiamento attualmente mostrato in Italia da chi detiene il potere, deciderete di censurare opinioni diverse dalle vostre e quindi oscurerete il mio post, capirò. Ovviamente.
Cordiali saluti,
L.M.
da Bologna
4 ottobre 2011
@L. M. da Bologna,
Cara collega,
concordo pienamente con la sua riflessione, come si coglie anche da quanto avevo già scritto.
La conoscenza di teorie e tecniche differenti non può essere disgiunta da una base solida e chiara, che ti permetta di cogliere quando, come e perché introdurre una certa tecnica o una variazione, sapendolo fare con competenza e cognizione di causa. Integrare approcci diversi fra loro è cosa complessa che richiede studio, competenza ed esperienza e, certo, non si apprende in corsi veloci.
Ma, sinceramente, ritengo che il problema principale non siano i counselor che sono ben felici di apprendere tante tecniche e mischiarle a loro piacimento, come se fossero aspetti disgiunti fra loro e da una conoscenza generale di base solida…da allievi è normale essere entusiasti di quello che apprendi, se non hai qualcuno che ti spiega che ci sono norme e limiti…credo che il problema principale sia quello di chi dovrebbe evitare di insegnarti ciò che sa che non potrai (e non dovresti) applicare e che è bene che non ti cimenti a fare, senza avere le competenze (oltre che i titoli) di base per capire cosa fai, quando farlo, cosa serve a quello specifico paziente in quel momento, ecc. Insomma, chi ti fa credere che è tutto regolare e non che ci sono invece limiti ben definiti, di legge, prima di tutto, ma anche etici
2 ottobre 2011
noto che alcune scuole propongono corsi di “counseling” per formare counselor (in genere triennali), e corsi di “counseloing psicologico” per psicologi (in genere biennali).
Mi sapete spiegare la differenza, se c’è tra il counseling e il counseling psicologico?
Se c’è una differenza (e mi interesserebbe sapere qual è)è possibile che in futuro si diramino questi 2 percorsi? (counselor che fanno counseling e psicologi che fanno counsleing psicologico)? Mi pare che in certi Paesi la situazione sia qeusta (gli USA). Correggetemi se sbaglio.
CIAO
14 ottobre 2011
Davvero, complimenti! Per essere una comune cliente sei davvero informatissima sui sistemi di accreditamento della psicoterapia e del counselling in UK, sui percorsi formativi e sui termini della questione in Italia.
La galleria delle caricature dello psicologo, poi, è gustosissima. Non credo di aver mai visto delineare in così poche parole i più comuni stereotipi sullo psicologo attualmente in circolazione: c’è lo psicologo-pseudopsicoanalista, il chiacchierone, l’insensibile professionista interessata solo al denaro… sì, forse con qualche sforzo potremmo tratteggiarne altri, ma i principali ci sono.
Perdona il mio scetticismo, ma trovo sorprendente già solo il fatto che tu sia riuscita a trovare tre psicologi che esercitano la libera professione in campo clinico in assenza di una specializzazione ed ancora di più che, data l’entità della tua domanda e le ripetute delusioni, tu non abbia mai pensato di rivolgerti ad uno psicoterapeuta. Al contrario, del “counsellor” dal quale dici di esserti trovata bene non ci racconti nulla, salvo che ci vai da un certo tempo. Non è che fa psicoterapia senza averne l’abilitazione, no?.
Mi scuserai anche se, contrariamente alle mie abitudini, a messaggio anonimo rispondo in modo anonimo. Ovviamente sono uno psicologo.
21 ottobre 2011
per LM di Bologna:
salve,
1) ha provato a rivolgersi ad uno psicologo con formazione (post-laurea) specifica in counseling? Su 80000 psicologi ognuno ha le proprie aree di competenza.
2) i counselor non hanno l’analisi obbligatoria ma uno “sviluppo personale”, che può essere svolto in tanti modi (anche incontri con un altro counselor, quindi non una psicoterapia/analisi).
3) la definizione delle competenze del counselor è una FOTOCOPIA della legge 56/89 che definisce la professione di Psicologo (del 1989), da qui l’incavolatura degli psicologi stessi che devono studiare 6 anni e fare un esame di stato (a tutela dei clienti stessi)
4) la situazione all’estero è totalmente diversa, tanto per cominciare i corsi in counseling sono POST-LAUREA e aperti SOLO a chi già svolge una professione di aiuto e non a tutti.