GLOSSARIO

GLOSSARIO

a cura di Sara Ginanneschi, Manuela Materdomini e Alessandra Fermani

A | B | C | D | E | F | G | H | I | J | K | L | M | N | O | P | Q | R | S | T | U | V | W | X | Y | Z

A

ADHD

Adolescenza

Agorafobia

Albo degli psicologi

Alessitimia

Allucinazioni

Anoressia

Ansia

Ansia da anticipazione

Ansia da prestazione

Ansia da separazione

Ansiolitici

Antidepressivi

Arto Fantasma

Attacchi di panico

Autismo

Autostima

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B

Benzodiazepine

Bulimia nervosa

Bullismo

Burn-out

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C

Centro di Salute Mentale

Centro Diurno

Coaching

Compulsione

Comunità Alloggio per utenza psichiatrica

Comunità Terapeutica

Controtransfert

Coscienza

Costanza percettiva e costanza dell’oggetto

Counseling Psicologico

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D

Day Hospital

Depressione

Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders

Disturbi del comportamento alimentare

Disabilità

Dislessia

Disturbo Bipolare

Disturbo di Personalità

Disturbo Antisociale di Personalità

Disturbo Borderline di Personalità

Disturbo Istrionico di Personalità

Disturbo Paranoide di Personalità

Disturbo Schizoide di Personalità

Doppio legame

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E

Etnopsichiatria

Epilessia

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F

Fobia

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G

Genere

Genogramma

Gestalt

Gruppi Appartamento

Gruppoanalisi

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H

Handicap

Hikikomori

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I

Identità

Identità di genere

Illusioni percettive e immagini ambigue

Insonnia

Ipnosi

Isteria

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J

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K

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L

Lutto

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M

Mania

Mobbing

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N

Narcolessia

Narcisismo

Neuroantropologia

Neurologo

Neuropsichiatra infantile

Neuropsicologo clinico

Nevrosi

Nostalgia

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O

Obesità

Ossessione

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P

Paradosso

Parafilia

Paranoia

PNL

Profezia che si autoavvera

Psichiatra

Psichiatria transculturale

Psicastenia

Psicologia dell’emergenza

Psicologia del lavoro

Psicologia dell’invecchiamento

Psicologo

Psiconcologia

Psicosi

Psicosomatica

Psicoterapeuta

Psicoterapia

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Q

Quoziente d’intelligenza

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R

Raptus

Resilienza

Ritardo mentale

Ruolo di genere

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S

Schizofrenia

Segreto professionale

Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura

Somatizzazione

Stalking

Stress

Stress occupazionale

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T

Test

Test Rorschach

Transfert

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U

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V

Vantaggio secondario

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W

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X

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Y

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Z

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A

ADHD (Disturbo da deficit di attenzione e Iperattività)

Disturbo evolutivo dell’autocontrollo che include difficoltà di attenzione e concentrazione, di controllo degli impulsi e del livello di attività. Il bambino che soffre di un Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività non riesce a regolare il proprio comportamento in funzione del trascorrere del tempo, degli obiettivi da raggiungere e delle richieste dell’ambiente. Nello specifico, fa molta fatica a mantenere l’attenzione e a concentrarsi, ha la tendenza ad agire senza pensare a quello che sta facendo, ha difficoltà a modificare il proprio comportamento sulla base degli errori che commette e non riesce a stare tranquillamente seduto per lunghi periodi di tempo. Secondo alcuni autori l’impulsività è la caratteristica distintiva del ADHD. Essa si manifesta nella difficoltà a dilazionare una risposta, ad inibire un comportamento inappropriato, ad attendere una gratificazione. I bambini impulsivi rispondono troppo velocemente (a scapito dell’accuratezza delle loro risposte), interrompono frequentemente gli altri quando stanno parlando, non riescono a stare in fila e attendere il proprio turno. Oltre ad una persistente impazienza, l’impulsività si manifesta anche nell’intraprendere azioni pericolose senza considerare le possibili conseguenze negative. L’impulsività è una caratteristica che rimane abbastanza stabile durante lo sviluppo (sebbene conosca diverse forme a seconda dell’età) ed è presente anche negli adulti con ADHD. Secondo il DSM-IV, per avere rilevanza clinica, la comparsa di alcune di queste manifestazioni deve aver luogo prima dei sette anni, deve essere presente da almeno sei mesi e deve compromettere il rendimento scolastico e/o quello sociale. Il DSM-IV individua, inoltre, tre sottotipi di ADHD:

  • Sottotipo disattento: presenta esclusivamente sintomi di disattenzione;
  • Sottotipo iperattivo-impulsivo: presenta esclusivamente sintomi di iperattività-impulsività;
  • Sottotipo combinato: presenta sia deficit di attenzione che iperattività e impulsività.

L’ADHD si manifesta in maniera diversa in ogni bambino che ne soffre e, per questo motivo, è molto importante, in fase di valutazione, esaminare il comportamento del bambino e la sua storia familiare. Il trattamento elettivo per l’ADHD sembra essere quello multimodale, cioè quel trattamento che implica il coinvolgimento della scuola, della famiglia e del bambino stesso.

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Adolescenza:

Periodo dell’età evolutiva comunemente associato ad un’età che va dai 12 ai 18 anni. si distingue in periodo puberale (dello sviluppo psico-sessuale) dai 12 ai 15 anni e seconda adolescenza.

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Agorafobia:

Disturbo che può presentarsi isolatamente od in comorbilità con il disturbo di panico ed altri disturbi d’ansia caratterizzato dalla preoccupazione patologica che possa succedere qualcosa di negativo allontanandosi dal proprio “posto sicuro”, solitamente la casa. Si traduce frequentemente in una paura di sentirsi male all’esterno delle mura casalinghe e di non venir soccorsi adeguatamente e comporta una forte riduzione delle interazioni sociali.

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Albo degli psicologi

È stato istituito con legge n. 56/1989, che negli artt. 32, 33, 34 e 35 (Testo vigente aggiornato alla G.U. del 14/06/1999, n. 137) ha generosamente disposto: Riportiamo l’art. 32. lettera c) vengono inclusi nell’albo i laureati in discipline diverse dalla psicologia, che abbiano svolto dopo la laurea almeno due anni d’attività che forma oggetto della professione di psicologo contrattualmente riconosciuta dall’università, nonché i laureati che documentino di avere esercitato con continuità tale attività, presso enti o istituti soggetti a controllo o vigilanza da parte della pubblica amministrazione, per almeno due anni dopo la laurea; d) coloro che siano stati dichiarati, a seguito di pubblico concorso, idonei a ricoprire un posto in materia psicologica presso un’istituzione pubblica per il cui accesso era richiesto il diploma di laurea. Art. 34. Ammissione all’esame di Stato degli iscritti ad un corso di specializzazione. 1. (…) sono ammessi a sostenere l’esame di Stato (…) coloro che, al momento dell’entrata in vigore della presente legge, risultino iscritti ad un corso di specializzazione almeno triennale in psicologia o in uno dei suoi rami, e che documentino altresì di avere svolto, per almeno un anno, attività che forma oggetto della professione di psicologo.

L’albo attualmente si divide infatti in due sezioni; nella sezione A vengono inclusi i professionisti che hanno terminato il corso di laurea quinquennale nelle forme a ciclo unico (vecchio ordinamento) o 3+2 (nuovo ordinamento) ed abbiano effettuato l’anno di tirocinio pratico presso struttura riconosciuta; nella sezione B sono inclusi i Tecnici in Scienze psicologiche che hanno conseguito laurea triennale presso un corso di laurea in psicologia ed hanno superato un tirocinio pratico di 6 mesi.

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Alessitimia

Il termine “alexitimia” fu utilizzato per la prima volta da Peter Sifneos e John Nemiah agli inizi degli anni ’70 sulla base delle osservazioni cliniche di pazienti che soffrivano di disturbi psicosomatici e fu definito operativamente a seguito della XI Conferenza Europea sulle Ricerche Psicosomatiche, nel 1976. Indica la mancanza di parole per esprimere le emozioni ed è caratterizzata da un insieme di deficit della competenza emotiva ed emozionale, che si manifesta con l’incapacità di mentalizzare, percepire, riconoscere, e descrivere verbalmente i propri e gli altrui stati emotivi (Galimberti, 2006). Tale disturbo viene attualmente considerato anche come un possibile deficit della funzione riflessiva del Sé. I soggetti alessitimici, nonostante l’apparente buon adattamento sociale, tendono anche a stabilire relazioni di forte dipendenza o, in mancanza di essa, preferiscono l’isolamento. Per tale ragione l’alessitimia è stata associata ad uno stile di attaccamento insicuro-evitante, caratterizzato da un bisogno talvolta ossessivo di attenzioni e cure e da un adattamento alla realtà sociale spesso di tipo conformistico.

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Allucinazioni

Consistono nella percezione di stimoli che non esistono ma che vengono ritenuti reali – in assenza dello stimolo esterno, è il cervello a produrre lo stimolo sensoriale, riproponendo immagini, suoni, odori. Se prodotte dall’attivazione di una singola modalità sensoriale, vengono definite semplici; se prodotte dall’attivazione di più modalità sensoriali, vengono definite complesse.

Possono essere di vario tipo, tra cui:

  • visivo (allucinazioni elementari e non differenziate, dette fotomi, come lampi colorati, bagliori luminosi, forme geometriche; allucinazioni più complesse, come oggetti o animali in movimento, persone, corpi, scene naturali, etc.);
  • uditivo (allucinazioni semplici, dette acoasmi, come fruscii, sibili, ronzii, fischi, note musicali; allucinazioni complesse come voci, discorsi, canti);
  • olfattivo e gustativo ( riguardano rispettivamente odori e sapori insoliti);
  • tattile (allucinazioni spesso associate a quelle visive, si localizzano sulla superficie cutanea dando la sensazione di punture, bruciature, di formicolio causato dal brulicare di insetti sotto la pelle. Possono essere acute e discontinue, o continue);
  • somato-cenestesico (allucinazioni semplici o più complesse che riguardano sensazioni intra-corporee come brividi, impressione di paralisi e percezione alterata del proprio corpo).

Possono manifestarsi in condizioni di psicopatologia sistemica e neurologica, di deprivazione sensoriale, di stimolazione elettrica della corteccia cerebrale, di alterazione dello stato di coscienza, in fase di addormentamento (allucinazioni ipnagogiche) e di risveglio (allucinazioniipnopompiche).

In particolare, in caso di disturbi psichiatrici (in particolare della schizofrenia, ma talvolta della depressione maggiore, dello stato maniacale e del disturbo dissociativo), sono molto diffuse le allucinazioni di tipo uditivo, ma possono manifestarsi anche quelle di altro tipo, coinvolgendo qualsiasi altra modalità sensoriale. Secondo Carlson (2001) «l’allucinazione schizofrenica tipica è rappresentata da voci che si rivolgono all’individuo, talvolta per ordinargli di fare qualcosa, talvolta per rimproverarlo; in certi casi le voci pronunciano voci bizzarre o prive di senso» (pag. 565).

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Anoressia o Anoressia nervosa

Si tratta di un disturbo del comportamento alimentare la cui diagnosi avviene per presenza di alcuni criteri specifici quali: il rifiuto a mantenere un peso “normale” o superiore a quello previsto secondo un rapporto con l’altezza e l’età, con conseguenti attività specifiche e volontarie per ottenere questo risultato; intensa paura o disagio di aumentare di peso e di perderne il controllo; forte preoccupazione circa il peso e le forme del corpo la cui variazione è direttamente collegata ai livelli di autostima; assenza di almeno tre cicli mestruali consecutivi (amenorrea) dovuti esclusivamente al sottopeso.

I termini utilizzati sono semplicemente sinonimi e non uno la forma aggravata dell’altro.

Il disturbo si presenta spesso con una percezione alterata del proprio corpo e delle proprie forme che genera molta ansia la quale può essere sedata esercitando un controllo diretto sul cibo e del proprio corpo (checking).

I sintomi dell’anoressia dipendono dalla forte denutrizione, sia per quanto riguarda segni fisici quali stipsi, dolori addominali, intolleranza al freddo, letargia, fino ad alterazioni cardiache caratterizzate principalmente da bradicardia; allo stesso modo anche alcuni meccanismi del pensiero tendono a modificarsi sulla base di una microcircolazione cerebrale alterata.

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Ansia:

Si definisce come anticipazione apprensiva di un evento negativo che si manifesta a diversi livelli: somatico, comportamentale, cognitivo ed emozionale. Dal punto di vista somatico, il corpo prepara l’organismo ad affrontare la minaccia (una reazione d’attacco/fuga): la pressione del sangue e la frequenza cardiaca aumentano, la sudorazione aumenta, il flusso sanguigno verso i più importanti gruppi muscolari aumenta e le funzioni del sistema immunitario e quello digestivo diminuiscono; sul piano emozionale ne deriva un senso di terrore; a livello comportamentale possono manifestarsi azioni più o meno volontarie diretti alla fuga o comunque all’allontanamento dalla fonte d’ansia; cognitivamente i pensieri sono maladattivi e tendono ad incrementare lo stato di ansietà in una sorta di “mantra” ripetitivo ed ingravescente.

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Ansia da anticipazione

Detta anche ansia anticipatoria, è uno stato di preoccupazione che prepara la persona ad affrontare una determinata situazione. Diviene patologica quando è così intensa da paralizzare la persona rendendola incapace di reagire o comunque porta ad un deterioramento della prestazione stessa. Frequente nella maggior parte dei disturbi d’ansia assume connotazioni agorafobiche nell’omologo disturbo o nel disturbo di panico.

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Ansia da prestazione

Tipo di ansia che nasce dalla paura di non essere all’altezza di un compito o di una prestazione che è regolata da standard personali e sociali ben definiti e di essere giudicati negativamente dagli altri come conseguenza di questo fallimento. Viene spesso associata ad una prestazione di tipo sessuale, ma può presentarsi in ogni circostanza che la persona consideri valutativa.

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Ansia da separazione

Si manifesta come eccessivo stato di ansia del bambino ogni qual volta venga lasciato da una figura di riferimento (spesso la madre) in un ambiente sicuro, anche per partecipare ad attività ludiche (altrimenti si parla di fobia scolastica). Il bambino lamenta irrealistiche ed irragionevoli paure che possa verificarsi qualcosa di terribile a lui o ai propri cari durante il periodo di allontanamento.

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Ansiolitici

Psicofarmaci in grado di sedare i sintomi ansiosi con attività immediata, a medio o a lungo termine, possono essere somministrati anche come coadiuvanti negli stati d’Insonnia. Possono avere effetti miorilassanti (rilassamento muscolare) ed anticonvulsivanti soprattutto ad alti dosaggi.

Si suddividono in ansiolitici benzodiazepinici e non benzodiazepinici sulla base della presenza, nel composto clinico, di un anello benzenico, una struttura esagonale legata ad un anello diazepinico, costituito da 7 atomi. La classificazione dei diversi tipi si basa sull’affinità per alcuni recettori cerebrali (GABA) e per l’emivita, ossia la durata degli effetti e della sostanza stessa nel sangue del soggetto che la assume.

Sebbene la loro somministrazione sia attualmente molto diffusa solo alcune figure professionali potrebbero adeguatamente supervisionare un trattamento (psichiatra, il neuropsichiatra infantile ed il neurologo).

Sono farmaci che inducono assuefazione, quindi durante il trattamento la persona non ha lo stesso effetto iniziale assumendo la stessa dose del prodotto, ma deve aumentarla. Generalmente si sviluppa tolleranza all’effetto ipnotico del farmaco, che quindi non diventa più efficace nel trattamento sistematico dell’insonnia, mentre, anche per un certo effetto placebo associato all’assunzione, può continuare ad essere efficace “al momento” negli stati ansiosi.

Il farmaco induce infatti dipendenza ossia si sono osservati stati di disagio psicologico ed una vera e propria sindrome somatica qualora non venga assunto in un breve periodo (1-2 settimane). Il 50% dei pazienti cui è stato prescritto il diazepam per 6 mesi ad un dosaggio terapeutico utile hanno sviluppato dipendenza fisica con molti effetti collaterali all’interruzione dell’uso.

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Antidepressivi: psicofarmaci che innalzano il tono dell’umore. Hanno questo nome poiché vengono impiegati soprattutto nel trattamento della depressione, ma trovano largo impiego anche in ambiti diversi (trattamento dell’eiaculazione precoce ad es.). Possono essere di diversi tipi ed hanno modalità di somministrazione e tempi di azione diversi anche se in generale piuttosto lunghi. Possono essere somministrati da qualunque medico anche se solo lo psichiatra, il neuropsichiatra infantile ed il neurologo sono da considerarsi le figure professionali di riferimento per intraprendere questo percorso terapeutico, il quale non dovrebbe mai essere inferiore ai 6 mesi di tempo, perché questa è la latenza media di effetto dei prodotti.

Dall’inizio del trattamento entro 2 mesi (4-6 settimane) si osserva di solito uni inizio di remissione sintomatologica, mentre gli effetti collaterali possono essere presenti fin dalle prime settimane; è necessario continuare il trattamento per almeno ulteriori 4 mesi e, qualora sia indicato, tentare lo scalaggio graduale il mese successivo. Non è infatti indicato fare una cura con Antidepressivi inferiore ad un anno o con dosaggi troppo bassi, in quanto non servirebbe a nulla!

Gli Antidepressivi si suddividono in diverse categorie, si ricordano i Triciclici (i primi sperimentati, che prevedono principalmente effetti collaterali antimuscarinici: fauci secche, stitichezza, etc,), Inibitori della MAO (un acceleratore di demolizione di sostanze che solitamente sono carenti nei Depressi), gli SSRI ed SNRI che sono farmaci selettivi nel reperimento cerebrale di Serotonina o Noradrenalina, fortemente carenti, soprattutto in determinate aree del cervello dei pazienti con Depressione e non privi di effetti collaterali; uno di essi consiste nella riduzione del rilascio di Dopamina, che porta ad un appiattimento cognitivo. Negli uomini possono dare disfunzioni erettili, diminuzione del desiderio sessuale e anorgasmia, per questo motivo possono essere impiegati nei disturbi sessuali come l’eiaculazione precoce; più in generale si sono poi osservati disturbi gastrointestinali.

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Arto Fantasma: Fenomeno noto anche come sindrome dell’arto fantasma. Consiste in sensazioni di persistenza che sembrano provenire da un arto amputato o diventato insensibile. Tale fenomeno sembra essere riportato da oltre il 70% dei soggetti che abbiano subito un’amputazione. Tali soggetti riferiscono di sentire l’arto come reale e spesso riportano di sentire che l’arto risponda, se tentano di afferrare con esso qualcosa. Sono state riferiti tutti i tipi di sensazioni all’arto fantasma: dolore, pressione, calore, freddo, irrigidimento, umidità, prurito, sudorazione, bruciore (Carlson, 2001). La spiegazione neurologica di questo fenomeno risiederebbe nell’attività degli assoni sensoriali appartenenti all’arto amputato. Probabilmente questa attività viene interpretata dal sistema nervoso come proveniente dall’arto mancante. Secondo Melzack (1992) la sensazione dell’arto fantasma è legata all’organizzazione della corteccia parietale, che è implicata nella consapevolezza del proprio corpo. Talvolta anche gli individui nati senza arti riferiscono di sentire gli arti mancanti: questo comproverebbe che il cervello sia geneticamente programmato per fornire sensazioni a tutti e quattro gli arti (Carlson, 2001).

Il dolore fantasma viene percepito in una parte di corpo (un arto o un organo) che non c’è più. Il dolore da arto fantasma ne è la forma più diffusa. La causa esatta del dolore fantasma è ancora poco chiara, ma il fenomeno sembra avere origine nell’iperattività prolungata dei neuroni del corno dorsale. Tale iperattività può provocare l’illusione che il dolore derivi dalle regioni distali dell’arto di cui ormai i soggetti sono privi (Carlson, 2001). In alcuni individui, il dolore fantasma migliora con il tempo anche senza trattamento; in altri, invece, può essere molto persistente e refrattario alla terapia.

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Attacchi di panico: Si definiscono come un periodo di paura o disagio intensi, tipicamente con un inizio improvviso e solitamente della durata inferiore ai trenta minuti. I sintomi includono tremore, respirazione accelerata e superficiale, sudore, nausea, vertigini, iperventilazione, sensazioni di formicolio, tachicardia, sensazione di soffocamento.

Paura, ansia, angoscia e terrore, sono emozioni molto simili, non sempre distinguibili. Ciò che le accomuna è il loro contenuto cognitivo e la reazione somatica associata: durante l’attacco di panico le persone cominciano a credere che stia per accadere loro qualcosa di terribile e pericoloso, tanto da far impazzire o morire o perdere il controllo (contenuto cognitivo); tale convinzione personale induce una reazione di allarme particolare che permette di combattere o fuggire e che, in ogni caso, tende ad opporsi al pericolo incombente più o meno reale che sia (reazione somatica). La realizzazione del comportamento induce il rinforzo dello stesso, per cui la persona, sentendo ridurre i sintomi allontanandosi da una certa situazione continuerà ad evitarla e questo indurrà alla creazione di una mappa mentale di “zone sicure” in cui il panico non può manifestarsi che diventano sempre più limitate nello spazio. Il disturbo di panico si riferisce ad una sintomatologia caratterizzata da attacchi frequenti e continuati. Al contrario è possibile aver avuto un solo attacco di panico, senza che tale disturbo tenda a cronicizzarsi.

Caratteristica principale degli attacchi di panico è che la persona sente di avere un problema sul piano fisico, spesso una malattia fulminante come un infarto od un ictus e non riconosce la natura psicologica di essi; per questo motivo le diagnosi vengono spesso fatte dagli infermieri dei pronto soccorsi, o dalla guardia medica.

Il trattamento d’elezione per gli attacchi di panico è di tipo psicoterapeutico, anche se in alcuni casi può essere utile la combinazione con una terapia farmacologica.

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Autismo: è un disturbo pervasivo dello sviluppo e come tale è caratterizzato da una grave compromissione generalizzata in diverse aree dello sviluppo (capacità di interazione sociale, di comunicazione, presenza di comportamenti, interessi ed attività stereotipate). Le compromissioni qualitative che definiscono queste condizioni sono anomale rispetto al livello di sviluppo o all’età mentale. Esistono diverse sindromi autistiche che si distinguono per sintomatologie e gravità; in generale sono tutti problemi evidenti nei primi anni di vita e spesso sono in comorbilità o ne è una naturale conseguenza, un certo grado di Ritardo Mentale.

La triade di caratteristiche nucleari comprende:

  1. Marcate anomalie qualitative nell’ambito dell’interazione sociale rappresentate non tanto o non unicamente da assenza di contatti interpersonali, quanto da mancata condivisione e scambi, assenza di reciprocità, ricerca di contatti esagerati e/o bizzarri, ovvero atteggiamenti interattivi non in linea con l’età di sviluppo dell’individuo.
  2. Marcate anomalie nell’ambito della comunicazione che si presentano sia come assenza di linguaggio che come deficit degli svariati codici comunicativi che regolano le nostre interazioni sociali: sorriso, mimica, atteggiamento posturali, alterazioni della prosodia, inversioni pronominali; nei casi in cui il linguaggio è presente si rileva una grave alterazione dell’abilità di iniziare e sostenere una conversazione, nonostante il possesso di capacità linguistiche adeguate.
  3. Un repertorio marcatamente ristretto di attività ed interessi che si manifesta sia con movimenti stereotipati che ossessive preoccupazioni per un sola attività od un unico tema (per es. allineare oggetti, farli cadere o insistenza sul tema delle strade o dei numeri); oppure estrema difficoltà ai cambi di abitudine.

La diagnosi può essere posta con certezza solo a partire dai 18 mesi, ma i sintomi si manifestano precocemente e spesso i familiari riconoscono alcune anomalie fin dalla nascita.

Le manifestazioni del disturbo variano ampiamente a seconda del livello di sviluppo e dell’età cronologica della persona che ne è affetto, ma la compromissione dell’interazione sociale è macroscopia e perdura nel tempo; si manifesta come una scarsa comprensione delle norme che regolano la vita di relazione oppure con un interesse nullo per essa; spesso si osserva la mancanza di tentativi spontanei di condividere con l’altro e questo rende spesso dolorosa l’interazione dei familiari, che possono sentirsi in qualche modo “rifiutati”.

L’associazione che spesso viene fatta tra Sindrome Autistica e “genio” deriva dalla conoscenza, ancora scarsa purtroppo, della Sindrome di Asperger; questo disturbo, anch’esso parte dei pervasivi dello sviluppo, si manifesta con un deficit specifico in una delle tre aree colpite comunemente anche dall’autismo, ma accompagnato da un normale funzionamento generale, che in taluni casi ed in ambiti ristretti può essere migliore rispetto alla popolazione. Sembra che queste capacità tanto sviluppate, non dipendano da un’intelligenza superiore alla norma, quanto alla ristrettezza di interessi e la capacità a dedicarvi per molte ore consecutive. Possono quindi sapere a memoria elenchi telefonici, suonare uno strumento musicale, conoscere tutte le date storiche più importanti e così via.

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Autostima: valutazione che una persona dà di se stessa, strettamente dipendente da come essa si percepisce in rapporto agli altri e da come vorrebbe essere. In termini accademici si definisce come la discrepanza tra Sé percepito e Sé ideale; il primo è caratterizzato da ciò che la persona pensa di avere o non avere, è una valutazione quantitativa delle doti, anche se fortemente interpretativa; il secondo è invece quella persona che si vorrebbe diventare. È chiaro dunque che i livelli di autostima dipendono da una realistica interpretazione di entrambi questi Sé e dalla capacità di porsi obiettivi personali positivi e raggiungibili.

Avere buoni livelli di autostima significa valutare se stessi in modo equo e sapersi porre obiettivi di miglioramento possibili e stimolanti che verranno perseguiti con passione e non con l’ansia del fallimento.

Il concetto di Autostima è strettamente legato a quello di Autoefficacia, ossia la convinzione delle proprie capacità di organizzare e realizzare il corso di azioni necessarie per gestire adeguatamente le situazioni che si incontreranno in un particolare contesto, in modo da raggiungere gli obiettivi prefissati.

Se l’autoefficacia è un costrutto abbastanza limitato, l’autostima è una stima globale; per esempio un calciatore professionista potrebbe vedere un abbassamento della sua autoefficacia come giocatore di scacchi, dopo aver perso una partita con un amico, ma non perderebbe per questo la propria autostima.

Perdere il proprio senso di autoefficacia in campi diversi, che spaziano da abilità specifiche a caratteristiche più personali, possono comportare un abbassamento dell’autostima che può trasformarsi da temporaneo a permanente, qualora non si prevedano situazioni di rinforzo positivo, anziché di fallimento.

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B

Benzodiazepine: sono farmaci ansiolitici e ipnotici tra i più usati. Si legano ai recettori delle benzodiazepine a livello del complesso recettoriale chiamato GABA agendo, si presuppone, sui circuiti dell’amigdala. Si usano prevalentemente per ansia a breve termine, per quella più prolungata si preferiscono gli SSRI. Si usano anche per incrementare gli effetti degli anti-psicotici o degli stabilizzatori dell’umore (utilizzati in alcuni disturbi del tono dell’umore).

Riportiamo i farmaci più comuni divisi in gruppi sulla base dei tempi di azione:

Emivita maggiore di 48 ore:

Diazepam (Valium, Ansiolin, Tranquirit, Noan)

Delorazepam o Clordemetildiazepam (En)

Nordazepam o Desmetildiazepam (Madar, Stilny)

Clordiazepossido (Librium)

Prazepam (Prazene, Trepidan)

Flurazepam (Dalmadorm, Flunox)

Clobazam (Frisium)

Quazepam (Quazium)

Estazolam (Prosom)

Halazepam o Alazepam (Paxipam)

Medazepam (Nobrium)

BDZ a durata d’azione intermedia – Emivita compresa tra 24 e 48 ore:

Bromazepam (Lexotan, Compendium)

Clotiazepam (Tienor, Rizen)

Nitrazepam (Mogadon)

Flunitrazepam (Darkene, Roipnol)

Clonazepam (Klonopin, Klonapin, Rivotril)

Cinolazepam (Gerodorm)

Estazolam (ProSom, Eurodin)

Pinazepam (Domar)

Tofisopam (Emandaxin, Grandaxin)

Cloxazolam (Lubalix, Sepazon, Olcadil)

BDZ a breve durata d’azione – Emivita minore di 24 ore:

Alprazolam (Xanax, Frontal, Valeans, Mialin)

Lorazepam (Tavor, Control, Lorans, Ativan e Trapax)

Lormetazepam o Metillorazepam (Noctamid, Minias)

Oxazepam (Serpax, Limbial)

Clotiazepam (Rizen, Tienor)

Ketazolam (Anseren)

Loprazolam (Dormonoct)

Temazepam o metiloxazepam (Restoril, Normison, Euhypnos)

Tetrazepam (Mylostan)

Camazepam o comazepam (Albego, Limpidon, Paxor)

Adinazolam (Deracyn)

Gidazepam

BDZ a durata d’azione brevissima – Emivita da 1 a 7 ore

Brotizolam (Lendormin)

Midazolam (Ipnovel, Dormicum)

Triazolam (Halcion, Songar)

Etizolam (Depas, Pasaden)

Doxefazepam (Doxans)

Hanno effetti collaterali sul fegato e sull’emocromo, possono dare dipendenza sia fisica che psicologica se utilizzati per terapie superiori ai 6 mesi e senza un adeguato controllo di un esperto.

Bulimia nervosa: è un disturbo della condotta alimentare, caratterizzato dalla presenza di frequenti abbuffate. Durante questi episodi la persona non riesce a resistere all’impulso di mangiare ed è in preda alla sensazione di non potersi controllare; le abbuffate spesso continuano fino a che non ci si sente “così pieni da stare male”. Chi si abbuffa, generalmente, non mangia con tranquillità, ma ingoia grandi quantità di cibo, di ogni tipo, molto in fretta e senza avere il tempo di gustarlo (a parte un lieve piacere iniziale che scompare quasi subito); la maggior parte delle persone che soffre di Bulimia riporta un forte senso di colpa immediatamente successivo all’abbuffata.

Chi presenta questo disturbo, generalmente, si vergogna della propria condotta alimentare e tenta di nasconderla a tutti i costi; l’attività viene spesso pianificata quindi la persona sente di avere un controllo su di essa e, sull’assunzione di cibo poiché spesso è accompagnata da vari meccanismi di compenso.

Come nel caso dell’anoressia la persona dà molta importanza al peso e alle forme corporee e per questo motivo è sempre presente un intenso desiderio di perdere peso, anche se può non essere al di sotto della norma per età ed altezza, come nel caso dell’Anoressia.

Fra le pratiche di compensazione si annovera il vomito provocato volontariamente, l’uso improprio di lassativi e diuretici, l’eccessivo esercizio fisico, l’uso di farmaci anoressizzanti, o una successiva restrizione alimentare.

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Bullismo: termine che deriva dalla parola inglese bullying (usare prepotenza) e che si riferisce ad un fenomeno molto complesso e articolato. Le azioni indicate con il termine bullismo possono essere messe in atto da una sola persona o da un gruppo su un soggetto singolo che viene prevaricato, o vittimizzato in maniera ripetuta e prolungata nel tempo. Il rapporto tra il bullo e la vittima si caratterizza per una asimmetria in cui la vittima rappresenta la parte più debole e subisce violenze di tipo fisico, verbale o psicologico. Il bullismo può essere definito più specificatamente sulla base di alcune caratteristiche peculiari: intenzionalità da parte dell’aggressore, sistematicità della condotta aggressiva, potere del bullo, vulnerabilità della vittima, mancanza di sostegno, conseguenze sulla vittima. Il bullismo può anche non essere di tipo diretto (violenza fisica e/o verbale) e manifestarsi indirettamente attraverso comportamenti che non sono mirati sulla vittima ma che la danneggiano portandola all’isolamento sociale. Attualmente si assiste anche ad una forma di bullismo che si serve degli strumenti di comunicazione elettronici (cellulari, posta elettronica, blog, etc.) per mortificare e denigrare la vittima prescelta. Tale forma sembrerebbe garantire, a chi la mette in atto, un maggiore anonimato e una riduzione del senso di colpa.

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Burn-out: risultato patologico di un processo stressogeno che colpisce coloro che esercitano «professioni di aiuto» (ma viene attualmente esteso a molte professionalità “al pubblico”) quali psicologi, psichiatri, assistenti sociali, infermieri. Psicologicamente rappresenta il tipo di risposta ad una situazione avvertita come intollerabile, in quanto l’operatore percepisce una distanza incolmabile tra quantità delle richieste rivoltegli dagli utenti, e risorse disponibili (individuali e organizzative) per rispondere positivamente a tali richieste. Ne deriva un senso di impotenza acquisita, dovuta alla convinzione di non poter fare nulla per eliminare l’incongruenza tra ciò che si ritiene che l’utente si aspetti e ciò che si è in grado di offrirgli. Tale senso di impotenza dà luogo ad uno stato di logoramento e di stress psicofisico, che rende gli operatori meno attenti e disponibili nei confronti degli utenti.

La sindrome del burn-out rappresenta, dunque, un fenomeno molto complesso. Esso può avere diverse manifestazioni che hanno la specificità di riguardare la sfera lavorativa e che si caratterizzano per una combinazione di reazioni generiche allo stress con specifici sintomi comportamentali e di modificazione degli atteggiamenti:

  1. Sintomi fisici, quali fatica, frequenti mal di testa, disturbi gastrointestinali, insonnia, cambiamenti nelle abitudini alimentari, uso di farmaci;
  2. Sintomi psicologici, ad esempio, senso di colpa, negativismo, alterazioni dell’umore, scarsa fiducia in sé, irritabilità, scarsa empatia e capacità di ascolto;
  3. Reazioni comportamentali sul luogo di lavoro, quali assenze o ritardi frequenti, tendenza ad evitare contatti telefonici e a rinviare gli appuntamenti, scarsa creatività, ricorso a procedure standardizzate;
  4. Cambiamenti di atteggiamento nei confronti dei pazienti, quali chiusura difensiva al dialogo, cinismo, spersonalizzazione nei rapporti, distacco emotivo e indifferenza ai problemi dell’altro.

Il Burn-out implica dei costi elevati per tutti i soggetti coinvolti nella gestione dei servizi: gli operatori, che pagano il loro disagio in termini personali, spesso con somatizzazioni, frustrazioni, dispersione di risorse, sottoutilizzo di potenzialità; gli utenti, per i quali un rapporto con operatori «bruciati» (letteralmente burned) risulta frustrante, inefficace o dannoso; la comunità, che vede vanificati forti investimenti in ambito sociale e nei servizi pubblici.

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C

Centro di Salute Mentale (C.S.M.): struttura che svolge funzioni preventive, curative e riabilitative per le patologie psichiatriche in collaborazione con il Servizio psichiatrico di diagnosi e cura e con il complesso dei servizi sanitari e sociali esistenti nell’ambito territoriale dell’Azienda U.S.L. in particolare il C.S.M. provvede:

  • All’assistenza specialistica in ogni fase della malattia;
  • Al trattamento terapeutico a medio e lungo termine di individui e gruppi a livello ambulatoriale, domiciliare, semiresidenziale e residenziale;
  • Alla consulenza psichiatrica per gli altri servizi sanitari e sociali dell’Azienda U.S.L.;
  • Al trattamento psichiatrico in favore delle persone detenute.

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Centro Diurno (C.D.): struttura non residenziale aperta per almeno otto ore al giorno per sei giorni settimanali, con funzioni terapeutico-riabilitative tese a impedire e/o arrestare processi di isolamento relazionale e di emarginazione e a prevenire e contenere il ricovero. Essa è utilizzata da soggetti di provenienza territoriale la cui sofferenza psichica è riferibile a cause diverse e iscrivibile in quadri psicopatologici molto differenziati. Nel Centro Diurno sono attuati, in genere, percorsi riabilitativi miranti alla autonomizzazione e risocializzazione degli utenti attraverso programmi occupazionali volti all’apprendimento di specifiche competenze utilizzabili in senso lavorativo e programmi di animazione sociale. Oltre alle attività interne alla struttura dovrebbero essere promossi incontri di sostegno alle famiglie e di collegamento con il territorio.

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Coaching Il termine “Coach” deriva dal Middle English “coche”, corrispondente all’inglese moderno “wagon” (carro) o “carriage” (carrozza, vettura), letteralmente rimanda a un veicolo che trasporta una persona o più persone da un luogo di partenza a un luogo d’arrivo desiderato. Comparso con questa accezione intorno al 1500, intorno al 1850 viene utilizzato nelle università inglesi riferito ad una persona che aiutava gli allievi a preparare un esame. La nozione di “coaching” nel senso educazionale-formativo del termine è derivata dal concetto che il coach forma o addestra singoli individui o gruppi a realizzare delle performance, con metodi teorici o pratici. Mira , dunque, allo sviluppo personale in un contesto non terapeutico, che sia in linea con gli obbiettivi aziendali o personali. Il Coach è quella figura professionale che si propone di risvegliare, rinforzare caratteristiche proprie insite in ogni individuo (inclusa la gestione dello stress e la promozione del benessere sul posto di lavoro), che scopre e fa emergere le potenzialità di una persona al fine di migliorarne la qualità della vita, delle relazioni e del suo rapporto con se stesso. Nel coaching non si cerca di risolvere i problemi e i conflitti del passato dell’interessato, obbiettivo questo proprio di una psicoterapia o di un supporto più leggero come ad esempio il couseling, ma si insegnano nuove strategie di pensiero e azione. Si acquisiscono così capacità fondamentali quali la fiducia in se stessi e negli altri, si definiscono di volta in volta nuovi obiettivi lavorando con metodo e utilizzando dati ed esempi concreti; soprattutto ci si concentra sulle risorse e non sugli aspetti negativi che hanno generato eventuali blocchi cognitivi e affettivi. Gran parte delle metodologie applicate dal coaching derivano dalla PNL (Programmazione Neuro- Linguistica) che è un insieme di pratiche progettate per indurre cambiamenti negli altri.

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Compulsione: comportamento ripetitivo o azione mentale che la persona si sente costretta ad eseguire per ridurre il disagio causato dai pensieri ossessivi o per scongiurare il verificarsi di una qualche calamità. Si osserva sovente nel disturbo ossessivo-compulsivo.

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Comunità Alloggio per utenza psichiatrica (C.A.): è un presidio socio-assistenziale utilizzato a supporto di un progetto terapeutico riabilitativo gestito dal C.S.M. Per rispondere ai bisogni dell’utenza garantendo uno stile di vita “familiare” è preferibile che la Comunità sia di piccole dimensioni e comunque deve avere un massimo di 8 posti letto. Alla funzione terapeutico-riabilitativa provvede il C.S.M. con personale proprio o in convenzione oppure i pazienti possono fare riferimento al C.D. I livelli di assistenza e/o protezione forniti variano in funzione della tipologia e delle esigenze degli ospiti.

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Comunità Terapeutica (C.T.): struttura residenziale extra-ospedaliera destinata ad ospitare soggetti affetti da grave patologia psichica, per la quale si richiedono complessi interventi terapeutici, riabilitativi con conseguente necessità di assistenza continua non garantibile a livello domiciliare. L’attività svolta da tale struttura deve avere carattere continuativo nelle ore diurne e notturne. La terapia di comunità si colloca in uno spazio intermedio tra l’istituzione ospedaliera e quella familiare e si basa sull’erogazione di prestazioni di prevenzione, cura e riabilitazione. I programmi terapeutici delle comunità sono articolati e modulati sui bisogni delle persone che ne usufruiscono, esistono tuttavia delle attività comuni condivise che riguardano il miglioramento o l’acquisizione di abilità di base nella cura e gestione della persona, degli spazi individuali, e comuni. Vengono svolte attività artistiche/creative e ludico/sportive. Accanto ad attività di questo tipo si affiancano poi programmi specifici ed individualizzati e attività psicologiche e psicoterapeutiche individuali e di gruppo.

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Coscienza: Il termine Coscienza deriva dal latino Cum-scire (“sapere insieme”) ed indicava originariamente un determinato stato interiore di sintonia tra i tre centri (centro intellettivo”, “centro motore-istintivo” e “centro emozionale”) che, se raggiunto, permetteva all’uomo di elevare la propria ragione.

La coscienza è un concetto complesso che non si può riassumere in un’unica definizione, in quanto essa viene intesa in modi diversi a seconda dell’ambito di studio preso in considerazione: psicologico, neurofisiologico, filosofico, etico, morale. Ciascuna disciplina pone l’accento su aspetti diversi, da quelli fisiologici a quelli comportamentali, filosofici, morali, fornendo definizioni parziali e limitate al proprio campo d’indagine.

In senso moderno, il termine è stato introdotto da Leibniz che distinse les petites perceptions, cioè la somma degli stimoli subliminali, dall’aperception attraverso cui le percezioni arrivano a livello cosciente. Wernicke localizzò l’ aperception, intesa come consapevolezza della propria sensibilità, come “organo” nella corteccia cerebrale, come fosse un’entità a sé. A questa definizione si contrappose Wundt affermando che “la coscienza consiste nel fatto di constatare in noi stessi certi stati e fenomeni, la coscienza stessa non è uno stato o condizione suscettibile di separazione da tali processi interiori” (1873-1874). Queste due posizioni sono esemplari della direzione assunta dallo studio della coscienza in ambito psicologico e neurofisiologico, da un lato intesa come un fenomeno qualitativo della psiche, dall’altro come entità fisiologica neurofisiologicamente localizzabile.

In ambito neurofisiologico, con l’introduzione dell’elettroencefalografia e il progredire delle conoscenza in ambito medico, si sviluppò la tesi della coscienza caratterizzata da uno stato di vigilanza e uno stato di consapevolezza. Il primo, descrivibile con precisi indici fisiologici, non è necessariamente associato alla consapevolezza di sé e dell’ambiente circostante, come nel caso dello stato vegetativo.

In ambito psicologico nella sua accezione più generale si può intendere la coscienza come un’esperienza soggettiva o cosciente di vita interiore o di vissuto. L’esperienza cosciente è parte dell’attività della mente, quest’ultima intesa come totalità di fenomeni psichici attuali o potenziali, o più in generale come elaborazione simbolica di segnali o informazioni.

Secondo Jaspers la coscienza ha tre significati:

  • 1) l’interiorità dell’esperienza vissuta; l’incessante manifestazione dell’anima (o psiche), anche in assenza di scissione tra l’io e il soggetto, come puro sentire che non è cosciente né di sé, né dell’oggetto;
  • 2) è un sapere qualcosa o coscienza oggettiva, basata sulla scissione soggetto/oggetto, ove soggetto è colui che percepisce, rappresenta, pensa;
  • 3) autoriflessione o coscienza che si ha di se stessi.

A ciò si contrappone l’inconscio inteso:

1) come ciò che non esiste interiormente, non essendo un’esperienza vissuta;

2) ciò che non viene conosciuto come oggetto, anche se può essere stato inconsapevolmente percepito e come tale esercitare la sua influenza a distanza;

3) ciò che non è giunto alla conoscenza di se stesso.

Jaspers sottolinea che la vita psichica non può essere compresa né come sola coscienza né dalla coscienza soltanto, dovendosi sottintendere alla vita psichica veramente vissuta una struttura extracosciente.

In ambito psicoanalitico la coscienza, anche se in maniera marginale, costituisce anche per Freud il punto di partenza per la giustificazione dell’inconscio. “Che parte rimane nella nostra esposizione alla coscienza, che un tempo era onnipotente e ricopriva tutto il resto? Nient’altro che quella di organo di senso per la percezione di qualità psichiche“. Nella distinzione tra Es, Io Super-Io, Freud evita di identificare la coscienza con l’Io limitandosi a stabilire un semplice legame di appartenenza della coscienza all’Io. L’Io, è quell’ istanza psichica che scarica gli eccitamenti sul mondo esterno ed esercita il controllo su tutti i processi parziali, anche durante il sonno, la coscienza ad esso legata durante il sonno dorme, mentre l’Io continua a vigilare.

Anche per Jung lo psichico non coincide con la coscienza: “La coscienza è la funzione o l’attività che mantiene il rapporto di contenuti psichici con l’Io. La coscienza non è identica alla psiche, in quanto la psiche rappresenta la totalità di tutti i contenuti psichici, i quali non sono di necessità collegati tutti direttamente con l’Io, ossia non sono con l’Io in un rapporto tale che ad essi spetti la qualità della consapevolezza”.

Il filosofo Hamilton afferma: ” La coscienza non può essere definita: noi possiamo sapere perfettamente ciò che è la coscienza, ma non possiamo comunicare agli altri senza confusione una definizione di ciò che noi stessi afferriamo. La ragione è semplice: la coscienza si trova alla radice della conoscenza”.

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Costanza percettiva e costanza dell’oggetto: Il problema della costanza percettiva nasce dal rilievo che l’identità, la grandezza e la forma d’un oggetto possono rimanere invariate anche quando la proiezione retinica dello stesso oggetto varia di grandezza e forma al variare dei rapporti spaziali fra oggetto fisico e osservatore. Insomma, attribuiamo caratteristiche permanenti ad oggetti variabili.

a La costanza dell’oggetto: è data dall’invariabilità dei rapporti tra gli elementi di rilievo che abbiamo nel complesso della situazione stimolante. La costanza dell’oggetto permette di percepire un oggetto (nel senso latino di ob jectum)  familiare allo stesso modo e con le sue caratteristiche sia che lo si veda in verticale, in orizzontale, di fronte, a poca distanza ecc…

b La costanza di grandezza: dipende dal rapporto tra la grandezza reale dell’immagine retinica e la distanza apparente dell’oggetto, valutata attraverso gli indizi di profondità. (“Legge di Emmert”; esperienza della “camera distorta”)

c La costanza di forma: dipende dal rapporto tra la forma dell’immagine retinica e l’inclinazione apparente dell’oggetto, percepibile utilizzando gli indizi che lo rivelano.

d La costanza di posizione: dipende anche dalla nostra esperienza passata e fa riconoscere gli oggetti nonostante le miriadi di impressioni mutevoli che accompagnano i nostri spostamenti.

e La costanza della luminosità e del colore: dipende dal fatto che noi giudichiamo la luminosità di un oggetto in rapporto all’ambiente. La costanza viene meno se l’oggetto e il suo ambiente non sono illuminati dalla stessa sorgente.

La psicologia strutturalista considera il fenomeno della costanza percettiva un processo spontaneo di autoregolazione, mentre la psicologia che ammette il riferimento all’esperienza lo considera un processo integrativo di adattamento ad una realtà che fa comodo stabilizzare.

Nell’ambito della Psicologia dello sviluppo la costanza dell’oggetto viene definita come la capacità di crearsi un’immagine interna della mamma stabile e sicura. Una fiducia di base che la mamma tornerà, viene acquisita dai bambini intorno ai 2 anni e mezzo.

Secondo la Mahler la nascita psicologica e quella biologica non coincidono; ma il primo è un processo le cui tappe fondamentali si svolgono nelle prime fasi di vita, ma che comunque proseguono anche oltre. Dopo i primi tre anni di vita il bambino acquisisce una rappresentazione stabile, permanente e distinta di lui e sua madre. Non solo egli si sente veramente separato da sua madre, ma percepisce anche le sue caratteristiche sessuali, cioè si percepisce come femmina o maschio. È nel corso di questa fase che l’individualità del bambino si afferma. Egli sta insieme ad altri bambini, utilizza i pronomi personali ed il suo senso del tempo si sviluppa. Al termine di questi 3 anni il bambino si è creato la propria identità, percepisce chi è. Non solo sa di essere diverso da sua madre, ma conosce bene il suo nome, non piange più quando la mamma è assente, ha la propria vita nella scuola dell’infanzia, poi nella scuola primaria ecc… Tuttavia, questo processo di separazione e di individuazione non è del tutto terminato, e delle frustrazioni o angosce troppo intense possono farlo regredire.

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Counseling Psicologico: il termine counseling, la cui traduzione italiana è consulenza, indica una forma di colloquio psicologico che tende ad orientare, sostenere e sviluppare le potenzialità del cliente (individuo, coppia, istituzione) promuovendone atteggiamenti attivi, propositivi e stimolando le capacità di scelta. Si occupa di problemi non specifici (prendere decisioni, miglioramento delle relazioni interpersonali), contestualmente circoscritti (famiglia, lavoro, scuola) e prevede un numero di colloqui limitati nel tempo e che possono essere utilizzati per progettare altri tipi di intervento.

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D

Day Hospital (D.H.): è una struttura semiresidenziale in cui vengono attivati i programmi terapeutici e riabilitativi a breve-medio termine. È destinato a pazienti con psicopatologia subacuta, aventi necessità d’intervento farmacologico e psicoterapeutico. Ha la funzione di evitare ricoveri a tempo pieno, nonché di limitarne la durata quando questi si rendono indispensabili. La funzione di D.H. è strutturalmente aggregata al Servizio Psichiatrico di diagnosi e cura (S.P.D.C.).

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Depressione: più correttamente Depressione Maggiore è un disturbo della classe del Tono dell’Umore, caratterizzato in primo luogo da un umore depresso per la maggior parte del giorno, per la maggior parte dei giorni in un range di tempo pari a due settimane. Durante il periodo depressivo si osservano modificazioni di tipo fisiologico: nell’irrorazione sanguigna cerebrale e della regolazione di alcuni neurotrasmettitori; di tipo comportamentale: rallentamenti o agitazione, mancanza di energie, cambiamenti nel sonno e nell’alimentazione (con le conseguenze che comportano); di tipo cognitivo: frequenti pensieri negativi, fino a quelli di morte o di suicidio, sensazione di essere inutile, difficoltà di concentrazione.

La Depressione Maggiore è dovuta a molteplici cause: esiste una forte componente ereditaria in termini di “vulnerabilità” alla malattia qualora si presentino particolari fattori specifici precipitanti di tipo ambientale o personale, che di per sé possono non essere determinanti in altre persone.

Per il trattamento di questo disturbo sono spesso fondamentali i farmaci, naturalmente sotto l’attenta supervisione di uno Psichiatra che possa controllare e supervisionare la terapia per tempi lunghi (minimo due anni), anche se l’azione combinata di un’adeguata psicoterapia permetta un controllo e miglioramento dell’assunzione dei farmaci (compliance) ma anche la ripresa funzionale delle attività sia quotidiane più o meno considerate piacevoli dalla persona, prima di ammalarsi.

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Disturbi del comportamento alimentare (DCA): i principali disturbi del comportamento alimentare sono l’anoressia nervosa, la bulimia nervosa ed i disturbi alimentari non altrimenti specificati, categoria che comprende quei disturbi che non soddisfano pienamente i criteri per l’anoressia e la bulimia ed all’interno della quale si stanno distinguendo vere e proprie categorie diagnostiche come Il Disturbo d’Alimentazione Incontrollata. Anche se i fattori intrapsichici e biologici non dovrebbero essere minimizzati nell’analisi delle cause e dell’origine di tali disturbi, tali fattori interagiscono chiaramente con un particolare periodo socioculturale della civiltà occidentale nel produrre una sindrome che ne riflette la cultura. In effetti i dati che ne denunciano l’incidenza, indicano che tali disturbi possono essere una soluzione sempre più comune per una varietà di fattori stressanti intrapsichici, familiari e ambientali.

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Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM): la cui traduzione italiana è «Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali», è tra gli strumenti diagnostici per disturbi mentali più utilizzati dai professionisti della salute mentale di tutto il mondo. È stato redatto per la prima volta nel 1952 dall’American Psychiatric Association (APA) ed è giunto nel 2000 alla sua IV edizione TR (text revision).

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Disabilità: è la condizione personale di chi, in seguito ad una o più menomazioni, ha una ridotta capacità d’interazione con l’ambiente rispetto a ciò che è considerata la norma, pertanto è meno autonomo nello svolgere le attività quotidiane e spesso in condizioni di svantaggio nel partecipare alla vita sociale. Per l’OMS e la classificazione dell’ICDH (International Classification of Disabilities and Handicaps) la disabilità è intesa come una limitazione a livello personale derivante da una menomazione (perdita di specifiche funzioni) o da una minorazione (assenza fin dalla nascita di tali funzioni). Lo svantaggio sociale della persona con disabilità prende il nome di Handicap.

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Dislessia: è un disturbo caratterizzato da un livello di capacità di leggere che risulta inferiore a quello che ci si attenderebbe in relazione all’età, al grado di istruzione ed al livello di intelligenza del bambino. Queste difficoltà interferiscono in modo significativo con l’apprendimento scolastico e con le attività della vita quotidiana in cui è necessario adoperare l’abilità della lettura.

La dislessia è di solito evidente intorno ai 7 anni, ( seconda elementare), anche se un personale esperto può insospettirsi fin dal primo anno di scuola durante l’insegnamento dell’abilità di lettura. Spesso può accadere che nelle prime due classi elementari il bambino riesca a compensare il disturbo mediante l’uso della memoria e dell’intuizione, in particolar modo quando esso è associato ad elevati livelli di intelligenza, ma se riconosciuto immediatamente, è possibile suggerire al bambino strategie immediatamente efficaci ed “economiche” in termini di facilità di apprendimento.

I bambini con questo disturbo generalmente fanno molti errori quando leggono ad alta voce, errori che sono caratterizzati da omissioni, aggiunte e distorsioni delle parole e che sono dovuti alla difficoltà di distinguere i caratteri e le dimensioni delle lettere stampate, soprattutto tra quelle più simili. Anche la velocità nella lettura appare rallentata e spesso è accompagnata da una scarsa comprensione di quanto letto. La lettura può avvenire iniziando a leggere una parola a metà o alla fine di una frase o invertendo le lettere da leggere a causa di una scarsa capacità di seguire lo schema di lettura da sinistra verso destra.

Un’interessante prospettiva da cui guardare al disturbo della lettura, come agli altri disturbi dell’apprendimento, è quello che viene definito “approccio modulare”. Ovvero, l’abilità di lettura può essere considerata come costituita da molteplici competenze, ciascuna delle quali può essere più o meno sviluppata; la dislessia può essere quindi caratterizzata da una difficoltà nell’utilizzo di una o più di tali competenze, quali:

  • Componente logografica, ossia la capacità di differenziare visivamente i segni grafici, che consiste nel riconoscere visivamente le singole lettere dell’alfabeto o segni grafici o grafemi;
  • Componente alfabetica, cioè l’abilità di fusione fonemica ovvero la capacità di mantenere nella memoria una serie di fonemi per fonderli e ricavare da ciò una parola;
  • Componente ortografica, che è costituita dalla capacità di corrispondenza grafemi-fonemi, ossia l’abilità di assegnare a ciascun grafema (segno) il fonema (suono) corrispondente;
  • Componente lessicale, cioè la capacità di elaborare informazioni linguistiche complesse, come, ad esempio, l’abilità di decodificare le parole, comprenderle e utilizzare la sintassi in modo corretto e veloce.

Non tutti bambini che presentano difficoltà nell’apprendimento della capacità a leggere sono affetti da dislessia, si possono infatti presentare diverse difficoltà specifiche legate ad altre caratteristiche sia del bambino, che della scuola, ad esempio possono venir scambiati per dislessici, bambini chiamati a leggere alla lavagna, dal proprio banco, con un disturbo nella vista, ancora sconosciuto alla famiglia e, le reazioni degli insegnati e dei compagni possono contribuire a manifestazioni ansiose secondarie che compromettono le successive performance.

Al fine di operare una corretta diagnosi le specifiche capacità di lettura vengono misurate con test standardizzati somministrati da esperti del settore: psicologi e Neuropsichiatri infantili.

Inoltre specifiche difficoltà nella lettura si osservano come conseguenze o sintomi accessori di altri disturbi concomitanti, quali il ritardo mentale, il disturbo generalizzato dello sviluppo od i disturbi della comunicazione. Anche nel disturbo da deficit dell’attenzione ed iperattività, nel disturbo della condotta e nei disturbi depressivi è possibile constatare una cattiva abilità nella lettura che non necessariamente si configura in un disturbo specifico della lettura.

Le cause del disturbo non sono tuttora chiare e diverse sono le ipotesi etiologiche formulate, anche se molti sembrano concordi nell’evidenziare una certa familiarità; altre si basano su asimmetrie di regioni cerebrali, o sulla distribuzione di funzione nei due emisferi mettendo in relazione il disturbo con il mancinismo; ancora lesioni o problemi pre e peri-natali sembrano implicati nella genesi della dislessia.

Il disturbo può determinare un’ansia prestazionale, vergogna e frustrazione, soprattutto quando non viene riconosciuto come tale sia in ambito scolastico che a casa. Queste emozioni tendono a divenire più intense se la condizione di misconoscimento persiste e nei bambini più grandi possono tramutarsi in intensa rabbia e depressione. Il disturbo crea rilevanti compromissioni nell’apprendimento scolastico e nella vita sociale; anche il senso del proprio valore personale risente di queste difficoltà, tanto che l’autostima di questi bambini può abbassarsi notevolmente.

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Disturbo Bipolare

rientra nei Disturbi del Tono dell’Umore, si caratterizza per l’alternanza tra episodi depressivi e polarità maniacali, intervallata da periodi di completo benessere timico e normofunzionamento dell’individuo. Si manifesta nel 1% circa della popolazione generale, è ugualmente distribuito in entrambi i sessi ed il suo esordio avviene più frequentemente entro i 40 anni.

I criteri diagnostici descritti nel DSM-IV TR per l’Episodio Maniacale sono:

  1. Un periodo definito di umore anormalmente e persistentemente elevato, espansivo o irritabile, della durata di almeno una settimana (o qualsiasi durata se è necessaria l’ospedalizzazione);
  2. Durante il periodo di alterazione dell’umore, tre (o più) dei seguenti sintomi sono persistenti e presenti a un livello significativo (quattro se l’umore è solo irritabile):

1)     autostima ipertrofica o grandiosità;

2)     diminuito bisogno di sonno (per esempio, il paziente si sente riposato solo dopo tre ore di sonno);

3)     maggiore loquacità del solito, oppure spinta continua a parlare;

4)     fuga delle idee o esperienza soggettiva che i pensieri si succedano rapidamente;

5)     distraibilità (cioè, l’attenzione è troppo facilmente deviata da stimoli esterni non importanti o non pertinenti);

6)     aumento dell’attività finalizzata (sociale, lavorativa, scolastica o sessuale) oppure agitazione psicomotoria;

7)     eccessivo coinvolgimento in attività ludiche che hanno alto potenziale di conseguenze dannose (per esempio, eccessi nel comprare, comportamento sessuale sconveniente, investimenti in affari avventati).

  1. I sintomi non soddisfano i criteri per l’Episodio Misto.
  2. L’alterazione dell’umore è sufficientemente grave da causare una marcata compromissione del funzionamento lavorativo o delle attività sociali abituali o delle relazioni interpersonali o da richiedere l’ospedalizzazione per prevenire danni a sé o agli altri, oppure sono presenti manifestazioni psicotiche.

Il Disturbo Bipolare può essere di I tipo (quando alle fasi depressive si alternano episodi maniacali pieni o particolarmente floridi), di II tipo (quando alle fasi depressive si alternano episodi più lievi).

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Disturbo di Personalità:

nel DSM-IV-TR, un Disturbo di Personalità (DP) è definito in generale, come:

Un modello abituale di esperienza interiore e di comportamento, che devia marcatamente rispetto alle aspettative della cultura dell’individuo (…), risulta inflessibile e pervasivo, in una varietà di situazioni personali e sociali (…), determina un disagio clinicamente significativo e compromissione del funzionamento sociale, lavorativo e di altre aree importanti (…), è stabile e di lunga durata, e l’esordio può essere fatto risalire almeno all’adolescenza o alla prima età adulta”.

Un modello abituale è uno “stile” di personalità, rappresenta cioè, una sorta di filtro attraverso il quale la persona interpreta il proprio mondo interiore, il mondo esterno, gli altri e tutte le contingenze della propria vita. Nel DP tale modello è pervasivo e inflessibile e non si modifica in base ai cambiamenti ambientali, diventando pertanto invalidante per il soggetto che, tuttavia, non ne avverte la stranezza o l’incoerenza. Tale modello non risulta, inoltre, meglio giustificato come manifestazione o conseguenza di un altro disturbo mentale e non risulta collegato agli effetti fisiologici diretti di una sostanza (per es., una droga di abuso, un farmaco) o di una condizione medica generale (per es., un trauma cranico).

Le manifestazioni del comportamento e dell’esperienza interiore del soggetto con DP si esprimono nei seguenti quattro domini:

  • 1. Cognitività: compromissione del modo di percepire, interpretare, dare valutazioni obiettive del proprio mondo interiore e degli altri, delle relazioni interpersonali e sociali.
  • 2. Affettività: alcuni disturbi presentano un tipo di affettività inibita, coartata, inespressa, altri disturbi, al contrario manifestano in modo eccessivo e amplificato la propria emotività.
  • 3. Controllo degli impulsi: i disturbi relativi al controllo degli impulsi si dislocano lungo una sorta di continuum, che va da un estremo di ipercontrollo, all’estremo opposto, di deficit inibitorio.
  • 4. Funzionamento interpersonale.

Tutti i DP sono disadattivi e presentano difficoltà di relazione, o di efficienza lavorativa o scolastica, i pazienti con DP fanno fatica a mantenere un lavoro, spesso ne cambiano diversi, o non lavorano affatto, si sposano meno di altri pazienti, o mai, divorziano più spesso. Se confrontati tra loro, i diversi DP, mostrano differenti livelli di impoverimento del funzionamento generale: i pazienti gravi presentano livelli inferiori di funzionamento sociale, lavorativo e personale, rispetto a pazienti che possono avere livelli di compromissione significativi, anche in una sola area di funzionamento. Infine si è notato che, anche al migliorare delle condizioni psicopatologiche, nei DP, al contrario di quanto accade nei disturbi dell’umore o d’ansia, possono perdurare le difficoltà di adattamento sociale e il livello di funzionamento generale: questo, verosimilmente, a causa del lungo perdurare di sintomi e comportamenti disfunzionali che hanno per troppo tempo compromesso le relazioni e lo sviluppo sociale della persona.

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Disturbo Antisociale di Personalità

Il disturbo della personalità antisociale è una condizione psichiatrica, la cui causa non è ancora stata identificata anche se si sospetta che fattori genetici e abusi sui minori contribuiscano allo sviluppo di questa condizione, in cui una persona manipola o viola i diritti degli altri assumendo condotte devianti e criminali. Gli individui con disturbo della personalità antisociale violano la legge ripetutamente; dicono bugie, rubano e sono spesso violenti trascurando la propria sicurezza e quella altrui senza mostrare alcun senso di colpa, di rimorso né, tanto meno, di pentimento. Il disturbo si manifesta prevalentemente nei maschi e la prevalenza è pari al 3% negli uomini e all’1% nelle donne nella popolazione generale aumentando fino al 30% in ambiente clinico. Viene collocato dal Manuale Statistico Diagnostico dei Disturbi Mentali all’interno dei disturbi di personalità del cluster B, gruppo che comprende oltre al disturbo antisociale anche il disturbo borderline, il disturbo istrionico e il disturbo narcisistico. Nell’ICD-10 viene indicato come Disturbo Dissociale di Personalità.

Per ricevere una diagnosi di disturbo della personalità antisociale, secondo il DSM- IV, una persona deve avere mostrato comportamenti disturbati durante l’infanzia. Nello specifico, le persone in questa condizione possono seguire i seguenti criteri diagnostici:

1. presenza di un Disturbo della Condotta con esordio precedente ai 15 anni

2. il soggetto mostra inosservanza e violazione dei diritti degli altri fin dall’età di 15 anni, che si manifesta con almeno 3 dei seguenti elementi:

  • incapacità di conformarsi alle norme sociali per quanto riguarda il comportamento legale, con ripetersi di condotte suscettibili di arresto
  • disonestà: il soggetto mente, usa falsi nomi, truffa gli altri
  • impulsività o incapacità di pianificare
  • irritabilità e aggressività
  • inosservanza della sicurezza propria e degli altri
  • irresponsabilità: incapacità di far fronte a obblighi finanziari o di sostenere un’attività lavorativa con continuità
  • mancanza di rimorso

3. l’individuo ha almeno 18 anni e mostra condotte che violano i diritti altrui.

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Disturbo Borderline di Personalità

Il termine borderline deriva dall’antica classificazione dei disturbi mentali, raggruppati in nevrosi e psicosi, e significa letteralmente “linea di confine” etimologicamente originato dal fatto che tale disturbo era riferito a pazienti con personalità marginali che funzionano “al limite” della psicosi pur non giungendo agli estremi.

Le formulazioni del manuale DSM IV, come le classificazioni più moderne internazionali (ICD-10) hanno ristretto la denominazione di disturbo borderline fino a indicare quella patologia i cui sintomi sono la disregolazione emozionale e l’instabilità del soggetto.

Il disturbo borderline di personalità è caratterizzato da vissuto emozionale eccessivo e variabile, e da instabilità riguardanti l’identità dell’individuo di cui uno dei sintomi paradigmatici è la paura dell’abbandono. I soggetti borderline soffrono di crolli della fiducia in sé stessi e dell’umore, attuando condotte autodistruttive e distruttive delle loro relazioni interpersonali. Alcuni individui possono soffrire di momenti depressivi acuti anche estremamente brevi, ad esempio pochissime ore, ed alternare comportamenti normali. La caratteristica dei pazienti con disturbo borderline è, inoltre, una generale instabilità esistenziale. La loro vita è caratterizzata da relazioni affettive intense e turbolente che terminano bruscamente, e il disturbo ha spesso effetti molto gravi provocando “crolli” nella vita lavorativa e di relazione dell’individuo

Dal punto di vista clinico i pazienti appaiono quasi sempre in stato di crisi e tale fenomenologia rende la persona assolutamente imprevedibile. Raramente gli individui con disturbo borderline realizzano in pieno le loro capacità. La natura tormentata della loro vita si riflette in ripetuti atti autodistruttivi. Possono procurarsi automutilazioni per sollecitare aiuto dagli altri, per esprimere rabbia o per cercare di attutire sentimenti soverchianti. Sentendosi sia dipendenti sia ostili questi soggetti hanno relazioni interpersonali tumultuose: possono essere dipendenti dalle persone cui sono legati ed esprimere un’enorme rabbia nei confronti dei loro amici quando vengono frustrati. D’altro lato, non riescono a tollerare la solitudine e preferiscono una frenetica ricerca di compagnia, indipendentemente da quanto possa essere insoddisfacente, al rimanere da soli. Per alleviare la solitudine, anche se solo per brevi periodi, accettano l’amicizia di persone estranee o hanno comportamenti promiscui. Spesso lamentano una cronica sensazione di vuoto e di noia e la mancanza di un senso coerente di identità (diffusione dell’identità); quando sono sottoposti a pressione, spesso si lamentano di quanto si sentono depressi per la maggior parte del tempo, malgrado il fermento degli altri affetti.

Si osserva talvolta in questi pazienti la tendenza all’oscillazione del giudizio tra polarità opposte, un atteggiamento dicotomico che non conosce mediazioni o negoziazioni. Ogni persona con cui il soggetto entra in relazione viene categorizzata come o completamente buona o completamente cattiva. Essi percepiscono gli altri come figure protettive, cui legarsi strettamente, oppure come persone odiose e sadiche, che li deprivano dei bisogni di sicurezza e minacciano di abbandonarli ogni volta che si sentono dipendenti. Come conseguenza di questa scissione, le persone buone vengono idealizzate e quelle cattive svalutate. Il disturbo compare nell’adolescenza e concettualmente ha aspetti in comune con le comuni crisi di identità e di umore che caratterizzano il passaggio all’età adulta, ma avviene su una scala maggiore, estesa e prolungata determinando un funzionamento che interessa totalmente anche la personalità adulta dell’individuo.

Il disturbo di personalità borderline si presenta in una varietà di contesti e per porre la diagnosi di Disturbo Borderline di Personalità secondo il DSM-IV (American Psychiatric Association, 1994) devono essere presenti, simultaneamente, almeno cinque fra nove criteri diagnostici. I nove criteri, che riguardano gli stili di comportamento e gli atteggiamenti emotivi abituali del paziente, sono:

1) forte sentimento di instabilità e incertezza circa la propria identità,

2) paura cronica di essere abbandonati,

3) drammatica instabilità nelle relazioni affettive,

4) marcata reattività dell’umore (rapide oscillazioni del tono emotivo fra depressione, euforia, irritabilità e ansia),

5) frequenti esperienze di collera immotivata,

6) cronici sentimenti di vuoto interiore,

7) transitori ma ricorrenti sintomi dissociativi (depersonalizzazione, amnesie lacunari, stati oniroidi di coscienza) oppure di ideazione paranoide,

8) comportamenti auto-lesivi impulsivi e incontrollabili (abbuffate compulsive, promiscuità sessuale senza attenzione a rischi di infezioni o di gravidanze indesiderate, cleptomania, abusi di alcool e droghe, ferite auto-procurate),

9) minacce o tentativi ricorrenti di suicidio.

La complessità delle valutazioni diagnostiche necessarie per identificare, più che sintomi psichiatrici ben definiti (come l’ansia, la depressione, le fobie, le condotte alimentari abnormi, le ossessioni e il delirio) stili di comportamento ed atteggiamenti emozionali – i quali inevitabilmente sfumano, nei diversi candidati alla diagnosi, dai limiti della normalità all’evidente patologia – contribuiscono ai dubbi sulla legittimità di elevare il Disturbo Borderline di Personalità al rango di categoria nosografica distinta e ben definita. In effetti, basandosi sui criteri del DSM-IV, è spesso impossibile discriminare con chiarezza il Disturbo Borderline di Personalità da altri disturbi di personalità, soprattutto dello spettro impulsivo.

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Disturbo Istrionico di Personalità

Tra i disturbi di personalità il disturbo istrionico (HPD/DIP) è un caratterizzato da un tipico quadro pervasivo di sregolata e labile emotività e di  ricerca di attenzione, che include una seduttività inappropriata e un bisogno eccessivo di approvazione. Tali individui sono vitali e possono essere tendenti alle provocazioni sessuali inappropriate, sono inoltre descritti come egocentrici, indulgenti con se stessi e intensamente dipendenti dagli altri così da mostrarsi facilmente influenzabili tendendo ad attaccarsi in contesti di relazioni immature. I soggetti con HPD, nello specifico, si identificano eccessivamente negli altri; proiettano le loro irrealistiche e fantasticate intenzioni sulle persone con cui sono coinvolte. Sono emozionalmente superficiali per evitare sofferenze legate alle emozioni e hanno difficoltà a capire in profondità sia se stessi che altre persone. La selezione dei partner, relazionali o sessuali, è spesso altamente inappropriata.

La classificazione DSM-IV-TR colloca questo tra i disturbi del gruppo detto “cluster” B, cioè quelli di personalità dal tratto “drammatico-imprevedibile”. Compare entro la prima età adulta. Per essere diagnosticato come disturbo deve manifestarsi in una varietà di contesti con la presenza di almeno cinque dei seguenti sintomi:

  1. la persona è a disagio in situazioni nelle quali non è al centro dell’attenzione
  2. l’interazione con gli altri è spesso caratterizzata da comportamento sessualmente seducente o provocante
  3. manifesta un’espressione delle emozioni rapidamente mutevole e superficiale
  4. costantemente utilizza l’aspetto fisico per attirare l’attenzione su di sé
  5. lo stile dell’eloquio è eccessivamente impressionistico e privo di dettagli
  6. mostra autodrammatizzazione, teatralità, ed espressione esagerata delle emozioni
  7. è facilmente suggestionabile e influenzato dagli altri e dalle circostanze
  8. considera le relazioni più intime di quanto non siano realmente.

Se le donne con tale disturbo sono inclini ad entrare in relazioni abusive con partner violenti oppure possono mostrare rabbia intensa che può sfociare anche nell’automutilazione fino al suicidio, gli uomini possono presentare problematiche riferite alle crisi d’identità, relazioni disturbate e mancanza di controllo degli impulsi. Possono avere tendenze antisociali ed essere inclini all’abuso di false sintomatologie fisiche come metodo di controllo sugli altri. Queste persone possono essere eccezionalmente introspettive, emozionalmente immature (anche se tendono a credere e/o far credere l’esatto contrario), drammatiche (anche se molti sono esperti nel nasconderlo) e superficiali (anche se tendono a credere che i loro sentimenti siano così profondi che nessuno potrebbe mai comprenderli).
I maschi con HPD le cui tendenze sono evidenziate dall’antisocialità, alternano periodi di isolamento con periodi di estrema ricerca sociale e ogni alternanza può durare da qualche giorno a diversi anni.

Gli HPD di qualunque genere tendono ad avere problemi a mantenere amicizie durature, dato che le loro tendenze paranoiche, reali e immaginarie, possono portarli ad “usare” le relazioni interpersonali con lo scopo di eliminare ogni responsabilità emozionale.
I soggetti con HPD possono credere nel soprannaturale, come la chiaroveggenza o la telepatia, includendo in ciò la convinzione che ci siano diversi messaggi e nozioni nascoste in opere pubbliche, scritte apposta per loro. Quando un soggetto HPD con caratteristica antisociale, crede di essere manipolato, può trasformare in sociopatiche le sue relazioni con i nemici del momento, seppure può rimanere del tutto leale (o quasi) con quelli che egli reputa “amici”. Gli HPD sono spesso irrefrenabilmente guidati da una continua ricerca di conquista della vita, anche se non hanno un vero senso di direzione o di controllo, e questo risulta in frequenti cambi di passioni e interessi.
Sia uomini che donne con HPD, possono tendere ad un comportamento disinibito, spesso verso promiscuità e abuso di sostanze.

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Disturbo Paranoide di Personalità

Caratteristiche

Il Disturbo Paranoide di Personalità appartiene al cluster A, che comprende i disturbi paranoie, schizoide e schizotipico, ed è contraddistinto da caratteristiche di eccentricità e stranezza. In accordo con recenti suggestioni della letteratura, che descrivono i DP in continuità con la Personalità normale e con i disturbi in asse I, è importante sottolineare che una modalità di pensiero leggermente paranoide non è di per sé patologica e può svolgere una funzione nello sviluppo dell’individuo e nell’organizzazione dell’esperienza. Si parla di disturbo Paranoide, quindi, quando la modalità di pensiero diventa pervasiva e rigida, quando cioè il modello di comportamento e di pensiero paranoide si manifesta in molteplici situazioni e ambiti della vita della persona e quando tale modello di comportamento e pensiero (stile) risulta inflessibile, resistente al cambiamento e all’apprendimento, ovvero non funzionale per l’adattamento.

La caratteristica principale del Disturbo Paranoide di Personalità è un’estrema sfiducia e sospettosità. Le persone con questo disturbo assumono che gli altri li sfruttino, li danneggino o li ingannino, anche di fronte a prove contrarie a queste aspettative, sospettano, sulla base di prove insignificanti o inesistenti, che gli altri complottino contro di loro; dubitano, senza giustificazione, della lealtà e della affidabilità di amici o colleghi, le cui azioni vengono esaminate minuziosamente per evidenziare intenzioni ostili. Gli individui con questo disturbo sono riluttanti ad entrare in intimità con gli altri, poiché temono che le informazioni che confidano vengano usate contro di loro e per questo motivo possono rifiutarsi di rispondere a domande personali. Leggono significati nascosti umilianti e minacciosi in rimproveri o altri fatti benevoli. Per esempio, possono malinterpretare un onesto errore da parte di qualcuno, come un tentativo deliberato di imbroglio, o possono vedere un rimprovero scherzoso come un grave attacco. I complimenti vengono spesso fraintesi, possono vedere un’offerta di aiuto come una critica al fatto che non stanno facendo abbastanza bene da soli.

Le persone con il disturbo paranoide provano costantemente risentimento e sono incapaci di dimenticare insulti, offese o ingiurie, che pensano di avere ricevuto. Piccole offese provocano grande risentimento, i sentimenti ostili persistono per molto tempo e reagiscono con rabbia agli insulti percepiti. Possono essere gelosi in modo patologico, spesso sospettano che il coniuge o il partner sia infedele, senza una giustificazione adeguata. Possono raccogliere prove per supportare le loro convinzioni di gelosia; possono pretendere di mantenere un controllo completo delle relazioni intime per evitare di essere traditi, e mettere in dubbio i luoghi in cui si trova, le azioni, le intenzioni, e la fedeltà del coniuge o partner. Le persone co DP Paranoide hanno difficoltà ad andare d’accordo con gli altri e spesso hanno problemi nelle relazioni strette. La loro eccessiva sospettosità e ostilità possono essere espresse con una chiara polemica, con lamentele ricorrenti. Per il loro atteggiamento sospettoso possono agire in modo guardingo, misterioso o tortuoso, ed apparire “freddi” e privi di sentimenti positivi. Sebbene possano sembrare obiettivi, razionali e privi di emotività, spesso dimostrano labilità affettiva con predominanza di espressioni ostili, ostinazione e sarcasmo. Poiché gli individui con il Disturbo Paranoide di Personalità non hanno fiducia negli altri, mostrano un’eccessiva necessità di essere autosufficienti e un forte senso dell’autonomia. Per la rapidità a contrattaccare in risposta alle minacce presunte, possono essere litigiosi e frequentemente coinvolti in dispute legali, possono mostrare fantasie grandiose e irrealistiche, spesso si impegnano in argomentazioni di potere e rango e tendono ad elaborare stereotipi negativi degli altri, particolarmente di coloro che appartengono a gruppi di popolazione distinti dal proprio. Possono essere percepiti come “fanatici”, e fondare “culti” o gruppi strettamente aggregati con altri che condividono i loro sistemi di convinzioni paranoidi. In risposta allo stress, gli individui con questo disturbo possono presentare episodi psicotici brevi (che durano da minuti a ore).

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Disturbo Schizoide di Personalità

Caratteristiche

Le caratteristiche essenziali del Disturbo Schizoide di Personalità consistono in modalità pervasive di distacco nelle relazioni sociali e una gamma ristretta di esperienze e di espressioni emotive nei contesti interpersonali. Tale modalità compare nella prima età adulta ed è presente in una varietà di contesti.

Gli individui con Disturbo Schizoide di Personalità sembrano non desiderare l’intimità, appaiono indifferenti in merito a stabilire relazioni strette, e non sembrano trarre molta soddisfazione dal far parte di una famiglia o di altro gruppo sociale. Non sono interessati, nè traggono piacere dalle relazioni sessuali con altre persone. Preferiscono passare il tempo da soli e appaiono socialmente isolati, scegliendo quasi sempre attività o passatempi solitari, che non implicano l’interazione con gli altri, ad esempio prediligono lavori in cui sia ridotto il contatto con gli altri, preferiscono compiti meccanici o astratti, come giochi al computer o matematici. Vi è di solito una ridotta capacità di provare piacere per esperienze sensoriali, fisiche o interpersonali. Questi individui non hanno amici stretti o confidenti, eccetto, a volte, un parente di primo grado. Gli individui con Disturbo Schizoide di Personalità spesso sembrano indifferenti sia all’approvazione che alle critiche degli altri, non rispondono appropriatamente alle condotte sociali, tanto da apparire socialmente inetti o superficiali e assorbiti da se stessi. Possono mostrare ridotta reattività emotiva, e raramente ricambiano gesti o espressioni del volto, come sorrisi o cenni del capo. Affermano di provare di rado forti emozioni, come rabbia e gioia, o sono incapaci di manifestarle. Comunque, in circostanze molto insolite, in cui questi individui si trovino almeno temporaneamente a proprio agio nel rivelare se stessi, possono riconoscere di avere sentimenti dolorosi. La terapia di questo disturbo è molto difficile, in quanto chi ne è affetto non ne riconosce la necessità, non prova disagio e raramente richiede aiuto, a differenza di ciò che si verifica nel Disturbo Evitante, che soffre per l’isolamento. Il confine con la schizofrenia è molto lieve e la diagnosi differenziale fra il disturbo di personalità e la psicosi è difficile.

Il disturbo non si manifesta esclusivamente durante il decorso della Schizofrenia, di un Disturbo dell’Umore con Manifestazioni Psicotiche, di un altro Disturbo Psicotico, o di un Disturbo Pervasivo dello Sviluppo, e non è dovuto agli effetti fisiologici diretti di una condizione medica generale.

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Doppio legame: l’espressione “doppio legame” o “doppio vincolo”, formulata da Gregory Bateson e col. negli anni ‘50, introduce gli elementi “esperienza” e “relazione” nella teoria della comprensione e del trattamento della schizofrenia e influenza in tal modo in maniera decisiva il movimento antipsichiatrico.

“La teoria del doppio vincolo afferma che una componente dovuta all’esperienza è presente nella determinazione e nell’eziologia dei sintomi della schizofrenia e nei modelli comportamentali affini come il comico, l’artistico, il poetico, ecc” (G.Bateson, 1972).

Dall’osservazione dei pazienti schizofrenici, delle loro famiglie, delle loro modalità di relazione e di comunicazione verbale e non verbale, si giunge alla definizione degli elementi fondamentali del doppio legame:

– Un’ingiunzione primaria negativa. Questa può assumere per esempio la seguente forma: “Non fare così, altrimenti ti punirò”. La punizione può consistere nella negazione dell’affetto, in una manifestazione di odio o collera o altro.

– Un’ingiunzione secondaria in conflitto con la prima a un livello più astratto e, come la prima, sostenuta da minacce di punizioni. L’ingiunzione secondaria è in genere comunicata al ricevente con mezzi non verbali: atteggiamento, gesti, tono della voce, ecc. (L’individuo si trova allo stesso tempo a ricevere messaggi di due ordini diversi, uno dei quali nega l’altro).

– Un’ingiunzione negativa terziaria che impedisce al ricevente di sottrarsi al conflitto determinato dalle prime due ingiunzioni. L’individuo si trova bloccato in una situazione che non gli permette di analizzare i messaggi che riceve e di metacomunicare su di essi, in quanto impossibilitato a discriminare a quale di due messaggi contraddittori debba rispondere.

– La frequente ripetizione dell’esperienza nel tempo e all’interno di un rapporto intenso con una o più persone significative per il soggetto coinvolto.

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E

Epilessia: Il termine epilessia deriva dal greco “epilepsia” e indica una condizione medica cronica caratterizzata da manifestazioni ricorrenti ed improvvise prevalentemente non provocate. Nel passato l’epilessia è stata associata ad esperienze religiose e anche a possessioni demoniache. Storicamente l’epilessia era chiamata la “Malattia Sacra” poiché secondo una visione popolare si credeva che gli attacchi epilettici fossero una forma di attacco dei demoni o comunque una manifestazione di potenza occulta. Ippocrate di Kos sottolineava che l’epilessia sarebbe stata considerata divina solo fino a quando non sarebbe stata compresa.

Una crisi epilettica è un mutamento breve nel comportamento causato dall’eccitazione disordinata, sincronica e ritmica di neuroni nel sistema centrale nervoso e coinvolgenti una o più funzioni cerebrali: stato di coscienza, funzioni mentali, attività motoria e sensitiva. L’aggregato di neuroni che fanno parte della sostanza grigia dell’encefalo, interessati dalla scarica, viene definito focolaio epilettogeno. Alcune ricerche mostrano come nei bambini tale patologia sia più frequente che nell’età adulta e, comunque, la maggior parte delle epilessie ha il suo esordio nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza. Le forme definite idiopatiche, non hanno nessuna causa attualmente riconoscibile e sono probabilmente determinate geneticamente. manifestandosi in soggetti per altro completamente sani, spesso guariscono completamente o si attenuano nell’adulto. Un gran numero di epilessie ad esordio infantile è invece dovuto ad un danno cerebrale acquisito prima o dopo la nascita mentre, infine, crisi epilettiche possono verificarsi in modo occasionale, scatenate da situazioni particolari come l’ipoglicemia.

La letteratura ha mostrato come i bambini affetti da epilessia, indipendentemente dal livello intellettivo, presenterebbero difficoltà legate alla memoria verbale e non verbale  a breve termine con riduzione, in alcuni casi, delle capacità attentive. Molti dati mettono però in evidenza una differenza tra i sessi per quanto attiene la specializzazione emisferica e la laterizzazione di particolari funzioni cognitive, per cui una ridotta specializzazione topografica renderebbe il sesso femminile meno vulnerabile all’azione di eventi lesivi e dell’attività parossistica epilettica. E’ fondamentale sottolineare l’importanza della valutazione precoce e multifocale del bambino all’interno del suo contesto ambientale. Tanto più è grave il tipo di epilessia e tanto minori saranno le possibilità di intervento terapeutico, sia farmacologico che riabilitativo. L’epilessia è comunemente controllata con i farmaci, sebbene metodi chirurgici sperimentali stiano lentamente prendendo piede, in ogni caso la terapia farmacologica è esclusivamente sintomatica, riuscendo a controllare la comparsa delle crisi, ma in nessun modo è disponibile una profilassi efficace o una terapia curativa.

Sulla base di quanto mostra l’elettroencefalogramma, gli attacchi possono essere classificati come parziali o generalizzati.

Gli effetti degli attacchi parziali possono essere minori in base all’area del cervello in cui essi sono attivi. Per esempio un attacco parziale in aree deputate alla percezione può causare una particolare esperienza sensoriale (per esempio la percezione di un odore, di una musica o di un lampo di luce) mentre, quando è localizzato nella corteccia motoria, l’attacco parziale può causare un movimento in un particolare gruppo di muscoli.

Questo tipo di attacco può produrre particolari pensieri o immagini interne o anche esperienze che possono essere distinte ma non facilmente descritte. Gli attacchi centrati nel lobo temporale sono famosi per il provocare esperienze mistiche o di estasi in alcune persone. Queste possono risultare in una diagnosi errata di psicosi o anche schizofrenia, se gli altri sintomi dell’attacco sono trascurati e non sono eseguiti altri test.

Gli attacchi generalizzati possono essere classificati in varie categorie, a seconda del loro effetto sullo stato di coscienza e possono manifestarsi con contrazioni muscolari che possono portare a masticarsi la lingua, non controllo delle vie urinarie, assenza di respiro, caduta in stato di incoscienza, assenza e instabilità. Anche negli attacchi generalizzati la crisi può essere accompagnata da intense visioni o da allucinazioni spesso di natura religiosa e mistica. L’epilettico può, dopo aver ripreso coscienza, avere forti convinzioni derivate dalle allucinazioni, che possono persistere per un po’ di tempo.

Gli attacchi tonico-clonici generalizzati possono interessare qualunque persona in alcune circostanze come quando sussistono stati febbrili o si sono subite contusioni, ma anche individui alcolisti o tossico dipendi possono manifestare crisi simili a quelle epilettiche anche se questi non sono generalmente classificati come affetti da epilessia. L’epilessia richiede che un individuo abbia attacchi che ricorrano col tempo in maniera imprevedibile.

Oltre alla classificazione degli attacchi epilettici, esiste un’ulteriore classificazione che riguarda le sindromi epilettiche (ripetersi periodico e imprevedibile di attacchi epilettici). Queste sono classificate in base al tipo/tipi di crisi che le caratterizzano, all’età di esordio, all’eziologia, e vari altri fattori. Sono state identificate più di 40 sindromi epilettiche dettagliatamente descritte nell’ILAE (International League Against Epilepsy).

Gli epilettici assumono talvolta una personalità definita “vischiosa”, un po’ noiosa e insistente con problemi psicologici soprattutto nell’adolescenza quando la loro patologia può essere causa di non accettazione da parte del gruppo dei pari. Gli individui epilettici, a causa dell’imprevedibilità dell’attacco possono essere particolarmente ansiosi.

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Etnopsichiatria: è un ramo teorico della psichiatria che si occupa di studiare e di classificare i disturbi e le sindromi psichiatriche a partire dallo specifico contesto culturale in cui si manifestano, e dal gruppo etnico di provenienza o di appartenenza del paziente; il termine si compone di tre parole greche:

  • Ethnos (razza, tribù, stirpe, famiglia, ma anche provincia, territorio) indica la dimensione locale, particolare, di una parte rispetto a un tutto e dunque anche le peculiarità storico-culturali da cui originano gli individui.
  • Psichè (soffio vitale, spirito) è intesa come un principio che rende umano l’individuo e non come un apparato psichico né come un organo materiale di pensiero.
  • Iatrèia (l’arte e la funzione del prendersi cura) non corrisponde alla figura del medico occidentale.

L’etnopsichiatria clinica nasce dalla scuola francese di Tobie Nathan, psicoanalista ebreo, che ha applicato in campo psicoterapeutico le teorie dell’etnologo Georges Devereux, riconosciuto come il fondatore dell’impianto teoretico dell’etnopsichiatria; questa disciplina ha messo in discussione i normali sistemi di cura ed ha portato alla creazione di un approccio nuovo, mirato e strategico verso le influenze culturali.

Si prefigge di individuare ed esaltare la specificità di certi disturbi, tipici e strettamente collegati all’ambiente culturale di insorgenza e non riducibili a categorie psichiatriche universalmente riconosciute o condivise. Essa cerca di comprendere il punto di vista delle popolazioni rispetto alle condizioni psichiatriche prese in esame.

La pratica dovrebbe basarsi sulla sensibilità metodologica nei confronti della sofferenza e della domanda di aiuto proveniente dagli immigrati, all’analisi dei particolari contesti storici e culturali dai quali provengono gli immigrati, all’esplorazione dei diversi saperi e delle pratiche terapeutiche di altre società, mantenendo un atteggiamento di apertura mentale, flessibilità e onestà intellettuale ed alla disponibilità all’autocritica dei propri modelli psicologici e psicoterapeutici.

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F

Fobia: paura estrema, irrazionale e sproporzionata per oggetti, situazioni o attività che non rappresentano di per sé una reale minaccia e verso cui la maggior parte delle persone si confronta senza particolari difficoltà. Chi ne soffre, infatti, è sopraffatto dal terrore all’idea di venire in contatto con il proprio oggetto fobico, spesso un animale innocuo come un ragno o una lucertola, o di fronte alla prospettiva di compiere un’azione che lascia indifferenti la maggior parte delle persone (ad esempio, il claustrofobico non riesce a prendere l’ascensore o la metropolitana, o più in generale a trovarsi in piccoli ambienti chiusi). Si tratta comunque di condizioni che in generale non sono considerate come estremamente piacevoli da quasi nessuno: in molti non amano gli insetti, dividere spazi angusti con altre persone, parlare di fronte ad una folla immensa e così via. La differenza tra il fastidio ed il disturbo vero e proprio, sta nel fatto che le persone che soffrono di fobie si rendono perfettamente conto dell’irrazionalità di certe reazioni emotive, ma non possono controllarle e quindi il tentativo di evitarle e le manifestazioni fisiologiche che compaiono in tali circostanze sono irresistibili.

La presenza dell’oggetto fobico, o talvolta anche solo il pensiero di esso, induce alcuni sintomi fisiologici come tachicardia, disturbi gastrici e urinari, nausea, diarrea, senso di soffocamento, rossore, sudorazione eccessiva, tremito e spossatezza. Si sta male e si desidera una cosa sola: fuggire!

Scappare, d’altra parte, è una strategia di emergenza. La tendenza ad evitare tutte le situazioni o condizioni che possono essere associate alla paura, sebbene riduca sul momento gli effetti della paura, in realtà costituisce una micidiale trappola: ogni evitamento, infatti, conferma la pericolosità della situazione evitata e prepara l’evitamento successivo (in termini tecnici si dice che ogni evitamento rinforza negativamente la paura). Tale spirale di progressivi evitamenti produce l’incremento, non solo della sfiducia nelle proprie risorse, ma anche della reazione fobica della persona, al punto da interferire significativamente con la normale routine dell’individuo, con il funzionamento lavorativo o scolastico oppure con le attività o le relazioni sociali. Chi ha la fobia dell’aereo può trovarsi, ad esempio, a rinunciare a molte trasferte, e la cosa diventa imbarazzante se è necessario spostarsi per lavoro. Chi è terrorizzato dagli aghi e dalle siringhe può rinunciare a controlli medici necessari o privarsi dell’esperienza di una gravidanza. Chi ha paura dei piccioni non attraversa le piazze e non può godersi un caffè seduto ai tavolini di un bar all’aperto e così via.

Più in specifico, esistono le fobie generalizzate (agorafobia e fobia sociale), fortemente invalidanti, e le comuni fobie specifiche, generalmente ben gestite dai soggetti evitando gli stimoli temuti, che si classificano così:

Tipo animali. Fobia dei ragni (aracnofobia), fobia degli uccelli o fobia dei piccioni (ornitofobia), fobia degli insetti, fobia dei cani (cinofobia), fobia dei gatti (ailurofobia), fobia dei topi, ecc..

Tipo ambiente naturale. Fobia dei temporali (brontofobia), fobia delle altezze (acrofobia), fobia del buio (scotofobia), fobia dell’acqua (idrofobia), ecc..

Tipo sangue-iniezioni-ferite. Fobia del sangue (emofobia), fobia degli aghi, fobia delle siringhe, ecc.. In generale, se la paura viene provocata dalla vista di sangue o di una ferita o dal ricevere un’iniezione o altre procedure mediche invasive.

Tipo situazionale. Nei casi in cui la paura è provocata da una situazione specifica, come trasporti pubblici, tunnel, ponti, ascensori, volare (aviofobia), guidare, oppure luoghi chiusi (claustrofobia o agorafobia).

Altro tipo. Nel caso in cui la paura è scatenata da altri stimoli come: il timore o l’evitamento di situazioni che potrebbero portare a soffocare o contrarre una malattia (vedi anche disturbo ossessivo-compulsivo e ipocondria), ecc. Una forma particolare di fobia riguarda il proprio corpo o una parte di esso, che la persona vede come orrende, inguardabili, ripugnanti (dismorfofobia).

E’ importante chiarire che il tipo di fobia da cui si è affetti non ha alcun significato simbolico inconscio e la paura specifica è legata unicamente ad esperienze di apprendimento errato involontario (non necessariamente ricordate dal soggetto), per cui l’organismo associa involontariamente pericolosità ad un oggetto o situazione oggettivamente non pericolosa. Si tratta, in sostanza, di un processo di cosiddetto “condizionamento classico”. Tale condizionamento si mantiene inalterato nel tempo a causa dello spontaneo evitamento sistematico che i soggetti fobici mettono in atto rispetto alla situazione temuta.

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G

Genere: La letteratura scientifica in ambito psicologico non definisce il genere in termini certi e assoluti. Sebbene si sia scritto molto sull’argomento, esplorando le differenze fra maschile e femminile, pochi esplorano in pratica le cause che oggettivamente producono tali differenze. Il dibattito sulla importanza relativa che ricopre il contrasto tra natura e ambiente sembra destinato a rimanere senza soluzioni a breve; la considerazione di come i fattori genetici o culturali/ambientali possano influenzare lo sviluppo acquista ancora maggiore importanza alla luce delle moderne istanze di rivalutazione del ruolo della donna. In generale, la ricerca del settore evidenzia come la personalità e le differenze di comportamento siano da attribuire ad apprendimento e a condizionamenti o a modelli di imitazione piuttosto che a fattori puramente biologici, sebbene ancora oggi una parte non trascurabile delle ricerche si concentri sul tentativo di individuare differenze nelle dimensioni e nella struttura del cervello che potrebbero condizionarne le funzionalità.
Gli studi di genere propongono una suddivisione, sul piano teorico-concettuale, tra sesso e genere come aspetti dell’identità:

  • Il sesso (sex) costituisce un corredo genetico, un insieme di caratteri biologici, fisici e anatomici che producono un binarismo maschio / femmina, rimanda cioè alla dimensione corporea;
  • Il genere (gender) rappresenta una costruzione culturale, la rappresentazione, definizione e incentivazione di comportamenti che rivestono il corredo biologico e danno vita allo status di uomo / donna.

Sesso e genere non costituiscono due dimensioni contrapposte ma interdipendenti: sui caratteri biologici si innesca il processo di produzione delle identità di genere. Traducono le due dimensioni dell’essere uomo e donna. Il genere è un prodotto della cultura umana e il frutto di un persistente rinforzo sociale e culturale delle identità: viene creato quotidianamente attraverso una serie di interazioni che tendono a definire le differenze tra uomini e donne. A livello sociale è necessario testimoniare continuamente la propria appartenenza di genere attraverso il comportamento, il linguaggio, il ruolo sociale. Si parla a questo proposito di ruoli di genere. In sostanza, il genere è un carattere appreso e non innato. Il rapporto tra sesso e genere varia a seconda delle aree geografiche, dei periodi storici, delle culture di appartenenza. I concetti di maschilità e femminilità sono concetti dinamici che devono essere storicizzati e contestualizzati. Ogni società definisce quali valori additare alle varie identità di genere, in cosa consiste essere uomo o donna. Maschilità e femminilità sono quindi concetti relativi.

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Genogramma: Il genogramma è una forma di rappresentazione dell’albero genealogico che registra informazioni sui membri della famiglia e sulle loro relazioni nel corso di almeno tre generazioni. Esso mette in evidenza graficamente le informazioni della famiglia, in modo da offrire una rapida visione di insieme dei complessi patterns familiari. Il genogramma si colloca allo stesso tempo in unaprospettiva strutturale, funzionale e relazionale. Da un punto di vista strutturale esso non rispecchia, come nel caso della genealogia, soltanto i ruoli istituzionali dei membri della famiglia e i loro vincoli di sangue, ma include anche i “membri parafamiliari”, coloro che hanno rivestito o rivestono un importante ruolo affettivo o funzionale in assenza di legami di sangue.

La prospettiva funzionale fa riferimento all’insieme delle modalità con le quali i membri del sistema familiare hanno gestito, nel corso del tempo, gli eventi del ciclo vitale che hanno prodotto importanti cambiamenti nell’esistenza di ciascun componente del sistema. Questa funzionalità si esplica attraverso le relazioni che intercorrono tra i membri della famiglia nel corso delle generazioni e dal ripetersi, nel corso della storia familiare, dicomportamenti definibili “ridondanze”. L’osservazione di queste ultime consente di conoscere le regole del sistema e di evidenziare gli elementi che inducono o possono indurre il cambiamento.

Il genogramma, utilizzato all’interno del setting terapeutico, consente di rivivere il proprio passato familiare nel qui ed ora,suscita emozioni, fa emergere elementi rimossi o rimasti in ombra, evidenzia ridondanze e permette così la rilettura della propria storia familiare, la scoperta e la ridefinizione di eventi nodali e di nessi che inducono nuove riflessioni e maggiore consapevolezza.

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Gestalt: Con il termine psicologia della Forma, detta anche psicologia della Gestalt, ci si riferisce alla teoria psicologica che ha avuto inizio, principalmente nell’ambito della cultura tedesca, in seno alla più ampia corrente di ricerca fenomenologica (1874/1930) quando, nel 1912, Wertheimer pubblica un lavoro sul movimento stroboscopico. La prospettiva fenomenologica si sviluppa sotto l’influsso del pensiero di Brentano, insieme a Wundt, il quale propone un cambiamento radicale rispetto all’oggetto dell’analisi psicologica: non più indicato nei contenuti dei processi psichici bensì negli stessi atti intenzionali del soggetto. All’interno di questa prospettiva sono vari gli apporti che provengono dagli studiosi, ma dopo il 1912 la teoria della Forma si differenzia dalle altre correnti d’ispirazione fenomenologica per una sua evoluzione concettuale e metodologica.

Gli studiosi della teoria della Forma assumono un atteggiamento fenomenologico, cioè considerano il mondo nel suo darsi immediato al di là di precognizioni, scomposizioni o mediazioni, pertanto l’attenzione è rivolta alla percezione come processo psichico primario della conoscenza. La percezione è il campo d’indagine privilegiato dei gestaltisti, che comunque si sono occupati anche di altri processi mentali e delle dinamiche sociali. La teoria della forma è stata spesso chiamata anche teoria di campo secondo cui ogni fenomeno è concepibile come un campo dove interagiscono forze diverse che tendono a creare uno stato di equilibrio; l’ingresso di una nuova forza richiede una riorganizzazione di tutto il campo.

Una forma è qualcosa di diverso o qualcosa di più rispetto alla somma delle sue parti. Possiede delle proprietà che non risultano dalla semplice somma delle proprietà degli elementi che la costituiscono. Inoltre, una stessa parte ha caratteristiche diverse se presa singolarmente o in un tutto e avrà caratteristiche diverse secondo la totalità in cui è inserita. È chiaro quindi, che le percezioni non corrispondono direttamente alla realtà fisica, perciò accanto al mondo degli oggetti va distinto un altro livello di realtà, il mondo fenomenico, frutto dei processi percettivi. Prendendo ora in esame le parti, esse sono elementi di una specifica totalità la cui struttura e organizzazione è determinata da concrete leggi della Gestalt. Le principali regole di organizzazione dei dati percepiti sono:

  1. buona forma (la struttura percepita è sempre la più semplice);
  2. prossimità (gli elementi sono raggruppati in funzione delle distanze);
  3. somiglianza (tendenza a raggruppare gli elementi simili);
  4. buona continuità (tutti gli elementi sono percepiti come appartenenti ad un insieme coerente e continuo);
  5. destino comune (se gli elementi sono in movimento, vengono raggruppati quelli con uno spostamento coerente);
  6. figura-sfondo (tutte le parti di una zona si possono interpretare sia come oggetto sia come sfondo);
  7. movimento indotto (uno schema di riferimento formato da alcune strutture che consente la percezione degli oggetti);
  8. pregnanza (nel caso gli stimoli siano ambigui, la percezione sarà buona in base alle informazioni prese dalla retina).

Queste leggi sono utili per spiegare le illusioni ottiche in cui le figure possono essere percepite in modo oggettivo ma anche in base alle aspettative, quindi la natura dell’illusione è psicologica e soggettiva. Un concetto fondamentale della teoria della Forma è il principio dell’isomorfismo con il quale si afferma il parallelismo fra la forma psicologica e quella fisiologica, derivante dall’identità di leggi di strutturazione che le regolano. Ciò non significa che quanto accade sul piano fenomenico abbia una copia nel cervello, ma, come dice Mecacci, l’isomorfismo indica una identità dei rapporti tra le parti all’interno e della struttura psicologica e di quella fisiologica, un’adesione a leggi comuni di funzionamento.

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Gruppi Appartamento (G.A.): con almeno 2 ore di assistenza, accoglie utenti già autonomizzati in uscita dal circuito psichiatrico riabilitativo.

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Gruppoanalisi: La Gruppoanalisi nasce in Inghilterra nei primi anni ’40 del XX secolo e trova la sua prima applicazione nell’intervento psicoterapeutico sui soldati ricoverati nelle cliniche militari che combatterono la Seconda Guerra Mondiale. Diffusasi successivamente in tutto il mondo, essa rappresenta sia un approccio alla comprensione dei processi di gruppo che una particolare pratica della psicoterapia di gruppo. Il suo fondatore, S. H. Foulkes (1898-1976), ha basato il suo approccio sull’idea che la personalità umana sia profondamente sociale e pertanto ha attribuito al contesto nel quale l’individuo è calato un valore fondamentale. Per spiegare in maniera paradigmatica tale concetto, Foulkes ha mutuato l’analogia evidenziata dal neurologo K. Goldstein (1878-1965) del neurone come punto nodale nella rete totale del sistema nervoso, che reagisce sempre come un insieme. In particolare, secondo il modello gruppoanalitico, l’individuo sarebbe profondamente permeato dall’ambiente circostante e farebbe parte di una rete sociale di cui egli rappresenta un punto nodale. Per descrivere la rete in cui si trova l’individuo, sia nella famiglia che nella rete sociale allargata di amici e colleghi, Foulkes ha utilizzato il termine plexus (Brown, D., Zinkin, L., 1994). Inoltre, ha utilizzato il termine transpersonale per riferirsi a quel processo interattivo inconscio che ha luogo all’interno di una rete e che si esplica nella trasmissione di codici culturali generali, transfamiliari che vanno a influenzare profondamente l’individuo e le sue modalità relazionali.

Un concetto di importanza centrale per la Gruppoanalisi è quello di matrice. Esso deriva dalla parola latina mater (madre), incarna per Foulkes il principio della connessione all’interno del gruppo ed è da lui definita come l’ipotetica trama di comunicazione e relazioni in un dato gruppo. E’ lo sfondo comune condiviso che determina in ultima analisi il significato e l’importanza di tutti gli eventi e su cui poggiano tutte le comunicazioni e interpretazioni, verbali e non verbali (Foulkes, 1964, p.292). Foulkes ha declinato il concetto di matrice in base ai diversi contesti di appartenenza dell’individuo, individuando:

  • Una matrice dinamica o del gruppo: si riferisce alla storia dello sviluppo di un gruppo ed è fondata sulla rete comunicazionale e interpersonale costruita, nel tempo, dai membri del gruppo. Sulla base di tale matrice, si sviluppa una forma di organizzazione psicologica fondata su esperienze, relazioni e comprensioni reciproche.
  • Una matrice del gruppo familiare: si riferisce alla storia dello sviluppo del gruppo familiare originario di ciascun individuo.
  • Una matrice personale: consiste nel complesso di processi interattivi che corrispondono alla mente dell’individuo. Si forma a partire dall’esperienza dell’individuo di fare parte di un gruppo, quello familiare originario, di cui ha incorporato l’intero insieme di rapporti e la loro fantasmatizzazione.
  • Una matrice culturale di base: si riferisce alla cultura di appartenenza condivisa che consente a membri che ne fanno parte di comprendersi a livelli di profondità elevata. E’ basata sulle proprietà biologiche della specie, ma anche sui valori e sulle reazioni saldamente radicati dal punto di vista culturale.

Gli ambiti di intervento della Gruppoanalisi sono molteplici e trovano sicuramente nel setting di tipo gruppale il terreno più fertile d’applicazione, non solo in contesti clinici, ma anche preventivi e formativi.

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H

Handicap: condizione di svantaggio conseguente a menomazione e/o disabilità che limita o impedisce l’adempimento del ruolo normale da parte di un soggetto in relazione all’età, sesso, fattori socio-culturali. La legge 104/92, nel riordinare in senso generale l’assistenza, ha posto al centro del progetto il recupero non solo funzionale ma anche sociale della persona handicappata.

Recupero che vede come perno l’integrazione nella famiglia e nella scuola ma anche e soprattutto l’integrazione nel lavoro.

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Hikikomori: è una parola, ma anche un concetto culturale circoscritto, giapponese che unisce i termini hiku “tirare” e komoru “ritirarsi” e che significa quindi stare in disparte, isolarsi. Tale termine si riferisce ad una categoria di persone che scelgono di ritirarsi dalla vita sociale, ricercando attivamente livelli di isolamento estremo a causa di fattori personali e sociali. Tale fenomeno è stato descritto anche dal Ministero della Salute giapponese e si riferisce a coloro che rifiutano di lasciare le proprie abitazioni per un periodo di almeno sei mesi. Può capitare che tale isolamento, iniziato gradualmente con perdita di relazioni sociali, insicurezza e timidezza, arrivi a durare fino a decenni. Il confinamento dall’abitazione spesso si sposta in una sola stanza con il rifiuto categorico di ogni contatto umano. Il fenomeno sembra principalmente maschile ed è frequentemente associato ad un precoce abbandono degli studi. Alcune ricerche mettono in relazione l’insorgenza del fenomeno ed atti di bullismo subiti dai futuri hikikomori durante il periodo scolastico. Sovente i ragazzi in isolamento posso avere reazioni aggressive verso i genitori.

Sul tema vedi anche Recensione di M., Zielenzinger Non voglio più vivere alla luce del sole.

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I

Identità: (inglese: Identity; tedesco: Identität; francese: Identité)

Con il concetti di identità in Psicologia si vuole intendere il senso del proprio essere continuo attraverso il tempo e distinto, come entità, da tutte le altre identità. Locke e Hume oggettivavano l’identità come un meccanismo psicologico  che non ha il suo fondamento dell’Io ma nella relazione che la memoria instaura  tra le impressioni mutevoli  e tra il presente il passato. L’identità non è considerata un dato ma una costruzione della memoria.

La Psicologia, accogliendo tali speculazioni filosofiche, ha parlato di identità e di crisi dell’identità in ordine alla solidità o alla fragilità di questo processo di costruzione.

Distinguiamo una identità conscia da una identità inconscia.

L’identità conscia è la riflessione che l’individuo compie sulla propria continuità temporale e sulla sua istintività dagli altri. Erikson (1950, 1968, 1982) pensa che molti aspetti dello sviluppo dell’Io si possano formulare in termini di crescita del senso d’identità che va incontro a crisi di varia natura durante l’età evolutiva. L’Autore, per primo, ha sottolineato che nel ciclo di vita ci sono una serie di compiti che gli individui devono affrontare e la formazione dell’identità rappresenta per l’intera vita dell’individuo una sfida continua anche se è soprattutto in adolescenza che acquista una rilevanza particolare. In questo periodo i ragazzi, operando sintesi fra passato-presente-futuro, per mettere a fuoco una chiara immagine del proprio Io,  devono ristrutturare la loro identità a seguito dei rapidi cambiamenti che avvengono a livello fisico (dovuti allo sviluppo puberale), a livello cognitivo (legati all’acquisizione del pensiero ipotetico-deduttivo) e sociale (ingresso in una nuova scuola, formazione di nuovi legami di amicizia, cambiamento nelle relazioni familiari). In sintesi, per Erikson il dilemma da affrontare durante l’adolescenza riguarda la tensione fra identità e diffusione dell’identità. Acquisire un’identità significa sviluppare un “Io” autonomo, capace di iniziare e portare a termine un impegno preso, scelto fra diverse alternative e in linea con i propri interessi, talenti e valori. Se il processo di costruzione dell’identità riesce con successo, l’individuo avrà un sé ben definito, coerente e distinto da quello degli altri. Egli riuscirà a definire con chiarezza i propri orientamenti di vita ed esperirà una condizione di benessere personale e sociale. Se invece tale processo non avviene con successo, l’individuo passerà da una identificazione a un’altra, provando ruoli sociali diversi, senza riuscire a trovarne uno su cui investire stabilmente le proprie energie.

L’Autore offre una concezione stadiale e dinamica della vita dell’uomo, in cui ciascuna fase è contrassegnata da un dilemma che deve essere risolto affinché sia possibile il superamento e l’ingresso nello stadio successivo. Ogni stadio si presenta come un arricchimento del precedente, riorganizzando il tutto in modo che divenga qualcosa di originale. L’Autore prevede numerosi stadi qualitativi di organizzazione della personalità, ognuno con caratteristiche proprie irripetibili e che si manifestano in una sequenza invariante e gerarchica. Un paradigma evolutivo che si pone in netto contrasto con quegli studiosi che sostengono che i tratti della personalità esistano dalla nascita e siano quindi patrimonio ereditario dell’individuo.

Per Erikson  dotazione biologica, esperienza e organizzazione personale, ambiente culturale si intrecciano dando vita per ciascuno di noi ad una identità unica.

L’identità inconscia è, d’altro lato, il contrario dell’identità conscia poiché non ospita la distinzione psichica tra sé e l’oggetto esterno.

Jung (1921), nei Tipi psicologici m scrive che nella partecipazione mistica dei primitivi, nello stato mentale della prima infanzia  e nell’inconscio dell’uomo civilizzato e adulto l’identità consiste innanzi tutto in un’uguaglianza inconscia con gli oggetti. Essa non è un’equiparazione o un’identificazione bensì un’uguaglianza data a priori che non è mai rientrata nell’ambito della coscienza. Sull’identità, secondo lo Psicologo, si basa l’ingenuo pregiudizio che la psicologia dell’uno  sia uguale  a quella dell’altro, che dappertutto valgano gli stessi motivi, che ciò che piace a me debba piacere anche agli altri, così come ciò che è immorale per me lo debba essere anche per gli altri individui. L’identità, per Jung, si rivela in modo particolarmente chiaro in casi patologici come , ad esempio, nel delirio paranoico di riferimento. In tale delirio, infatti, viene presupposta come cosa ovvia negli altri l’esistenza del proprio contenuto soggettivo.

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Identità di genere

L’identità di genere è il senso soggettivo di consapevolezza del genere di appartenenza, il senso di mascolinità o di femminilità, percepito interiormente. Essa fa pertanto riferimento al fatto di riconoscersi come «caratterizzati da una costellazione di aspetti psicologici, interessi, valori e attitudini associati ai sessi in base ad aspettative, valori e norme culturali di riferimento» (Zammuner, 2000)
Si considera identità di genere di un individuo il sesso a cui, indipendentemente dalla sessualità biologica, si sente di appartenere (Rogers, 2000).
Il sesso di un individuo è costituito in senso stretto dal corredo genetico e dall’insieme delle caratteristiche biologiche, fisiche e anatomiche dell’individuo stesso.
Il genere riguarda la costruzione, la rappresentazione e l’adozione di comportamenti specifici che definiscono lo stato di uomo/donna.
L’identità di genere è il “senso di se stesso”, l’unità e la persistenza della propria individualità maschile o femminile o ambivalente, particolarmente come esperienza sessuata di se stessi e del proprio comportamento.
Tale appartenenza può esprimersi quindi con vissuti e comportamenti corrispondenti o non corrispondenti al sesso biologico, indipendentemente quindi dal ruolo sessuale che l’individuo presenta agli altri, volontariamente o meno.

L’identità di genere si differenzia dal ruolo di genere, che rappresenta tutti i comportamenti e le condotte messe in atto per esprimere l’appartenenza ad un determinato sesso, e dall’orientamento sessuale, che si definisce come la preferenza nel rispondere a certi stimoli sessuali sulla base di un’attivazione erotica verso individui dello stesso sesso o di sesso opposto.
I bambini, sia maschi che femmine, nascono con delle caratteristiche proprie di personalità, un  corredo genetico ben definito e durante i primi anni di vita possono propendere verso un’identità di genere femminile o maschile. Questa costruzione identitaria dell’appartenenza di genere sessuale va definendosi con il passare degli anni, influenzata dagli aspetti culturali, sociali ed ambientali che rivestono un ruolo primario nella creazione di un modello interno di appartenenza ad un sesso piuttosto che all’altro.
Questo processo può quindi determinare le scelte di appartenenza di genere di ciascun individuo, definendo la sua identità di genere, in maniera a volte discordante da quello che è il sesso biologico.
La presenza di interessi tipici del sesso opposto è un fenomeno che si manifesta sia nel corso del normale sviluppo, sia quando i normali processi evolutivi vengono perturbati. Quando le preoccupazioni relative al genere assumono un carattere intenso, persistente ed invasivo, la condizione viene definita disturbo dell’identità di genere (DIG).

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Illusioni percettive e immagini ambigue: un’illusione ottica è una qualsiasi alterazione percettiva che inganna l’apparato percettivo umano, facendogli percepire qualcosa che non è presente o facendogli percepire in modo scorretto qualcosa che nella realtà si presenta diversamente, segnando cioè una discrepanza tra mondo fisico e mondo percepito.
Esistono tre categorie di illusioni:

  • ottiche, quando sono causate da fenomeni puramente ottici e, di conseguenza, non dipendenti dalla fisiologia umana;
  • percettive, in quanto generate dalla fisiologia dell’occhio. Un esempio sono le immagini postume che si possono vedere chiudendo gli occhi dopo avere fissato un’immagine molto contrastata e luminosa;
  • cognitive, dovute all’interpretazione che il cervello dà delle immagini. Un caso tipico sono le figure impossibili e i paradossi prospettici.

Un miraggio è un esempio di illusione naturale dovuta a un fenomeno ottico. La variazione nella dimensione apparente della luna (più piccola quando è sopra la nostra testa, più grande quando è vicina all’orizzonte) è un’altra illusione naturale; non si tratta di un fenomeno ottico, ma piuttosto di un’illusione cognitiva o percettiva. Comprendere questi fenomeni è utile allo scopo di comprendere le limitazioni del sistema visivo umano.
Illusioni ottico-geometriche
Sono illusioni cognitive in cui viene percepita erroneamente la geometria dell’immagine o parte di essa. Ad esempio, linee parallele vengono percepite come divergenti, convergenti o curve. In altri casi due elementi che hanno la stessa dimensione sono percepiti con dimensione differente. L’effetto può essere causato dal fatto che un’area di colore chiaro tende ad essere percepita come più ampia della stessa area di colore scuro. Questo principio viene utilizzato in architettura per aumentare o diminuire l’altezza o la dimensione apparente di stanze o facciate scegliendo opportunamente i colori. Un’altra causa è dovuta alla tendenza del cervello a stimare una dimensione basandosi su effetti prospettici o sul confronto con oggetti vicini. Nell’ambito cinematografico è frequente l’impiego di trucchi di illusione geometrica per rappresentare oggetti molto grandi usando piccoli modelli oppure oggetti piccoli. Per esempio è possibile fare apparire in scena enormi dinosauri semplicemente ponendo dei loro piccoli modellini molto vicini all’obiettivo fotografico.
Illusioni prospettiche
Per rappresentare le immagini tridimensionali su una superficie piatta si utilizzano tecniche di proiezione prospettica. In alcune situazioni però la rappresentazione è ambigua, ed il cervello umano tende a costruire la rappresentazione ritenuta più normale, oppure rimane incerto tra due possibili situazioni, come nel cubo di Necker. Sarebbe la prospettiva a causare la distorsione perché la profondità è suggerita dai tratti prospettici.
Illusioni di colore o di contrasto
In questa categoria di illusioni, particolari giochi di contrasto inducono a giudicare di colore o livelli di colore differente due aree che in realtà sono identiche (cfr Scacchiera di Adelson).
Illusioni di completamento
In alcune illusioni si ha la percezione di parti di immagini che non esistono realmente. In alcuni casi la natura del fenomeno è fisiologica. Questo effetto è spiegabile con il processo neurologico chiamato inibizione laterale. L’intensità luminosa percepita di un punto non è data da un singolo neurone, ma diversi neuroni centrali danno un segnale che viene parzialmente inibito dai neuroni circostanti. Poiché nelle intersezioni l’area circostante è mediamente più chiara che non nei tratti di linee, la zona centrale appare più scura. Altre illusioni di immagini inesistenti sono invece prodotte dalla mente (cfr. triangolo di Kanizsa).
Illusioni figurali postume
Si tratta di illusioni che distorcono una figura osservata dopo aver a lungo trattenuto lo sguardo su un’altra immagine. Ad esempio l’esposizione di una retta seguita da quella di una linea curva tende a far vedere la prima come piegata nella direzione opposta rispetto alla curvatura precedentemente percepita.
Figure distorte
Si tratta di immagini fortemente distorte in senso anamorfico in modo che viste frontalmente siano incomprensibili. Solamente osservando l’immagine da un’opportuna angolazione piuttosto radente il piano è possibile vedere correttamente ciò che è rappresentato. Questa tecnica era molto utilizzata nel campo della pittura e risulta già conosciuta da Leonardo da Vinci che ne aveva oggettivato l’utilizzo in alcuni appunti.
Figure ambigue
Si tratta di immagini con due o più possibili figure distinte osservabili. Le singole figure possono essere viste a seconda del punto di vista (per esempio capovolgendole), ed in tale caso la percezione è oggettiva, oppure a seconda delle aspettative, quindi la natura dell’illusione è psicologica e soggettiva.
Figure impossibili
Sono rappresentazioni bidimensionali di oggetti che non potrebbero esistere nel mondo tridimensionale. Particolarmente famose sono le rappresentazioni di ambienti impossibili di Escher.

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Isteria: attualmente nota come Disturbo di Conversione, si manifesta con una sintomatologia caratterizzata da segni o deficit di funzioni motorie volontarie o sensitive che suggeriscono una condizione medica generale o neurologica. Spesso il disturbo si manifesta a seguito di un periodo di stress molto intenso o più lieve ma duraturo nel tempo; non si tratta di un disturbo simulato (Disturbi Fittizi o Simulazione) e solo dopo i dovuti accertamenti clinici emerge la non organicità dell’origine della condizione, che non è dovuta all’uso di sostanze e non è limitato a dolore o disfunzioni sessuali, non si manifesta esclusivamente nel corso di un Disturbo di Somatizzazione e non è meglio spiegabile da un altro disturbo mentale.

In caso di Disturbo da Conversione è necessario distinguerne il tipo sulla base dei sintomi o deficit presenti: Con sintomi o deficit motori

Con attacchi epilettiformi o convulsioni

Con sintomi o deficit cognitivi

Con sintomatologia mista.

Il termine isterico viene spesso attribuito a gesti drammatici esagerati che in realtà sono propri di un disturbo diverso: L’istrionico.

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Insonnia: L’insonnia, detta anche “agripnia”, è un termine con il quale si intende sia il deficit quantitativo di sonno, cioè il dormire per un tempo non ragionevole o il non dormire affatto, sia il deficit qualitativo, cioè il dormire male, in maniera non riposante. Coloro che ne soffrono di solito lamentano di non essere in grado di dormire che per pochi minuti alla volta o di agitarsi nel letto durante la notte anche quando si trovano stanchi o con bisogno fisiologico di sonno.

Se l’insonnia continua per più di alcune notti di seguito può divenire cronica e causare un deficit nel sonno che è estremamente nocivo per la salute dell’insonne. L’insonnia altera il naturale ciclo del sonno, che può risultare difficile da restaurare. Alcuni insonni non saggiamente continuano a lamentarsi sebbene cerchino di dormire nel pomeriggio o nella prima serata col risultato di ritrovarsi all’ora di dormire molto vigili aggravando l’insonnia. Altri spingono il loro corpo fino ai propri limiti, sin quando la mancanza di sonno causa gravi problemi fisici e mentali.

Sotto il profilo sintomatico, è possibile distinguere tre tipi di insonnia:

  1. insonnia “iniziale”. Il disturbo più frequente; si identifica con la difficoltà ad addormentarsi. L’insonne si agita nel letto, rigirandosi alla ricerca di una posizione ottimale che concili il sonno, oppure si alza, accende la luce, gira per casa, beve qualcosa, si dedica alla lettura ed a ogni altro espediente che possa aiutarlo a dormire, ma senza successo, fino a quando non cade addormentato solo alle prime luci dell’alba;
  2. insonnia “intermittente o lacunare”. In certi soggetti il sonno rimane leggero per tutta la notte, intervallato da frequenti e brevi risvegli, talvolta in seguito a incubi. Altre volte invece il soggetto si sveglia una o più volte durante la notte rimanendo sveglio per un periodo discretamente lungo, ma tali periodi di veglia sono intervallati da fasi di sonno normali.
  3. insonnia “terminale”: il terzo ed ultimo tipo di insonnia, caratterizzata da un risveglio spontaneo precoce dei soggetti che ne sono affetti i quali non sono capaci di riaddormentarsi.

Sotto il profilo diagnostico, l’insonnia può essere classificata come transiente, acuta o cronica:

  1. l’insonnia transiente dura meno di una settimana, e può essere causata da altri disordini, cambi di ambiente, depressione o stress. Le sue conseguenze, sonnolenza e ridotte abilità psicomotorie, sono simili a quella della semplice privazione del sonno;
  2. l’insonnia acuta è l’impossibilità di dormire in modo soddisfacente per meno di un mese;
  3. l’insonnia cronica dura più di un mese e può essere disordine primario o causato da altre patologie. I suoi effetti dipendono dalle cause che la inducono e possono includere affaticamento muscolare, allucinazioni, affaticamento mentale e doppia visione.

Una delle forme dell’insonnia cronica è la Meteoropatia. Disturbo psicosomatico per eccellenza essa si manifesta sia con la depressione e sia con l’ansia e le sue determinanti non sono ancora chiare. L’influenza del tempo atmosferico sulle cellule nervose ed i suoi neurotrasmettitori potrebbe comunque essere intesa come stimolo esterno dato da temperatura, umidità, pressione, luce, ecc. che in un certo modo influenzano il metabolismo dei neurotrasmettitori. Lo sbilanciamento di queste sostanze chimiche è anche alla base dei sintomi legati al momento depressivo, quali mal di testa, fatica ed insonnia, per citare i più comuni. Il sintomo tipico di chi non sopporta ad esempio il cambio di stagione autunnale è quello di svegliarsi con un senso di stanchezza e incapacità ad affrontare la giornata. I meteoropatici soffrono, generalmente, di una specie di sonnolenza e di torpore dai caratteri simili ad una narcosi improvvisa quando il tempo atmosferico volge al peggioramento (bassa pressione). Viceversa, tendono alla ipereccitabilità ed all’insonnia quando il tempo atmosferico volge al miglioramento (alta pressione).

Dal punto di vista eziologico, l’insonnia occasionale può essere causata da sconvolgimenti psicologici, stress, allergie alimentari, scadente igiene del sonno (andare a letto nei momenti sbagliati, uso di eccitanti, visione di film particolarmente stressanti prima di andare a dormire, ecc.), assunzione di alimenti con effetti stimolanti e di alcuni farmaci. Altre forme di insonnia possono invece essere legate a patologie psicologiche (l’insonnia è caratteristica nelle persone affette da disturbo bipolare di personalità o psiconevrosi depressiva) oppure fisiche.

Esiste un grande numero di rimedi per l’insonnia, alcuni dei quali derivanti da tradizioni popolari antiche, altri frutto delle moderne ricerche farmacologiche o psichiatriche. Dal punto di vista psicologico, in soggetti che soffrono di insonnia non correlabile ad alcun disturbo organico o neurologico specifico, la mancanza di sonno è sintomo di un problema emotivo non trattato: se una persona è infelice del proprio stile di vita, o sta rimandando problemi la cui soluzione è inderogabile, ciò può determinare disturbi del sonno. Alcuni soggetti vedono l’insonnia scomparire grazie a semplici attività sociali, altri trovano un trattamento valido nella psicoterapia, andando ad affrontare quelle cause di stress, ansia o depressione che provocano tale disturbo, anche senza l’ausilio di farmaci ipnotici.

Infine, esistono diverse categorie di farmaci e psicofarmaci che, a causa del loro forte effetto tranquillante vengono prescritte per la cura sintomatica dell’insonnia, specialmente nei casi più gravi. I soggetti psiconevrotici, per i quali l’insonnia è un sintomo, possono invece essere curati mediante tranquillanti, che non sono dei sonniferi e, a differenza di questi, devono essere assunti non solo prima di coricarsi ma nel corso della giornata.

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Ipnosi: L’Ipnosi è una tecnica di rilassamento che induce “in un soggetto un particolare stato psicofisico che permette di influire sulle condizioni psichiche, somatiche e viscerali, per mezzo del rapporto creatosi fra questi e l’ipnotizzatore”. Questa definizione, ormai condivisa dalla maggior parte degli specialisti è realmente costata secoli di discussioni e di alterni giudizi sul metodo in questione. La più antica delle interpretazioni risale ai popoli greci, egizi e romani che utilizzavano lo stato di trance ipnotica per “avvicinarsi alle divinità” e predire il futuro. Tuttavia il padre dell’ipnosi moderna è considerato Franz Mesmer (1734-1815), dalla cui interpretazione sono poi discese tutte le teorie di tipo magnetico e fluidico. Egli riteneva che il fenomeno ipnotico fosse da attribuire al “magnetismo animale”, intesto come forza che, traendo origine dai corpi viventi, anche inanimati come le piante, potesse passare in altri, tra cui i malati, come fluido magnetico e curativo.

Tali teorie ebbero tanta risonanza in Francia, dove dal 1825 si avviarono numerosi studi per cui il mesmerismo, inteso come forza magica, venne ben presto sostituito da conoscenze che pretendevano di essere più scientifiche e spiegavano il fenomeno in termini di fluido o di onde che, attraverso lo spazio si irradiavano dall’ipnotizzatore ad altri soggetti. Charcot (1825-1893), il celebre clinico che teneva le lezioni alla Scuola della Selpetriere, sviluppò meglio quest’ultimo concetto sostenendo che solo in soggetti affetti da isteria e caratterizzati quindi, da una particolare disposizione psicologica, era possibile produrre tale trasmissione di fluido psichico.

Oltre alle teorie di Charcot ne nacquero molte nello stesso periodo; in opposizione a quelle di tipo magnetico-fluidico, Faria (1776-1819) diede il via ad interpretazioni di tipo psicologico che cercavano, nell’ipnotizzato stesso, le spiegazioni del fenomeno. Si iniziò quindi a studiare processi quali l’attenzione, la suggestione e finalmente si ipotizzò l’importanza di un rapporto tra ipnotizzatore ed ipnotizzato, escludendo quindi la possibilità di ottenere una trance come effetto di una meccanica trasmissione di onde psichiche.

Bernheim (1837-1919) ed i suoi allievi, che in particolar modo si sono occupati dei processi relativi alla suggestionabilità, si caratterizzarono come gli oppositori della Scuola di Charcot, sostenendo che la possibilità di essere ipnotizzati non era assolutamente una caratteristica patologica, ma l’effetto di una tecnica che sfruttava la suggestionabilità degli individui.

Anello di congiunzione tra queste teorie e quelle più prettamente psicoanalitiche è costituito dalle teorie dell’autosuggestione di Couè (1857-1926): egli sosteneva che la suggestione non agisce sulla volontà ma sull’immaginazione e che, quest’ultima, corrisponderebbe all’inconscio; il soggetto, elaborando le suggestioni ricevute, otterrebbe una sorta di autosuggestione ed andrebbe così ad agire sul proprio inconscio. Per quanto riguarda la interpretazione psicoanalitica, l’ipnosi rappresenta un fenomeno di regressione, nel quale il soggetto reagisce rivivendo una situazione passata e sostituendo l’originale attore con il terapeuta.

Nell’est europeo, accanto a interpretazioni di natura psicologica, vennero enunciate varie spiegazioni fisiologiche. Pavlov (1849-1936) dimostrò che l’induzione ipnotica produceva inibizione neuronale a livello della corteccia cerebrale, che si andava irradiando a tutto il cervello ma lasciando comunque delle zone di vigilanza; lo stato di trance rappresenterebbe quindi una specie di difesa dell’organismo dall’afferenza di stimoli monotoni e ripetitivi (abitazione) o, se l’ipnosi viene indotta bruscamente, per un blocco induttivo per eccessiva stimolazione.

Attualmente come tecnica specifica ed acquisita con un corso specialistico, l’ipnosi può essere inserita in un progetto terapeutico più ampio, valutando sempre la disponibilità del paziente e la sua motivazione al cambiamento. Un’induzione ipnotica non rappresenta un problema tecnico in sé, ma proprio per il suo carattere coercitivo ed il suo effetto di riduzione del senso critico del soggetto, può scatenare reazioni impreviste, sia dal punto di vista psicologico che fisiologico. La capacità di gestire tale eventualità fa parte della professionalità dell’ipnotizzatore. Molte sono le tecniche induttive ed è necessario che il terapeuta le conosca per poter rapidamente decidere quale è la più adatta al paziente da trattare o al suo specifico problema.

Le suggestioni post-ipnotiche sono rappresentate da questi atti che il soggetto è costretto a compiere o subire, pur non sapendosene spiegare il motivo, ad una certa distanza di tempo dalla seduta in cui queste sono state suggerite. Possono essere psichiche, motorie, sensitive, sensoriali, o riguardare le funzioni della vita vegetativa. Possono interessare anche l’attività onirica del paziente inducendone dei sogni. Vi sono diversi livelli di profondità che rendono più coercitive tali suggestioni e questo introduce un chiaro problema legato all’etica di questa tecnica e soprattutto all’utilizzo delle suggestioni post-ipnotiche.

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J

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K

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L

Lutto: insieme di processi psicologici, più o meno consapevoli, che vengono suscitati dalla perdita di una persona significativa (per esempio a causa della morte) che ha fatto parte integrante della nostra esistenza, dall’abbandono di un luogo caro, o dalla separazione geografica. Lo stato psicologico di lutto può derivare anche dalla perdita di una dimensione interiore, come ad esempio la perdita di una propria immagine sociale o un fallimento personale. Il processo di elaborazione della perdita richiede un certo periodo di tempo e si caratterizza per la presenza di alcune fasi che sembrano manifestarsi in maniera universale e costante; Kubler-Ross (1978) ha illustrato le seguenti cinque:

  1. Negazione = Fase iniziale di shock durante la quale la persona continua a cercare il proprio caro all’interno dell’ambiente e ne coglie la presenza;
  2. Patteggiamento = si comincia a sperare che il proprio caro ritorni e si fanno promesse affinché questo possa accadere realmente;
  3. Rabbia = di realizza che il proprio caro non ritornerà più e si reagisce a questo con rabbia verso se stessi, il destino, il mondo e gli altri;
  4. Depressione = consiste nella fase della profonda tristezza e disperazione relativamente all’irrimediabilità della morte;
  5. Accettazione = finalmente si comincia ad accettare la perdita e si ritorna alla vita pur conservando i ricordi che, seppur commoventi perdono man mano la capacità di produrre un forte dolore.

All’interno di questi momenti, è possibile rintracciare reazioni emotive che possono comparire in misura diversa in base alle caratteristiche di personalità o alla cultura di appartenenza degli stessi soggetti che hanno subito la perdita. Tra le reazioni emotive più diffuse, è possibile rintracciare: dolore intenso; rabbia, che a volte può essere diretta verso il soggetto o la condizione che ci ha provocato dolore; senso di colpa; auto-recriminazioni su quello che avremmo potuto o non potuto fare per evitare la perdita; depressione; tristezza.

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M

Mania: elevazione improvvisa, instabile e solitamente di breve durata, del tono dell’umore che diventa suscettibile anche a modesti stimoli stressanti esterni che possono provocare rabbia, irritabilità, aggressività o profonda tristezza. Da un punto di vista fisico si caratterizza per un incremento dell’attività motoria e dell’energia, logorrea e comportamenti bizzarri; la persona riporta o si comporta coerentemente ad un vissuto di onnipotenza e questo può esporla a comportamenti rischiosi ed impulsivi. A livello cognitivo si evidenziano deficit di attenzione e di concentrazione e frequente è l’affollamento di idee nella mente del soggetto che può sfociare nella perdita totale dei nessi associativi.

Il contenuto del pensiero può oscillare da idee di grandezza, nelle forme più lievi, a veri e propri deliri, nelle forme più gravi. Nelle forme più gravi la mania può giungere ad una compromissione dello stato di coscienza con sintomi catatonici, in cui il flusso dei pensieri diventa talmente rapido da causare un blocco psichico ed un arresto psicomotorio (stupor maniacale).

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Mobbing: situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente ed in costante progresso, in cui una o più persone vengono fatte oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in posizione superiore, inferiore o di parità, allo scopo di causare alla vittima danni di vario genere e gravità. Il mobbizzato si trova nell’impossibilità di reagire adeguatamente a tali attacchi e a lungo andare accusa disturbi psicosomatici, relazionali e dell’umore che possono anche portare ad invalidità psicofisica permanente. Il mobbing non andrebbe confuso con lo stress occupazionale, che, diversamente dal primo, è una situazione problematica, creata da uno stimolo negativo detto “stressor”, a cui l’organismo biologico e la mente cercano di far fronte.

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N

Narcolessia: caratterizzata da ripetuti attacchi di sonno cui il soggetto non riesce a resistere, cadendo nello stato dormiente per un periodo che va da 10 minuti ad un ora. Il sonno risulta ristoratore e successivamente la sonnolenza risulta ridotta anche se può ripresentarsi qualche ora dopo con gli stessi sintomi e conclusioni. Il disturbo persiste per almeno 3 mesi e non è dovuto ad un periodo di scarso riposto; gli episodi inficiano il normale svolgimento della propria vita perché arrivano improvvisamente anche in momenti inappropriati, a volte anche pericolosi (mentre si guida l’auto). In situazioni di bassa stimolazione od in condizioni di scarso riposo il disturbo può esacerbarsi. È possibile che durante gli episodi di sonno si manifestino attività automatiche di sonnambulismo, per cui anche se in uno stato non cosciente, la persona può continuare a conversare o condurre alcuni tipi di lavoro. Il disturbo può accompagnarsi ad episodi di cataplessia, per cui cadere improvvisamente con un blocco temporaneo della muscolatura volontaria.

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Narcisismo: rappresenta l’amore che si prova per se stessi e deriva il nome dalla figura mitologia greca che, per il desiderio di abbracciare la propria figura riflessa nell’acqua, muore affogando. In ambito psicologico il narcisismo patologico prende il nome di Disturbo Narcisistico di Personalità; come ogni disturbo appartenente a questa categoria rappresenta un modello di esperienza interiore e di comportamento che devia marcatamente rispetto alle aspettative della cultura dell’individuo, è pervasivo ed inflessibile, esordisce nell’adolescenza o nella prima età adulta e determina disagio o menomazione in uno dei livelli fondamentali della persona: sociale, familiare, scolastico/lavorativo. Esistono 3 categorie principali di Disturbi di Personalità che si distinguono sulla base dei sintomi che possono essere principalmente di tipo: bizzarro, ad alta emotività, o ansioso; il disturbo narcisistico rientra nel secondo gruppo. In quanto sindrome psicopatologica, si manifesta con una sensazione grandiosa di sé; chi ne soffre si sente unico, importante e diverso dagli altri; questo può portare la persona a richiedere fori attenzioni e ammirazione da parte degli altri e manca completamente di empatia, quindi non sottosta successivamente, ad una normale reciprocità sociale.

Naturalmente, si tratta di persone con doti spesso normali, quindi possono soffrire molto di non aver ricevuto l’approvazione che sentono di meritare, reagendo solitamente con sconcerto ed arroccandosi in una posizione difensiva e tendendo al rimuginio (più in termini depressivi che ansiosi). Talvolta possono reagire con rabbia alle critiche, ma più frequentemente la reazione è quella di vergogna e disorientamento. A questo può seguire il convincimento che non sono compresi da tutti e che quindi esistano persone speciali come loro, in grado di comprenderli a pieno; si riferiscono solitamente a persone altolocate e di prestigio che possano garantirgli i dovuti privilegi.

Sono persone fortemente manipolative perché completamente centrate su di sé e sulla ricerca incondizionata di assenso da parte degli altri, quindi si legano solo a persone che possano soddisfare questo bisogno; queste vengono idealizzate finché svolgono la loro funzione di rinforzo contingente e contribuiscono ad avvalorare il concetto di sé, mentre vengono totalmente svalutati qualora vadano a diminuire la frequenza o l’intensità di tale comportamento.

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Neuroantropologia

Disciplina che, avvalendosi delle più recenti scoperte in ambito neuroscientifico, studia la relazione esistente tra i fattori biologici e quelli culturali in rapporto all’evoluzione ed al funzionamento del cervello umano. In particolare, mette in luce come questa interazione abbia favorito, nell’uomo, lo sviluppo di alcuni comportamenti e l’estinzione di altri. Fonda l’analisi del comportamento umano su basi neuroscientifiche, tenendo conto il più possibile dell’impatto che i fattori ambientali e culturali hanno sugli individui.

Sulla base di tali presupposti, si propone di studiare tutti gli aspetti dell’attività neurologica umana, incluse le emozioni, la percezione, la cognizione, il controllo motorio e l’apprendimento. Inoltre è interessata ad approfondire il processo di sviluppo del cervello degli ominidi, la natura del rapporto esistente tra sviluppo culturale ed evoluzione cerebrale, la biochimica del cervello e gli stati alterati di coscienza, l’influenza che la cultura esercita sulla percezione, il modo in cui il cervello struttura l’esperienza, e così via. Rispetto all’antropologia psicologica o a quella cognitiva, la neuroantropologia rimane aperta ed eterogenea, riconoscendo che non tutti i sistemi cerebrali funzionano nello stesso modo e che pertanto la cultura non influisce nella stessa maniera sui diversi individui. Legata all’antropologia sociale, culturale e psicologica, essa fornisce anche una prospettiva critica rispetto a come le teorie biologiche siano spesso usate per ricondurre ad una matrice meramente biologica quelli che sono processi largamente socioculturali. In particolare, pur concordando con l’idea secondo cui la struttura neurale umana sia di natura biologica e sia il prodotto di un processo evolutivo, la neuroantropologia riconosce che i processi di sviluppo che hanno luogo in ciascun individuo includono anche una gamma tanto ampia di altre variabili, che non è possibile privilegiarne nessuna rispetto alle altre. In questo senso, la neuroantropologia si propone di integrare in maniera ottimale l’antropologia con le teorie sociali e con le neuroscienze.

Diversamente dagli approcci neuroriduzionisti e deterministici, la ricerca in neuroantropologia ha attribuito un’importanza crescente al ruolo giocato dall’ambiente, dal corpo, dall’esperienza, dall’evoluzione e dal comportamento nello sviluppo e nel funzionamento cerebrale, senza mai sminuire le componenti organiche e fisiologiche.Secondo tale disciplina, l’ereditarietà, i fattori ambientali, la cultura e la biologia sono in rapporto tra loro e lo sono in maniera molto articolata e complessa, se si tiene anche conto della variabilità umana.

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Neurologo: medico specialista nel settore professionale della Neurologia. Si occupa dello studio e all’approfondimento diagnostico di tutte le malattie, dei deficit o dei semplici disturbi che possono coinvolgere il Sistema Nervoso Centrale e Periferico, a carico quindi dell’encefalo, midollo spinale, nervi cranici e periferici o muscoli. Cura le malattie neurologiche possono coinvolgere primitivamente ed unicamente il Sistema Nervoso Centrale (Sclerosi Multipla, malattie Cerebrovascolari, malattia di Alzheimer, malattia di Parkinson, Epilessia, altre malattie neurodegenerative o patologie Infiammatorie ed Infettive), il Sistema Nervoso Periferico (Polineuropatie, Miastenia, Miopatie) o essere espressione di malattie che coinvolgono primitivamente altri organi o apparati e che possono coinvolgere anche il Sistema Nervoso (Diabete Mellito e altre malattie metaboliche sistemiche, patologie infiammatorie, infettive, immuni o tumorali). A seconda dei casi l’attività professionale del neurologo si avvale della collaborazione di diverse figure professionali come il neuropsicologo, lo psicologo clinico, il neurofisiologo, lo psichiatra.

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Neuropsichiatra infantile: medico specialista nel settore professionale della Neuropsichiatria Infantile. Si occupa principalmente di malattie genetiche metaboliche e degenerative del Sistema Nervoso Centrale e Periferico, includenti i disordini del movimento (distonie, mioclono, corea e tic/malattia di Gilles de la Tourette); di epilessia comprendente le forme rare e/o a eziopatogenesi complessa (displasie corticali, encefalite di Rasmussen) e quelle farmacoresistenti con eventuale eleggibilità al trattamento chirurgico; di malattie infiammatorio-immunomediate e sclerosi multipla infantile; di autismo e disordini generalizzati dello sviluppo. A seconda dei casi, l’attività del neuropsichiatra infantile si avvale della collaborazione di diverse figure professionali esperte in età evolutiva, come lo psicologo, il terapista della neuro e psicomotricità dell’età evolutiva il logopedista, l’educatore, l’assistente sociale, l’infermiere e altri.

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Neuropsicologo clinico: laureato in psicologia con specializzazione post-laurea in Neuropsicologia. Applica le conoscenze della neuropsicologia alla diagnosi, gestione e riabilitazione dei pazienti con deficit cognitivi successivi a malattie o danni cerebrali di tipo vascolare o traumatico. In particolare esamina i pazienti per diagnosticare e migliorare le funzioni specifiche lese come ad esempio linguaggio, attenzione, percezione, cognizione e comportamento. Lavora tipicamente in un ambiente ospedaliero in un team interdisciplinare composto da professionisti di diversa formazione come neurologi, psicologi, internisti, logopedisti, ortottisti, terapisti occupazionali e terapisti della neuro e della psicomotricità dell’età evolutiva.

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Nevrosi: disturbo psichico che si manifesta in assenza di causa organica e i cui sintomi sono interpretati dalla psicoanalisi come espressione simbolica di un conflitto che trova le sua radici nella storia del soggetto e che costituisce un compromesso tra un desiderio e la difesa alla realizzazione di tale desiderio. A partire dalla probabile introduzione del termine da parte del medico scozzese W. Cullen nel 1777 che lo utilizzò per indicare quelle affezioni di tipo funzionale che avevano una sede organica precisa, si è giunti, attraverso i contributi di P. Pinel e di J. M. Charcot che ne evidenziarono rispettivamente l’assenza di un substrato organico evidenziabile e la natura squisitamente psicologica, alla distinzione fatta da S. Freud (1894) tra nevrosi attuali e psiconevrosi. Le prime sarebbero determinate da conflitti attuali risultanti dall’assenza o dall’inadeguatezza del soddisfacimento sessuale, mentre le seconde affonderebbero le loro radici nella vita infantile del soggetto. Attualmente le nevrosi attuali sono sempre meno contemplate dalla nosografia sia perché anche i lori sintomi sembrano risalire ad un’età infantile, sia perché il loro carattere prevalentemente somatico induce ad inserirle tra i disturbi psicosomatici.

Il concetto di nevrosi in senso stretto è teso a concepire il disagio nevrotico come la manifestazione di un conflitto tra un’istanza repressiva ed una di libertà, che, al di là della sessualità, riguarda più in generale il concetto di sé, del suo sviluppo e del suo adattamento al mondo sociale, lungo l’intero arco della vita. Più spesso però il termine viene utilizzato come grande contenitore nosografico accanto a quello di psicosi, intendendo tutti i disturbi che non manifestano deliri od allucinazioni.

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Nostalgia: dal greco νόστος (ritorno) e άλγος (dolore), esprime classicamente il dolore legato al desiderio di tornare in patria. Da un punto di vista più squisitamente psicologico, essa esprime anche il dolore connesso alla lontananza da persone care o da periodi o eventi di vita passata che si vorrebbero rivivere; può comparire nelle sindromi da separazione e può evolvere in un quadro depressivo.

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O

Obesità: Aumento abnorme di peso dovuto a fattori genetici, ambientali ed individuali con conseguente alterazione del bilancio energetico ed accumulo eccessivo di tessuto adiposo nell’organismo. Secondo l’ipotesi genetica (sostenuta dagli studi condotti su famiglie e gemelli) un particolare corredo genetico sarebbe responsabile delle cosiddette anomalie metaboliche che faciliterebbero l’insorgenza dell’obesità in presenza di alta disponibilità di alimenti e cronico sedentarismo. Da un punto di vista psicodinamico, l’obesità nascerebbe da un particolare rapporto madre-figlio, intesi, in questa prospettiva, come un’unità psicosomatica. La madre offrirebbe al figlio quantità di cibo superiori a quelle necessarie, come espressione di affetto e come strumento per tenerlo legato a sé.

Comportamenti impulsivi o compulsivi secondari a depressione e più spesso ad ansia, possono contribuire al presentarsi di uno stato di fame definita “nervosa” che induce un senso di incontrollabilità nell’assimilazione del cibo da parte della persona e, a lungo andare può ingenerare uno stato di sovrappeso (più raramente la vera e propria obesità). Anche alcuni farmaci possono, se utilizzati a lungo, facilitare l’insorgenza dell’obesità; in particolare gli antidepressivi hanno un effetto obesizzante e, la sedentarietà tipica dei pazienti con questa diagnosi può influire notevolmente. In tali casi lo psichiatra s’impegna nella ricerca di sostanze che possano influire il meno possibile sull’accumulo di peso, data la necessità di condurre la terapia per almeno due anni, mentre lo psicoterapeuta si preoccuperà, tra l’altro, di inserire nella vita del paziente dei veri e propri momenti di moto ed attività fisica, monitorata da esperti del settore possibilmente.

In molti paesi industrializzati, l’obesità affligge fino ad un terzo della popolazione adulta, e sta diventando sempre più diffusa tra i bambini. Essa costituisce un serio fattore di rischio per mortalità e morbilità, sia di per sé (complicanze cardiovascolari e respiratorie) sia per le patologie ad essa frequentemente associate quali diabete mellito, ipertensione arteriosa, iperlipidemia, calcolosi della colecisti, osteoartrosi.

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Ossessione: pensiero, impulso o immagine mentale ricorrente e persistente, che causa ansia o disagio marcato e che viene vissuta come intrusiva ed inappropriata. La produzione di tale pensiero o immagine è spesso del tutto inaccettabile quindi la persona cerca di ignorarla od allontanarla dalla propria mente, talvolta mettendo in atto dei rituali in grado di neutralizzarla (compulsione). Naturalmente questa azione induce un decremento della sensazione ansiosa e spiacevole, inducendone quindi il rinforzo intrinseco: il pensiero mi fa soffrire, il metodo per ridurre il disagio diventa la “cura”. L’evitamento, seppure efficace in modo naif p la strategia fallimentare dell’ansia, che contribuisce solo alla sua cronicizzazione.

Il pensiero ossessivo si caratterizza per una modalità non intenzionale, suscettibile di critica da parte della persona che la sta sperimentando, che non riesce peraltro a liberarsene e lo vive con sentimenti di angoscioso fastidio. Il pensiero viene riconosciuto come proprio ma il contenuto è considerato inaccettabile e rifiutato perché vissuto come estraneo alla propria volontà ed al proprio modo di essere. Le aree di interesse più comuni delle ossessioni sono la sporcizia e le malattie, la violenza, altri tipi di mali che capitano alle persone, il sesso e la religione.

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P

Paradosso: “Il paradosso è un’ambiguità sistematica capace di produrre l’indecidibilità tramite un’oscillazione riflessiva infinita tra livelli diversi di complessità” .

Affinché si determini un paradosso è necessaria la presenza di tutti questi elementi:

– ambiguità

– contraddizione

– appartenenza dei termini in contraddizione a livelli diversi di una gerarchia complessa

– autoriferimento

– oscillazione riflessiva (circolo vizioso) infinita

L’ambiguità

E’ sempre presente nelle interazioni e relazioni umane e riguarda soprattutto la comunicazione analogica. All’interno delle comunicazioni umane consiste nel presentare contemporaneamente un ampio numero di significati diversi e questo rappresenta uno strumento indispensabile nel modulare le espressioni di un’ affettività complessa come quella umana.

Permette una maggiore ricchezza espressiva e gioca un ruolo importante in molte attività creative, quali la fantasia, l’espressione artistica, l’umorismo.

La semplice presenza dell’ambiguità non dà luogo ad un paradosso, infatti è ancora possibile una scelta.

Contraddizione

Quando la relazione tra due persone assume una certa importanza ogni segnale ambiguo viene a configurarsi come una contraddizione tra due o più alternative diametralmente opposte.

La presenza di alternative contraddittorie suscita perplessità, dubbio, ma di per sé non porta a paradosso in quanto è ancora possibile effettuare una scelta tramite un procedimento per tentativi ed errori.

La presenza di ambiguità e di contraddizioni non impediscono di operare una scelta nell’insieme delle possibili forme di definizione della relazione, anche se tale scelta può essere talvolta difficile o dolorosa.

Appartenenza dei termini in contraddizione a livelli diversi di una gerarchia complessa

In una gerarchia di complessità il livello di complessità inferiore non si trova soltanto più in basso rispetto al superiore, ma è da esso contenuto, e il superiore è più complesso dell’inferiore, ma lo è meno del livello ancora superiore, che a sua volta lo contiene.

Quindi, in maniera un po’ simile a un gioco di scatole cinesi, il livello più elevato è anche il più complesso e contiene al suo interno tutti i livelli meno complessi.

Si determina un paradosso quando ambiguità e contraddizione che ne derivano si realizzano su due livelli differenti, ordinato secondo una gerarchia di complessità ovvero una gerarchia nella quale il livello inferiore non solo si trova più in basso, rispetto al superiore, come nelle gerarchie semplici, ma è contenuto in esso.

Autoriferimento

Ovvero la proprietà posseduta da un termine o da un messaggio di riferirsi a se stesso.

Ma l’autoriferimento pur se necessario non è di per sé sufficiente a dar luogo a un vero paradosso.

L’autoriferimento quando si verifica a ponte tra due differenti livelli di complessità può dar luogo ad un circolo vizioso, definito catena riflessiva.

Oscillazione riflessiva (circolo vizioso) infinita

Consiste nell’oscillazione all’infinito tra significati contraddittori appartenenti a differenti livelli di complessità, la quale ha per conseguenza l’indecidibilità.

Un paradosso diventa patogeno quando è presente l’assunzione di “totalità illegittima”, ovvero quando esso invade tutti i campi e pone l’individuo in una situazione di indecidibilità continua e infinita, ma anche quando esso scaturisce da due (o più) totalizzazioni che si incontrano. Una definizione o un’ingiunzione paradossale non hanno alcun effetto patogeno se non c’è qualcuno che attribuisca loro valore assoluto, interpretando in forma totalizzante l’assunzione di totalità illegittima fatta dall’altro.

Il paradosso terapeutico o controparadosso ha in comune con il paradosso la prima parte del percorso (ambiguità e contraddizione), ma non la catena riflessiva che genera indecidibilità. Esso attraverso un processo stocastico genera un nuovo apprendimento e quindi un cambiamento (catena ricorsiva). Il paradosso terapeutico si lega a quello patogeno interrompendo il circuito che conduce all’indecidibilità e riporta ad una catena ricorsiva che sembrava diventata inaccessibile.

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Parafilia: è un ricorrente ed intenso impulso sessuale, accompagnato da fantasie o comportamenti eccitanti, sessualmente, che si riferiscono a : 1) oggetti o esseri viventi non umani; 2) ricevere e/o infliggere un’autentica sofferenza fisica o morale (umiliazione) a se stessi o al proprio partner; o 3) bambini o altre persone non consenzienti. Il disturbo si presenta come tale ogni qualvolta la persona che esprime un desiderio od un impulso sessuale ne subisca poi una conseguenza di enorme disagio e vergogna, nel caso in cui vengano colpite la dignità individuale propria o del proprio partner o se non vi è un consenso esplicito del partner o se esso viene meno data la giovane età o l’insufficienza mentale.

Non si considera quindi parafilia l’utilizzo di pratiche di eccitamento tra adulti consenzienti e che vivano con serenità e piacere tali attività.

Fra le parafilie si definiscono:

  • CINEPIMASTIA: eccitamento sessuale derivante dalla masturbazione del seno.
  • CLISMAFILIA: eccitamento sessuale dall’uso di clisteri.
  • COPROFILIA o SCATOFILIA: eccitamento sessuale dal contatto con escrementi.
  • ESIBIZIONISMO: mostrare i propri genitali a persona sorpresa e non consenziente.
  • FETICISMO CLERICALE: eccitamento da attività sessuale con ecclesiastici o suore.
  • FETICISMO DA TRAVESTIMENTO: eccitamento sessuale dall’avere rapporti eterosessuali indossando indumenti dell’altro sesso.
  • FETICISMO: ricavare eccitamento sessuale da oggetti inanimati, che vengono “venerati”.
  • FROTTEURISMO: strofinarsi contro persona non consenziente.
  • GERONTOFILIA: eccitamento sessuale derivante dal contatto con vecchi.
  • MASOCHISMO SESSUALE: eccitamento sessuale dal subire sofferenze o umiliazioni.
  • NECROFILIA: eccitamento sessuale da attività sessuale con cadaveri.
  • OSFRESIOLAGNIA: voluttà derivante dall’odorare.
  • PARZIALISMO: esclusiva focalizzazione su di una parte del corpo come stimolo erotico.
  • PEDERASTIA: attività sessuale fra un maschio adulto e un ragazzo di età puberale.
  • PEDOFILIA: attività sessuale con bambini prepuberi, di non più di 13 anni.
  • PICACISMO: mangiare parti del corpo umano, menofagia, vampirismo, spermatofagia.
  • PIGMALIONISMO O STATUOFILIA: eccitamento sessuale dal contatto con statue.
  • SADISMO SESSUALE: eccitamento sessuale dall’infliggere sofferenze o umiliazioni.
  • SCATOLOGIA: eccitamento sessuale da telefonate oscene.
  • TROILISMO: osservare, con il loro consenso, persone che hanno rapporti sessuali.
  • UROFILIA: eccitamento sessuale dal contatto o dall’ingestione di urine.
  • VOYEURISMO: osservare, non visti, persone che si spogliano o hanno rapporti sessuali.
  • ZOOFILIA: eccitamento sessuale da attività sessuali con animali.

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Paranoia: in ambito clinico viene incorporata nel Disturbo Paranoide di Personalità, che si manifesta con comportamenti di tipo bizzarro e rientra per questo nel gruppo A di questa classe sindromica.

Chi soffre di questo disturbo ha una persistente tendenza ad interpretare in modo irrealistico (o quantomeno poco probabile) le intenzioni e le azioni degli altri, solitamente come umilianti o minacciose. Le persone sono percepite come intrusive, impiccione, critiche e poco gratificanti e di conseguenza le relazioni sono spesso evitate o comunque molto instabili. Vengono descritti come distaccati, isolati, guardinghi. Il termine utilizzato anche fuori dall’ambito propriamente clinico, mantiene le sue caratteristiche descrittive principali.

Nonostante la concentrazione sull’altro sia sempre molto alta, essa è volta ad osservare, non vi è una grande capacità di empatia ed è per questo che spesso le intenzioni sono fraintese.

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PNL: Acronimo di Programmazione Neuro Linguistica, sta ad indicare che le modalità umane di comportamento sono variabili fondate sulla percezione e sull’esperienza di ognuno, organizzate in programmi o schemi che funzionano in maniera automatica. Alla base di questi schemi di comportamento vi è un processo neurologico per cui da una stimolazione sensoriale si ha un’elaborazione delle informazioni sottoforma di percezioni e rappresentazioni. I processi mentali sono poi codificati, organizzati e trasformati dal linguaggio che rappresenta quindi un ponte tra la rappresentazione interna del mondo e l’esperienza.

Al centro della PNL vi è il concetto che i pensieri, i gesti e le parole di ognuno, interagiscano creando una percezione del mondo la quale può essere modificata per mettere in atto schemi di comportamento più efficaci (e quindi di successo). Attraverso la PNL l’individuo apprenderebbe quindi come potenziare queste percezioni e come utilizzarle per migliorare la propria performance. Una delle tecniche più efficaci proposte dai ricercatori è quella del modellamento, che si basa sull’attenta riproduzione degli schemi di comportamento di modelli vincenti e di successo.

La PNL è stata fondata e sviluppata da Richard Bandler e John Grinder, sotto la supervisione di Gregory Bateson, all’Università della California, tra gli anni ’60 e ’70. Dopo la pubblicazione di La programmazione Neurolinguistica Volume I, di Dilts, SeLozier, Grinder e Bandler iniziarono conflitti e cause legali per la proprietà intellettuale del modello teorico e la PNL divenne un’insieme eterogeneo di teorie sviluppatesi indipendentemente sotto la paternità di autori di diversi orientamenti teorici. Nel 2001 le controversie legali si chiusero con la conciliazione tra Bandler e Grinder che si accordarono nell’essere identificati come co-fondatori della PNL.

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Profezia che si autoavvera: è stata definita dal suo ideatore, Robert K. Merton (1948), come una “una supposizione o profezia, che, per il solo fatto di essere stata pronunciata, fa realizzare l’avvenimento presunto, aspettato o predetto, confermando in tal modo la propria veridicità”.

In altre parole, un’aspettativa, un pregiudizio, una supposizione, fanno sì che atteggiamenti e predisposizioni inconsapevoli inducano negli individui e negli eventi reazioni che confermano l’aspettativa o l’avvenimento presunto. In particolare, è possibile evidenziare tre passaggi attraverso i quali tale fenomeno si esplica:

  • a) le persone hanno aspettative nei confronti di un altro individuo;
  • b) queste influenzano il loro modo di agire nei suoi confronti;
  • c) le attese influenzano le risposte dell’individuo che adotta comportamenti coerenti con le attese originali, facendo in modo che queste si avverino.

Una possibile declinazione del fenomeno della Profezia che si auto avvera è il cosiddetto “Effetto Pigmalione”, descritto da Rosenthal, per cui le aspettative degli insegnanti, nei confronti dei propri allievi, risultano determinanti nella riuscita scolastica degli stessi, in quanto gli atteggiamenti, anche inconsapevoli, che ne derivano fanno sì che i bambini si comportino proprio come atteso dal loro maestro.

L’effetto Pigmalione mette in evidenza come le aspettative possano condizionare la qualità delle relazioni interpersonali e il rendimento dei soggetti. Esso può manifestarsi in altri contesti, come quello lavorativo e quello familiare e in tutti quei contesti dove si sviluppino rapporti sociali.

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Psichiatra: medico specialista nel settore professionale della Psichiatria e della Psicoterapia. Si interessa delle alterazioni affettive e comportamentali gravi servendosi di quei metodi, tecniche e strumenti di tipo fisico e farmaceutico, che sono propri della psichiatria. Le sue competenze spaziano in diversi ambiti: psichiatria biologica e neuro psicofarmacologica; psicopatologia e metodologia psichiatrica; psichiatria clinica; psicoterapia; psichiatria sociale. A livello di sanità pubblica, lo psichiatra opera nei seguenti contesti:

Centri di Salute Mentale (C.S.M.); Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (S.P.D.C.); Day Hospital (D.H.); Centri Diurni (C.D.); Comunità Terapeutiche (C.T.); Comunità Alloggio per utenza psichiatrica (C.A.); Gruppi Appartamento (G.A.).

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Psichiatria transculturale: disciplina che deriva direttamente dalla psichiatria comparata fondata da Kraepelin nel 1904, che si focalizzava su aspetti culturali ed etnici della salute e della patologia mentale. Secondo la psichiatria transculturale il funzionamento della psiche sarebbe universale. Se l’etnopsichiatria inquadra i disturbi sulla base di una provenienza geografica e culturale, la psichiatria transculturale, pur attraversando le varie culture, si occupa della malattia e delle risorse di fronteggiamento seguendo la propria ottica e senza modificare il proprio modello di riferimento.

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Psicastenia: disturbo della sfera nevrotica caratterizzato da mancanza di energia psichica utile a prendere decisioni ed orientarsi verso i propri obiettivi, attualmente non più presente nella classificazione sindromica perché assimilato dal Disturbo Ossessivo-Compulsivo in cui si mantengono le stesse caratteristiche di indecisione anche se ben più complesso e caratterizzato, come suggerisce il nome, dalla presenza di ossessioni e compulsioni.

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Psicologia dell’emergenza: La psicologia dell’emergenza è una branca della psicologia che si rivolge a individui, gruppi e popolazioni colpite da eventi disastrosi di vario genere: naturali (incendi, maremoti, eruzioni, terremoti, frane e altre calamità), sociali (guerre e conseguenze ad esse correlate, attentati terroristici, fenomeni legati alle migrazioni etc.), antropici (disastri tecnologici, disastri ecologici), emergenze quotidiane (incidenti di mezzi di trasporto, aggressioni, stupri, etc.). Essa si occupa della traumatizzazione diretta, subita dalla persona che viene definita vittima di primo tipo, e della traumatizzazione indiretta, subita dai familiari e dalle persone care delle vittime dei primo tipo, e dai soccorritori. Parenti e persone care sono definite vittime di secondo tipo, mentre i soccorritori sono definiti vittime di terzo tipo (Taylor & Frazier). Questi ultimi, che sono testimoni di un grave evento, vanno incontro alla cosiddetta traumatizzazione vicaria. La psicologia dell’emergenza riguarda lo studio, la prevenzione e il trattamento dei fenomeni psichici, delle emozioni e dei comportamenti che si determinano prima, durante e dopo gli eventi traumatici ed ha come obiettivo quello di impedire che un evento particolarmente traumatico causi dei disagi permanenti all’individuo. In questo senso, quanto più vicino alla crisi è l’intervento di supporto – che si avvale di alcune tecniche mirate e finalizzate: defusing e debriefing – tanto più esso è predittivo di assenza di sofferenza psicologica successiva (Berkman & Syme).

In ambito preventivo, la psicologia dell’emergenza si occupa di preparare le persone a rischio a fronteggiare gli eventi che si prevede possano accadere. Quando la calamità o l’evento traumatico ha avuto luogo, invece, essa si propone il recupero della normalità e del ritorno alla quotidianità dei soggetti colpiti o esposti all’evento traumatico mediante interventi volti al sostegno della persona.

Lo psicologia dell’emergenza si rivolge sia al singolo individuo che all’intera comunità. A livello psicologico, l’emergenza si configura come un momento di perturbazione dell’equilibrio psicologico ed emotivo di una persona dovuto ad una o a diverse circostanze scatenanti, che richiedono la messa in campo di nuove risorse e di strategie di adattamento psicologico nuove (Cusano, Napoli, 2003).

In genere gli interventi psicologici sull’emergenza si caratterizzano per una concertazione di intenti con altri Enti Istituzionali presenti sul territorio (per esempio, ASL, Protezione Civile, enti locali, etc.).

Mentre all’estero la psicologia dell’emergenza ha una storia più lunga, anche a causa dei disastri che ne hanno stimolato prima la crescita, in Italia essa rappresenta ancora una disciplina nuova. Il suo primo riconoscimento ufficiale è giunto nell’Ottobre del 1997, quando il II Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi, in seguito al terremoto di Assisi, approvò un comunicato con il quale si attivava l’intera comunità degli psicologi per fare fronte a tale emergenza. Successivamente, nel 2000, è stato presentato il DDL n. 4449 riguardante “l’istituzione dello psicologo delle situazioni di crisi”. Nella Gazzetta Ufficiale dell’Aprile 2001, poi, sono stati pubblicati i “criteri di massima per l’organizzazione dei soccorsi sanitari nelle catastrofi”. Nel Marzo 2006 la Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento della Protezione Civile – Servizio Rischio Sanitario e Ambientale, ha varato i “Criteri di massima sugli interventi psicosociali da attuare nelle catastrofi”. Nell’Agosto 2006 il Consiglio dei Ministri ha regolamentato l’intervento psico-sociale da attuare nelle catastrofi con il Dir. P.C.M. n.200/06.

Rispetto ai modelli e alle tecniche di intervento, possiamo affermare che se la scuola anglosassone propone come modello elettivo quello cognitivo-comportamentale, la tradizione europea si fonda soprattutto su un intervento di tipo psicosociale e di comunità basato sulla costituzione di un team multi-professionale. In ogni caso, per essere efficace, un modello di intervento in psicologia dell’emergenza dovrebbe essere di tipo integrato e dovrebbe articolarsi su più livelli (individuo, gruppo, comunità).

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Psicologia del lavoro: branca della psicologia che studia i comportamenti delle persone nei vari contesti e nelle varie attività lavorative e professionali, focalizzandosi in particolare sulle relazioni interpersonali, sulle mansioni ed i compiti da svolgere all’interno delle organizzazioni. Si ripropone di facilitare sia il benessere/salute dei lavoratori, che di garantire un certo vantaggio alle organizzazioni e di migliorare le competenze, la comunicazione, la motivazione, le relazioni sia interne che esterne. I campi d’applicazione della psicologia del lavoro e delle organizzazioni sono principalmente: la gestione del personale, la leadership, la selezione, la valutazione del potenziale, la formazione, la comunicazione, i rapporti, le dinamiche di gruppo, la motivazione al lavoro, il sistema premi-punizioni, lo sviluppo della carriera, la valutazione delle competenze.

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Psicologia dell’invecchiamento: branca della psicologia relativamente recente nata da un interesse sempre più diffuso verso la persona anziana, generato dal generale allungamento della vita media e dal crescente fenomeno dell’invecchiamento della popolazione. Essa studia i cambiamenti dei processi mentali in funzione del tempo e alla luce delle influenze biologiche e ambientali. Si occupa dell’anziano nella sua globalità, indagando da un lato il processo di invecchiamento (da un punto di vista psicologico e neuropsicologico), e, dall’altro, i problemi psicologici dell’anziano. Secondo il modello della life-long psychology (“psicologia dell’arco di vita”) il processo di invecchiamento seguirebbe un percorso individuale che varia non solo in funzione delle variabili generazionali, ma anche della storia individuale.

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Psicologo: laureato in psicologia che ha conseguito l’abilitazione mediante l’esame di Stato ed è iscritto all’apposito albo professionale. Si avvale dell’uso degli strumenti conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazione-riabilitazione e di sostegno in ambito psicologico rivolte alla persona, al gruppo, agli organismi sociali e alle comunità. Comprende altresì le attività di sperimentazione, ricerca e didattica in tale ambito. Nello specifico, le sue aree di intervento sono: la psicologia clinica, la psicologia sociale applicata, la psicologia del lavoro e delle organizzazioni, la psicologia dello sviluppo e dell’educazione, la psicologia giuridica e forense, la psicologia penitenziaria e criminologica, la psicologia militare, la psicologia viaria, la psicologia delle emergenze, la psicologia dello sport, la psicologia del turismo, la psicologia della religione, la neuropsicologia.

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Psicologo Clinico: laureato in psicologia con specializzazione post-laurea in Psicologia Clinica. Opera principalmente nelle strutture sanitarie pubbliche e/o private, ma talora anche privatamente a tempo pieno come libero professionista. Egli è specialista nella psicodiagnosi, nella somministrazione dei test di tipo psicodiagnostico, nel counselling, nell’orientamento e nell’organizzazione situazionale, sia nella normalità che nella patologia.

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Psiconcologia: La psiconcologia è una disciplina psicologica che si pone come interfaccia tra la psicologia (che focalizza in particolare gli aspetti più soggettivi espressi dal paziente neoplastico attraverso i suoi sintomi e la sua sofferenza) e la branca medica dell’oncologia (che privilegia gli aspetti più oggettivi e tangibili dei medesimi sintomi e della medesima sofferenza). I settori di intervento della psiconcologia sono la clinica dell’adulto e la clinica dell’età evolutiva, mentre i livelli di intervento spaziano dalla ricerca alla formazione, alla clinica, alla prevenzione (studio degli aspetti psicosociali di salute e malattia, comportamenti a rischio, etc.).

La psiconcologia è attualmente considerata in molti paesi una disciplina specialistica autonoma, con propri modelli di intervento e specifici obiettivi di ricerca e di applicazione clinica. Si occupa delle molteplici variabili psicologiche connesse alla patologia neoplastica e delle implicazioni psicosociali dei tumori, ponendo attenzione al paziente il cui disagio è generato dalla situazione traumatizzante della malattia e non dipende primariamente da un disturbo psichiatrico. In particolare, la psiconcologia affronta il problema della possibile relazione tra fattori psicologici ed emozionali e la malattia neoplastica, interrogandosi (a) sulla possibilità che i fattori psicologici possano giocare un ruolo nell’eziologia del cancro e quindi nella sua prevenzione, (b) su quali siano i fattori psicologici che intervengono nell’evoluzione clinica delle neoplasie, (c) sulla possibilità che interventi psicologici migliorino la qualità e la durata della vita nei pazienti affetti da tumore.

Le ricerche svolte in ambito psico-socio-oncologico hanno messo in evidenza, negli ultimi anni, la crucialità del ruolo giocato dai fattori psicosociali nella prevenzione e nel trattamento del cancro, dal momento che la comparsa di un tumore incide su aspetti psicologici e sociali significativi, come ad esempio il rapporto con il proprio corpo, il significato attribuito alla malattia, alla sofferenza e alla morte, le relazioni familiari, sociali, professionali.

A livello storico, la prospettiva psicosociale in oncologia si sviluppa soprattutto a partire dagli anni ’50 quando negli Stati Uniti si costituiscono le prime associazioni di pazienti laringectomizzati, colostomizzati e di donne operate al seno. Sempre negli Stati Uniti, presso il Memorial Center di New York, nasce il primo servizio autonomo finalizzato all’assistenza psicologica del paziente affetto da cancro. Nel 1984 negli Stati Uniti nasce la International Psycho-Oncology Society (IPOS), mentre nel 1986 viene costituita la European Society of Psychosocial Oncology. In Italia la SIPO (Società Italiana di Psiconcologia) viene costituita nel 1985.

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Psicosi: al contrario di molti termini di natura psicologica, questo viene costantemente utilizzato in modo erroneo nella cultura popolare, associandolo ad una paura intensa ed immotivata (la psicosi della meningite, dell’influenza aviaria, della crisi), meglio attribuibile invece ad una “fobia”.

Per psicosi s’intende infatti un gruppo di disturbi mentali caratterizzati da un’alterata rappresentazione della realtà, da errori nel pensiero, nella percezione e negli stati emotivi, con conseguente produzione di comportamenti bizzarri. Disturbo psicotico per antonomasia è la Schizofrenia, ma si trovano in questa categoria altri disturbi come il Disturbo delirante, Disturbo schizofreniforme, Disturbo schizoaffettivo, Disturbo Psicotico breve, Disturbo psicotico condiviso (già noto come Folie a deux).

I disturbi psicotici si caratterizzano per la presenza di:

  • Sintomi positivi, ossia sintomi che “aggiungono” elementi alla realtà, come deliri, ossia pensieri illogici che però vengono sostenuti con convinzione, ed allucinazioni, propriamente percezioni senza oggetto, che possono coinvolgere tutti i sensi (vista, tatto, gusto, olfatto, udito).
  • Sintomi negativi, quindi che vedono una carenza in un determinato ambito, principalmente quello ideoaffettivo (pensieri ed emozioni): apatia, abulia, anaffettività, incapacità di pianificare gli obiettivi, ritiro sociale.
  • Disorganizzazione cognitiva e delle attività superiori come linguaggio e ragionamento.

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Psicosomatica: si occupa dei rapporti tra corpo e mente, in particolare sugli effetti sul corpo che possono avere le emozioni ed i pensieri. I disturbi psicosomatici, meglio noti come Disturbi somatoformi, sono malattie che, pur avendo origine non specificatamente organica, possono comportare dei danni a livello somatico; i sintomi stessi coinvolgono il sistema nervoso autonomo che produce di conseguenza risposte neurovegetative intense, in risposta al disagio mentale ed allo stress, mentre le emozioni contribuiscono a mantenere il sistema iper-sollecitato, come se la persona si trovasse continuamente in uno stato di emergenza e questo per tempi od intensità maggiori rispetto al normale funzionamento dell’organismo, andando quindi a determinarne dei danni a livello gastrointestinale, cardiocircolatorio, respiratorio, urogenitale, muscoloscheletrico e cutaneo.

I disturbi psicosomatici sono una classe di disturbi che comprendono l’Ipocondria, il Disturbo di somatizzazione, il Disturbo somatoforme indifferenziato, il Disturbo di Conversione, il Disturbo Algico ed il Disturbo di Dismorfismo Corporeo.

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Psicoterapeuta: psicologo o medico che ha conseguito una specializzazione almeno quadriennale in Psicoterapia, presso scuole riconosciute dal M.U.R.S.T. (Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica). Lo psicoterapeuta, oltre alle attività di prevenzione, diagnosi, sostegno e riabilitazione, svolge attività di cura attraverso gli strumenti e le tecniche terapeutiche proprie alla psicoterapia. Lo psicologo-psicoterapeuta non può prescrivere nessun tipo di farmaco al paziente. Se necessario si avvale della collaborazione di uno psichiatra che seguirà la persona nella parte farmacologica del suo percorso terapeutico.

Art. 35. della legge 56/1989: l’attività psicoterapeutica 1. In deroga a quanto previsto dall’articolo 3, l’esercizio dell’attività psicoterapeutica è consentito a coloro i quali o iscritti all’ordine degli psicologi o medici iscritti all’ordine dei medici e degli odontoiatri, laureatisi entro l’ultima sessione di laurea, ordinaria o straordinaria, dell’anno accademico 1992-1993, dichiarino, sotto la propria responsabilità, di aver acquisita una specifica formazione professionale in psicoterapia, documentandone il curriculum formativo con l’indicazione delle sedi, dei tempi e della durata, nonché il curriculum scientifico e professionale, documentando la preminenza e la continuità dell’esercizio della professione psicoterapeutica. 2. é compito degli Ordini stabilire la validità di detta certificazione.

Tali corsi di specializzazione devono: essere almeno quadriennali e prevedere un’adeguati formazione e addestramento in psicoterapia; sono attivati ai sensi del decreto n. 162 del Presidente della Repubblica del 10 marzo 1982, presso scuole di specializzazione universitaria o presso istituti a tal fine riconosciuti dal MURST con le procedure di cui all’articolo 3 del citato decreto.

Psicoterapia: branca specialistica della psicologia, costituisce uno strumento psicologico che produce delle modificazioni nella struttura cognitiva ed emotiva del soggetto. È una specializzazione sanitaria riservata a Medici e Psicologi iscritti ai rispettivi Ordini Professionali ed in Italia si consegue tale professionalizzazione mediante un percorso formativo quadriennale post lauream presso scuole universitarie o private riconosciute dal M.U.R.S.T. Essa è orientata da indirizzi teorici di riferimento tra cui possiamo citare gli indirizzi: psicoanalitico/psicodinamico; sistemico-relazionale, cognitivo-comportamentale, fenomenlogico-esistenziale ciascuno dei quali, pur essendo meglio indicato per alcune condizioni e non per tutte, può applicarsi d’elezione al lavoro terapico con i bambini, gli adolescenti, gli adulti, gli anziani, le coppie e le famiglie. Al centro di ogni indirizzo terapeutico si rileva un rationale specifico che guida il professionista e di conseguenza l’utente in un percorso caratteristico che ha stili e tempi diversi. Si distinguono infatti terapie lunghe (superiori ai 2 anni), medie (fino a 2 anni) e brevi (inferiori all’anno), fra le prime sicuramente quelle a fondamento psicoanalitico, nel mezzo l’indirizzo sistemico-relazionale (che ha dato ottimi risultati nell’ambito della terapia familiare) e cognitivo puro, ed infine le terapie cognitivo-comportamentali che per alcuni disturbi possono dare risultati entro i 6 mesi di trattamento.

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Q

Quoziente d’intelligenza: è un punteggio ottenuto tramite la somministrazione di un test standardizzato che ha appunto lo scopo di misurare alcune forme di intelligenza, frequentemente quella logico-matematica, ma anche verbale, di organizzazione spaziale, memoria, ecc. Il termine è stato introdotto da William Stern nel 1912 definendolo come il risultante risultato della formula età mentale/età biologica x 100.

Valutare il QI serve principalmente a verificare lo stadio si intelligenza di un individuo per poterne predire il futuro sviluppo e quindi intervenire per migliorare o sviluppare quelle abilità che sono più carenti. Talvolta, se si interviene precocemente, è possibile orientare un bambino con lieve ritardo, verso il superamento di specifiche difficoltà attraverso l’impiego di abilità altrimenti intatte.

Il QI anche se è un valore misurato solo su alcuni tipi di intelligenza è un buon indicatore delle prestazioni lavorative dell’individuo e può essere utilizzato per calcolare il tasso di deterioramento futuro in termini quindi predittivi.

Il primo test d’intelligenza moderno è stato pubblicato da Alfred Binet, Psicologo francese, per identificare studenti che necessitavano di un particolare aiuto a scuola. La scala, elaborata con il collega Simon (Scala Simon-Binet) misurava l’età mentale dei bambini in relazione alla risoluzione di problemi. Ulteriori migliorie sono state apportate da Stanford, andando quindi a definire la Stanford-Binet Intelligence Scale.

Attualmente sono utilizzati i test di David Wechsler, per adulti e per bambini (WAIS e WISC, attualmente arrivati alla versione R (revised) che permettere di ricavare informazioni di tipo sia verbale che non, che vanno dalla capacità di comprendere il linguaggio parlato od il significato delle parole, all’esecuzione di compiti di coordinamento oculo-manuale.

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R

Raptus: improvviso impulso intensissimo che può portare ad una momentanea perdita della capacità di intendere e di volere; può spingere il soggetto ad effettuare gesti violenti od aggressivi di tipo auto o etero-aggressivo. È quindi una turba episodica accessuale del comportamento gestuale e motorio che consiste nel bisogno incoercibile di compiere improvvisamente un gesto od un’azione violenta che risulta dannosa e che sfugge completamente al controllo vigile dell’attore.

Si distinguono:

  • Un raptus ansioso, che si registrerebbe nelle reazioni nevrotiche acute, con crisi di angoscia talmente invasiva che può concomitare con stato confusionale, crepuscolare, emergenze impulsive o amnesie dell’episodio critico.
  • Un automatismo psicotico, tipico invece di una bouffe delirante o di una sindrome confusionale; in questi casi l’atto avviene in una condizione onirica od oniroide, con compromissione più o meno accentuata dello stato di coscienza e del ricordo parziale, frammentato se non del tutto assente.
  • Un automatismo allucinatorio, presente all’interno di una sindrome confusionale, nell’ambito di un episodio dissociativo acuto o a seguito di un’allucinazione all’interno di un quadro schizofrenico.
  • Un impulso patologico, tipico invece delle psicosi organiche come Epilessia, Alcolismo cronico, Demenza ed Insufficienza Mentale.

Il raptus assume rilevanza in ambito di diritto penale, in quanto costituisce una momentanea incapacità e quindi una condizione di non imputabilità o comunque di attenuante, anche se questo non significa la “liberazione” dell’imputato che, può essere giudicato socialmente pericoloso e richiedere quindi misure cautelari alternative alla reclusione in carcere.

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Resilienza: è la capacità di far fronte in maniera resistente, con forza maggiore, agli eventi traumatici o comunque negativi e di riorganizzare positivamente la propria vita di fronte alle difficoltà. Il termine deriva dall’ambito ingegneristico meccanico come la capacità di un materiale a resistere a sollecitazioni, urti e colpi, Alcuni autori concepiscono la resilienza come una funzione psichica che si modifica nel tempo, che può avere una certa predisposizione anche genetica, ma che si interfaccia continuamente con l’ambiente e le esperienze passate, i vissuti ed il modificarsi dei meccanismi mentali che ne stanno alla base,

una persona resiliente è quella che, totalmente immersa in una situazione per niente benevola, riesce a fronteggiare le contrarietà efficacemente, cercando di cogliere le opportunità positive che in tali circostanze continuano ad esistere, seppur celate.

La resilienza è un concetto importante soprattutto in ambito di Psicologia delle Emergenze e della Psicotraumatologia, in quanto ci si trova a lavorare con persone che, anche nella disgrazia improvvisa, sanno riemergere dalle difficoltà, cogliendo le possibilità dell’ambiente, della rete sociale e di loro stesse, per trovare la soluzione più funzionale ed adeguata.

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Ritardo mentale: condizione di interrotto o incompleto sviluppo psichico caratterizzata dalla compromissione delle abilità tipiche del periodo evolutivo e che contribuiscono al livello globale di intelligenza (livello cognitivo, linguistico, sociale e motorio). Il ritardo può presentarsi come unica manifestazione morbosa o accompagnato da alterazioni sia somatiche che psicologiche; quest’ultime sono molto più frequenti, in termini di incidenza, rispetto alla popolazione generale. Secondo il DSM-IV la caratteristica principale per una diagnosi di ritardo mentale è un funzionamento intellettivo inferiore alla media, accompagnato da significative limitazioni nel funzionamento adattivo in almeno due aree delle capacità di prestazione tra: comunicazione, cura della persona, vita in famiglia, capacità sociali/interpersonali, uso delle risorse della comunità, autodeterminazione, capacità di funzionamento scolastico, lavoro, tempo libero, salute e sicurezza. L’esordio avviene prima dei 18 anni e spesso è evidente fin dai primi anni di scolarizzazione. Esiste una classificazione per gradi di gravità che distingue il Disturbo mentale in lieve, moderato, grave e gravissimo sulla base di un punteggio standardizzato del Quoziente Intellettivo. Molti preferiscono invece lavorare sul miglioramento delle isole di abilità, ossia quelle rimaste intatte o comunque ben sviluppabili e, piuttosto che classificare il deficit, definiscono i margini di miglioramento, soprattutto per quanto riguarda la socialità, l’utilizzo dell’ambiente e della rete, l’autonomia e la cura di sé.

Ritardo mentale lieve (QI compreso tra 50 e 70)

Rappresenta la maggioranza dei ritardi mentali (85%). Da un punto di vista educativo viene definito “recuperabile”. I bambini affetti da un ritardo mentale lieve sviluppano competenze sociali e comunicative in età prescolare, hanno modeste difficoltà nell’area sensomotoria e spesso non sono distinguibili dagli altri coetanei fino ad un’età superiore. Riescono a raggiungere facilmente la quinta elementare ed un livello di apprendimento corrispondente alla prima e alla seconda media. Da adulti, di solito, riescono a badare a se stessi, ma possono necessitare di un aiuto e di una guida in situazioni inusuali.

Ritardo mentale moderato (QI compreso tra 35/40 e 50/55)

Rappresenta il 10% circa dei ritardi mentali. La maggior parte dei soggetti acquisisce competenze comunicative nella prima infanzia e, con moderata supervisione, è in grado di badare a sé. Trae giovamento da un insegnamento per competenze sociali e occupazionali, ma difficilmente arriva ad un apprendimento superiore alle prime classi elementari. Durante l’adolescenza, a causa delle difficoltà incontrate nel riconoscere ed accettare le convenzioni sociali, i soggetti con ritardo mentale moderato possono avere difficoltà nei rapporti con i coetanei. Da adulti possono svolgere lavori semplici in comunità protette.

Ritardo mentale grave (QI compreso tra 20/25 e 35/40)

Rappresenta il 3-4 % dei ritardi mentali. I soggetti con ritardo mentale grave raggiungono un linguaggio molto approssimato o non lo raggiungono affatto. Nella scuola dell’obbligo possono imparare a parlare e a svolgere compiti elementari, come apprendere l’alfabeto e contare. Da adulti possono essere in grado di svolgere attività semplici in strutture strettamente supervisionate.

Ritardo mentale profondo (QI uguale a 20/25)

Rappresenta circa l’1-2% dei ritardi mentali. La maggior parte dei soggetti con questo tipo di ritardo mentale presenta malattie neurologiche non identificate. Nella prima infanzia possono migliorare le funzioni senso-motorie, specie se inseriti in gruppi altamente strutturati con supervisione costante.

Ritardo mentale non altrimenti specificato (N.A.S.)

Comprende quei bambini con deficit multipli di cui è difficile valutare il livello di insufficienza mentale, presumibile soltanto attraverso l’osservazione esterna.

Il decorso del disturbo dipende dalla gravità, dalle cause e dal modello operativo di intervento. Soprattutto in presenza di ritardi mentali di entità lieve, l’intervento precoce risulta fondamentale per consentire un recupero maggiore delle funzioni deficitarie. I problemi di adattamento sono i più soggetti a miglioramento. Non esiste un assetto di personalità tipico del ritardo mentale. Alcuni bambini sono passivi, placidi e dipendenti, mentre altri possono essere aggressivi e impulsivi; ciò capita soprattutto se il bambino non parla, per cui l’impulsività sostituisce le performance comunicative.

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Ruolo di genere

Il ruolo di genere è l’espressione esteriore dell’identità di genere e riflette quei comportamenti imposti direttamente o indirettamente dalla società. Esso fa dunque riferimento ad una serie  di condotte comportamentali tipicamente associate ai maschi o alle femmine in un dato gruppo o in un sistema sociale.
Il ruolo di genere non è stabilito alla nascita ma è il risultato di un apprendimento non programmato delle esperienze in cui ci si imbatte nel corso della vita, comprendendo con ciò aspetti  legati al modello educativo genitoriale introiettato dall’individuo.
Sulla base di norme culturalmente condivise, si presuppone che un individuo mostri degli atteggiamenti socialmente conformi al sesso biologico, ossia che si comporti secondo dei modelli comportamentali percepiti o alle volte imposti come tipici dello status maschile o femminile.
Il ruolo di genere si costituisce pertanto come l’insieme di tutte le azioni, gli atteggiamenti e le parole che un individuo esprime nel contesto sociale per appartenere ad un determinato sesso, includendo l’eccitazione e la risposta sessuale. (Money, 1975).
Vengono pertanto individuati, appresi e messi in atto tutte quei comportamenti caratteristici tipici  del modello maschile o di quello femminile, ritenuti accettabili nel contesto storico e socioculturale di crescita e di sviluppo dell’individuo.
La formazione del ruolo di genere avviene abitualmente in un periodo che va dai tre ai sette anni e può essere pertanto fortemente determinata dalla società, dalla scelta della relazione d’oggetto e dalla possibilità di aderire agli stereotipi sessuali per cui essa si caratterizza.

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S

Schizofrenia: Disturbo psicotico per antonomasia, si caratterizza per un progressivo distacco dall’ambiente sociale che può avvenire repentinamente o in maniera più lenta ed insidiosa. Il termine indica il sintomo principale ossia la dissociazione psichica ossia l’improvvisa incapacità ad utilizzare i comuni nessi logici fra cose, eventi o stati emotivi.

I sintomi della schizofrenia possono interessare tutte le funzioni che caratterizzano il comportamento, la cognizione e le emozioni della persona: la percezione, il pensiero, il linguaggio, la volontà, la creatività e talvolta tale influenza può apportare anche alcuni miglioramenti, fermo restando che si tratta di una malattia fortemente intrusiva, persistente e quindi frequentemente invalidante.

Generalmente vengono identificate due principali classi di sintomi, comuni a tutte le psicosi:

  1. I sintomi positivi o produttivi, che si distinguono in Deliri: pensieri e convinzioni assolute ed incontestabili radicate nel cervello del malato, ma prive di una base reale; e Allucinazioni: percezioni (perlopiù uditive) di stimoli del tutto irreali, come sentire voci che parlano di lui oppure di vedere oggetti che si muovono fino al punto di inseguirlo; e Disturbi del pensiero: pensiero dissociato, “furto” del pensiero, influenzamento del pensiero, neologismi, “insalata” di parole, tangenzialità.
  2. I sintomi negativi, rappresentati da: Disturbi dell’affettività: appiattimento affettivo, ambivalenza affettiva, contraddizione, autismo; Anedonia: mancanza di emozioni, abulia, isolamento e apatia. Lo schizofrenico perde progressivamente ogni interesse per quanto lo circonda e si chiude in se stesso, dimostrando una forte abulia nei confronti del mondo esterno. Non desidera più avere rapporti sociali, si estranea dal nucleo familiare e si chiude in un mondo tutto suo; Disturbi catatonici: completo immobilismo e mutismo, o esplosioni incontrollate di aggressività; catalepsia (ossia la possibilità di posizionare le membra del paziente in qualsiasi posizione).

Secondo il DSM IV-R è possibile formulare una diagnosi di Schizofrenia quando sono presenti due (o più) dei seguenti sintomi caratteristici, ciascuno presente per un periodo di tempo significativo durante un periodo di un mese (o meno se trattati con successo):

deliri;

allucinazioni;

eloquio disorganizzato (per esempio, frequenti deragliamenti o incoerenza);

comportamento grossolanamente disorganizzato o catatonico, bizzarrie comportamentali, manierismi, posture;

sintomi negativi, cioè appiattimento dell’affettività;

Infine, sempre secondo il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, la schizofrenia si differenzia in 4 sindromi:

  • forma paranoide-allucinatoria: con una marcata prevalenza di deliri ed allucinazioni, naturalmente oltre ai sintomi principali. Spesso assume una forma acuta e comincia durante o dopo il quarto decennio di vita;
  • forma catatonica: i sintomi catatonici sono molto marcati. Anche i deliri e le allucinazioni sono possibili;
  • forma ebefrenica: si sviluppa quando il paziente è ancora giovane. Caratteristica è la sensazione di superficialità che questi pazienti irradiano. La prognosi è decisamente sfavorevole;
  • schizofrenia semplice: questo processo ha luogo lentamente ed in maniera non drammatica. Con il passare dei mesi e degli anni, il paziente perde l’impulso all’iniziativa, rende sempre di meno, riduce i contatti umani, ed infine sviluppa quasi solo i sintomi principali ed essenziali della schizofrenia. La prognosi è negativa. Il paziente non ha praticamente chance di tornare veramente sano.

Nella realtà vi sono diverse sfaccettature e sovrapposizioni per cui ogni persona affetta da questo disturbo tende ad essere una realtà fenomenologica distinta dalle altre; inoltre nelle sue sottoforme il disturbo tende a manifestarsi con veemenza soltanto durante crisi acute, alternando quindi momenti di relativo benessere nel quale però si manifestano i sintomi persistenti della malattia, che ha un andamento decisamente cronico.

Secondo i riscontri dell’Oms, una persona su tre guarisce completamente, un terzo dei pazienti deve invece essere sottoposto a un trattamento prolungato, che consente comunque di svolgere alcune attività anche se non permette il ritorno a una vita completamente normale. Infine, un terzo tende a diventare paziente cronico, con progressive difficoltà a conservare le normali relazioni sociali; è possibile seguire alcuni training specifici che consentono di aumentare il numero e migliorare la qualità di alcune abilità, da quelle sociali a vere e proprie competenze lavorative che possono quindi incidere favorevolmente sulla qualità della vita.

L’ipotesi di una causa genetica della schizofrenia non è ancora stata confermata, ma è noto che la familiarità sia un fattore di rischio rispetto alla popolazione generale. Studi su gemelli omozigoti dimostrano infatti che vi sono altri possibili fattori causali, come:

Ambiente sociale – La schizofrenia tende a manifestarsi soprattutto nelle fasce meno agiate della popolazione e con basso livello culturale. Tuttavia non si sa con precisione se questa condizione sociale è una causa o piuttosto un effetto della malattia.

Fattori familiari e psicosociali – Fin dagli anni Sessanta numerosi studi hanno indagato gli eventi stressanti maggiori rilevando che, le persone affette da Schizofrenia hanno subito un numero significativamente più elevato di eventi stressanti immediatamente prima l’esordio o la ricaduta e non ci si riferisce soltato ad uno stress personale ed individuale, ma anche a quello che può coinvolgere l’intera famiglia. Tra gli stressor cronici i più rilevanti sono un ambiente sociale troppo stimolante e quelli prodotti dai rapporti e dal clima familiare. Il costrutto di Emotività espressa si riferisce appunto al clima familiare e comprende l’ostilità verso il paziente, le critiche per il suo comportamento, l’insoddisfazione, ipercoinvolgimento emotivo (costante apprensione per tutto ciò che fa, intrusività ed iperprotetività), i commenti positivi, l’empatia ed il calore. Un clima familiare ad alta EE si caratterizza soprattutto per l’atteggiamento ostile, le frequenti critiche e l’ipercoinvolgimento emotivo, mentre nelle famiglie a bassa EE si osserva maggior empatia e calore, un atteggiamento supportivo e non intrusivo, commenti positivi su alcuni comportamenti, eventualmente insoddisfazione e preoccupazione per la sua condizione. Naturalmente il manifestarsi della malattia non è secondario a certa causa familiare, così come non si ha una natura completamente genetica; il problema tende però ad esacerbarsi innescando un circolo vizioso tra alta EE della famiglia e sintomi schizofrenici dell’ammalato.

Vulnerabilità – Attualmente viene considerata l’ipotesi causale più accreditata e si basa sulla presenza di una componente genetica predisponente su cui agirebbero elementi esterni in grado di “scatenare” la malattia. In pratica, chi si ammala sarebbe particolarmente esposto alla patologia per motivi genetici, ma solo le condizioni ambientali, come per esempio una difficile vita familiare o scolastica, potrebbero dare il via ai sintomi

Neurotrasmettitori alterati – I sintomi più gravi della schizofrenia (come i deliri) sono direttamente collegati a un aumento localizzato della dopamina, una sostanza chimica che ha il compito di favorire il passaggio dei segnali nervosi tra le cellule cerebrali, in alcune zone del cervello. In particolare, l’eccessiva attività stimolante della dopamina sarebbe presente nei punti di collegamento tra i neuroni, le cosiddette sinapsi. Da qui l’ipotesi biochimica della schizofrenia, che tuttavia viene ancora considerata tale perché non è ancora chiaro se l’eccessiva attività della dopamina sia una causa o una conseguenza della malattia.

L’insorgenza della schizofrenia non è quasi mai eclatante: possono verificarsi manifestazioni ossessive, come la sensazione di sentire odori strani o voci intorno sé. Nella maggior parte dei casi la malattia insorge in maniera molto subdola, e proprio questo rende molto difficile formulare una diagnosi precoce. In genere vi è una comparsa progressiva di segnali che debbono mettere in allarme e che ricordano in qualche modo i sintomi più tipici della depressione: sospettosità, chiusura in se stessi, perdita di interesse per le attività quotidiane, ecc. In questa fase è molto comune scambiare i primi segni della schizofrenia con un quadro depressivo, anche perché non si sono ancora manifestate le tipiche “dissociazioni” con l’ambiente. Sarebbe invece molto importante riuscire a identificare precocemente la malattia, perché si è visto che l’intervento terapeutico in fase iniziale offre risultati migliori nel trattamento.

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Segreto professionale: Obbligo di fedeltà che comporta il mantenimento del segreto, al quale i professionisti che operano in tutti quegli ambiti di cura degli interessi dei cittadini, siano interessi legali, economici o sanitari, sono tenuti per legge ad adempire. Secondo l’Articolo 622 del codice penale: “Chiunque, avendo notizie, per ragioni del proprio stato o ufficio, o della propria professione o arte, di un segreto, lo rivela, senza giusta causa, ovvero lo impiega a proprio o altrui profitto, è punito, se dal fatto può derivare nocumento, con la reclusione fino ad un anno o con la multa da …”.

A ribadire l’obbligo di riservatezza nell’ambito della salute mentale concorrono il Codice Deontologico Nazionale degli Psicologi ed il Codice di Deontologia Medica.

Gli articoli n.11 e n.12 del Codice Deontologico Nazionale degli Psicologi disciplinano questo ambito, conferendo al mantenimento del segreto professionale non solo un valore giuridico, ma anche etico.

Art. 11: “Lo psicologo è strettamente tenuto al segreto professionale. Pertanto non rivela notizie apprese in ragione del suo rapporto professionale, né informa circa le prestazioni professionali effettuate o programmate, a meno che non ricorrano le ipotesi previste dagli articoli seguenti.”

Art. 12: Lo psicologo si astiene dal rendere testimonianza sui fatti di cui è venuto a conoscenza in ragione del suo rapporto professionale. Lo psicologo può derogare all’obbligo di mantenere il segreto professionale, anche in caso di testimonianza, esclusivamente in presenza di valido e dimostrabile consenso del destinatario della sua prestazione. Valuta, comunque, l’opportunità di far uso di tale consenso, al segreto professionale. Pertanto non rivela notizie, fatti, o informazioni considerando preminente la tutela psicologica dello stesso.”

Gli articoli 15 e 16 del Codice Deontologico Nazionale degli Psicologi impongono, inoltre, la tutela del paziente e la riservatezza anche in caso di interventi in collaborazione con altri soggetti anch’essi tenuti al segreto e di redazione di comunicazioni scientifiche. L’articolo 13, invece, impone cautele e limiti con riguardo a ciò che lo psicologo può esporre all’Autorità nell’adempimento dei suoi obblighi di referto o di denuncia.

E’ importante anche poter individuare la persona offesa dalla violazione del segreto. Spesso, infatti, la prestazione viene fornita a una persona diversa dal committente e potrebbe sorgere un conflitto tra i due soggetti, i quali potrebbero essere interessati in maniera diversa. L’articolo 4, comma 4 del Codice Deontologico Nazionale degli Psicologi sancisce il dovere di tutelare in maniera prioritaria, nel conflitto con il committente, il destinatario della prestazione.

Per quanto riguarda la figura del medico, l’obbligo del segreto professionale era previsto già nel giuramento di Ippocrate ed è stato successivamente tramandato fino ad oggi nelle vigenti norme deontologiche.

Secondo l’articolo 9 del Codice di Deontologia Medica, il medico deve mantenere il “segreto su tutto ciò che gli è confidato o che può conoscere in ragione della sua professione; deve, altresì, conservare il massimo riserbo sulle prestazioni professionali effettuate o programmate, nel rispetto dei principi che garantiscano la tutela della riservatezza.

La rivelazione assume particolare gravità quando ne derivi profitto, proprio o altrui, o nocumento della persona o di altri.

Costituiscono giusta causa di rivelazione, oltre alle inderogabili ottemperanze a specifiche norme legislative (referti, denunce, notifiche e certificazioni obbligatorie):

a) – la richiesta o l’autorizzazione da parte della persona assistita o del suo legale rappresentante, previa specifica informazione sulle conseguenze o sull’opportunità o meno della rivelazione stessa;

b) – l’urgenza di salvaguardare la vita o la salute dell’interessato o di terzi, nel caso in cui l’interessato stesso non sia in grado di prestare il proprio consenso per impossibilità fisica, per incapacità di agire o per incapacità di intendere e di volere;

c)- l’urgenza di salvaguardare la vita o la salute di terzi, anche nel caso di diniego dell’interessato, ma previa autorizzazione del Garante per la protezione dei dati personali.

La morte del paziente non esime il medico dall’obbligo del segreto.

Il medico non deve rendere al Giudice testimonianza su ciò che gli è stato confidato o è pervenuto a sua conoscenza nell’esercizio della professione.

La cancellazione dall’albo non esime moralmente il medico dagli obblighi del presente articolo.”

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Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura (S.P.D.C.): il D.S.M. dispone, per le esigenze di diagnosi e cura ospedaliere sul territorio, di un Servizio psichiatrico di diagnosi e cura (S.P.D.C.) con un modulo di 15 posti letto.

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Somatizzazione: meglio noto disturbo di somatizzazione si caratterizza con un quadro di ricorrenti lamentele fisiche multiple, clinicamente significative ossia che comporta la ricerca di un trattamento medico (spesso farmacologico) e che causa una significativa menomazione nel funzionamento sociale, lavorativo od altre aree importanti della vita di un individuo. Si tratta di un disturbo incluso nella grande categoria dei Somatoformi, si presenta prima dei 30 anni di età e persiste per alcuni anni, affinché sia possibile farne la diagnosi. Inoltre il dolore deve presentarsi in almeno 4 loci diversi o funzioni (quindi non sono tutti derivanti dalla stessa attività, per esempio vari dolori legati alla sessualità, piuttosto che ad un’intensa attività fisica o psichica) ed inoltre devono essere presenti almeno due sintomi gastro-intestinali che non siano semplicemente il dolore. Solitamente si osserva nausea e vomito, meno la diarrea, in assoluto la minor frequenza si ha invece per l’intolleranza al cibo. Queste persone, al contrario dei Disturbi Fittizi, hanno problemi di natura organica specifici e molto intensi che però hanno origine psichica, ma, poiché spesso vengono misconosciuti non è infrequente trovarli con una documentazione di indagine clinico-fisiche ben dettagliata. Lo stato di salute è talmente compromesso e la persona tanto esasperata da sottoporti ad indagini anche invasive e dolorose pur di venire a capo del problema. Affinché la diagnosi sia corretta, oltre ai disturbi gastro-intestinali si deve registrare almeno un disturbo o una funzione nella sfera sessuale o riproduttiva che non sia solo il dolore, compresa l’assenza di desiderio sessuale, anche se questo sintomo può presentarsi come conseguenza del Disturbo. Il comportamento delle persone con Disturbo di somatizzazione può essere molto impulsivo, con linguaggio colorito e toni esasperati e questo può indurre a pensare che il disturbo sia inventato o esagerato per l’ottenimento di un vantaggio secondario, ma questo non è invece riscontrabile. All’esame fisico possono essere presenti dei disturbi reali, ma non risultano mai sufficienti a giustificare il grado e la frequenza delle lamentele.

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Stalking:

È l’insieme di atti persecutori e di condotte reiterate nel tempo che possono essere dirette o indirette. La vittima, nella maggior parte dei casi una donna conosciuta che ha interrotto o manifestato l’intenzione di interrompere il rapporto, viene sottoposta a minacce, molestie, lesioni che la inducono a uno stato di soggezione e grave disagio fisico e psichico.
Gli studi sullo stalking vedono il fenomeno manifestarsi nelle seguenti situazioni relazionali:

  • nel 55% circa nella relazione di coppia;
  • nel 25% circa nel condominio;
  • nello 0,5% circa nella famiglia (figli/fratelli/genitori);
  • nel 15% circa sul posto di lavoro/scuola/università

L’autore o stalker è la persona che agisce spinto dal desiderio di recuperare il precedente rapporto o per vendicarsi di qualche torto subito, reale o presunto. In altri casi ci si trova invece davanti a persone con problemi di interazione sociale, che agiscono in questo modo con l’intento di stabilire una relazione sentimentale imponendo la propria presenza ed insistendo anche nei casi in cui si sia ricevuta una chiara risposta negativa. Meno frequente il caso di individui affetti da disturbi mentali, per i quali l’atteggiamento persecutorio ha origine dalla convinzione di avere effettivamente una relazione con l’altra persona.Qualora lo Stalker fosse affetto da un disturbo mentale, ci si troverebbe di fronte ad una sindrome complessa inscrivibile in una delle seguenti tipologie clinica:

  1. disturbo di personalità antisociale, narcisistico e paranoide con organizzazione “borderline” di personalità o a struttura perversa (talvolta associata a uso/abuso di sostanze stupefacenti/alcoliche);
  2. disturbo ossessivo compulsivo, con funzionamento al limite o perverso;
  3. nevrosi fobica con ipercompensazioni contro fobiche e contro costrittive a sfondo erotico – sentimentale;
  4. disturbo delirante, con delirio erotico, persecutorio o di gelosia;
  5. fase maniacale del disturbo bipolare;
  6. disturbi correlati a un danno organico celebrale (da trauma cranico, da sostanza, da degenerazione primaria o mista) o a ritardo mentale medio – grave.

Sheridan e Boon (2003) hanno offerto un modello esplicativo del fenomeno che oggettiva 4 tipologie.
Tipologia 1: molestie da parte di un ex partner che prova odio e risentimento a causa dell’interruzione di una precedente relazione. Il temperamento ostile e impulsivo si manifesta anche in presenza di terzi.
Tipologia 2: atti persecutori dovuti a infatuazione in cui il desiderio anche se manifestato con rabbia nella fantasia dello stalker appare come romantico e positivo.
Tipologia 3: stalking delusionale e di fissazione caratterizzato da azioni variegate e imprevedibili, da un modello comportamentale incoerente o dalla costruzione di una realtà alternativa in cui il persecutore non è disposto a riflettere sulle ragioni della vittima ravvisando le cause del rifiuto in fattori situazionali esterni.
Tipologia 4: stalking sadico in cui la vittima è presa di mira in modo ossessivo perché ad esempio percepita come felice e realizzata. Lo stalker si caratterizza per accentuata freddezza emotiva, alessitimia e disturbo antisociale della condotta.
A fini puramente pragmatici attualmente si utilizza una suddivisione dello stalker nelle seguenti categorie:

  1. il “risentito”, caratterizzato da rancori per traumi affettivi ricevuti da altri a suo avviso ingiustamente (tipicamente un ex-partner di una relazione sentimentale)
  2. il “bisognoso d’affetto”, desideroso di convertire a relazione sentimentale un ordinario rapporto della quotidianità; insiste e fa pressione nella convinzione che prima o poi l’oggetto delle sue attenzioni si convincerà
  3. il “corteggiatore incompetente”, che opera stalking in genere di breve durata, risulta opprimente ed invadente principalmente per “ignoranza” delle modalità relazionali, dunque arreca un fastidio praticamente preterintenzionale
  4. il “respinto”, rifiutato dalla vittima, caratterizzato dal voler contemporaneamente vendicarsi dell’affronto costituito dal rifiuto ed insieme riprovare ad allestire una relazione con la vittima stessa
  5. il “predatore”, il cui obiettivo è di natura essenzialmente sessuale, trae eccitazione dal riferire le sue mire a vittime che può rendere oggetto di caccia e possedere dopo avergli incusso paura; è una tipologia spesso riguardante pedofili e feticisti

Lo stalking è considerato reato in diversi paesi del mondo. Le norme anti-persecuzione sono volte a tutelare le vittime di tutti quegli atti persecutori che, per la loro caratteristica di ripetitività e perduranza nel tempo, provocano nelle persone colpite stati di ansia e paura per la propria incolumità o le costringono ad alterare significativamente le proprie abitudini di vita.

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Stress: condizione, cui l’individuo è sottoposto per un certo periodo di tempo, che implica un dispendio di energie superiore alle risorse personali tale da mettere in pericolo il suo benessere. Storicamente, gli studiosi che si sono occupati del fenomeno hanno enfatizzato ora il ruolo dell’ambiente esterno come fattore determinante l’esperienza dello stress (modello dello stimolo), ora i fattori interni all’individuo come determinanti le risposte di stress (modello della risposta). Attualmente viene ribadita l’importanza dell’interazione tra fattori interni all’individuo e stimoli esterni nel determinare l’esperienza dello stress e la risposta ad esso (modello transazionale). Secondo il modello transazionale lo stress rappresenta un processo che implica continui aggiustamenti, transizioni, tra ambiente e individuo, il quale viene oggi considerato come agente attivo in grado di scegliere delle strategie cognitive, emozionali, comportamentali da mettere in atto di fronte all’evento stressante. La valutazione delle strategie da mettere in campo per fare fronte allo stress si sviluppa attraverso due principali processi: valutazione cognitiva primaria e valutazione cognitiva secondaria. La prima corrisponde alla fase in cui l’individuo valuta il significato dell’evento stressante e stabilisce se esso rappresenti una minaccia per il suo benessere psico-fisico. La seconda corrisponde, invece, alla valutazione delle risorse disponibili e delle capacità di fronteggiare l’evento stressante. Farnè (1999) ha proposto una distinzione tra eustress e distress, definendo il primo come quel grado di stress che non danneggia la salute e che addirittura può contribuire a migliorarla, facendoci trovare e godere di successi e trionfi. Il distress, al contrario, è stato definito come condizione che genera nell’organismo una richiesta eccessiva a livello fisico e psichico e che si caratterizza per presenza di fattori quali ansia, disagio, tensione psicologica ed emozionale, reazioni negative o non adeguate agli eventi stressanti, che rendono l’individuo estremamente vulnerabile. Lo stress psicologico esprime una componente estremamente soggettiva: nessun evento significativo può essere considerato a priori come stressante, ma viene classificato come stressante nella misura in cui noi lo percepiamo come tale.

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Stress occupazionale: forma di disagio occupazionale, essenzialmente di due tipi: lo stress derivante dalla natura stessa del lavoro e lo stress organizzativo. Il primo si verifica in professioni che sono stressanti per sé o per le responsabilità che implicano. Il secondo riguarda specifici problemi organizzativi, ovvero l’impostazione generale specifica del lavoro (distribuzione dei carichi di lavoro tra diverse unità operative, ritmi, pause, turni, insufficienza o inadeguatezza della formazione, ergonomia).

E’ stata individuata, in letteratura, anche un’altra forma di disagio organizzativo, denominata straining. Essa consiste in una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno un’azione che ha un effetto negativo nell’ambiente lavorativo, azione che oltre a essere stressante, è caratterizzata anche da una durata costante. La vittima è in persistente inferiorità rispetto alla persona che attua lo straining (strainer). Lo straining viene attuato appositamente contro una o più persone, ma sempre in maniera discriminante.

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T

Test: noto anche come reattivo psicodiagnostico, è uno strumento che permette di misurare aspetti del pensiero e del comportamento in modo più o meno mirato a seconda dello scopo. In ambito clinico si tende ad utilizzare sia test standardizzati che non, mentre solo i primi sono considerabili accettabili ai fini di una ricerca o indagine più precisa. Si distinguono test di livello, che misurano quindi delle specifiche competenze e vengono spesso utilizzati in ambito di Orientamento allo studio o al lavoro, così come i test di attitudine che possono evidenziare le potenzialità, anche a livello di personalità, capacità di lavorare in gruppo, rendimento sotto stress e così via. In ambito clinico e forense prevalgono i test di personalità come il MMPI-2, pubblicato per la prima volta da Hathaway e McKinley nel 1942, revisionato ed arricchito grazie all’intervento di Butcher e Williams. Il test è stato standardizzato anche in una versione italiana e viene utilizzato per delineare quadri psicopatologici specifici; le scale emergenti dalla somministrazione rilevano sintomi di tipo ipocondriaco, depressivo, isterico, paranoico, psicastenico, schizofrenico e maniacale. È possibile rilevare un atteggiamento più o meno femminile, in termini più di ruolo sociale che di orientamento sessuale, ed una certa tendenza all’introversione ed al ritiro sociale. Il test ha misure di validità molto sofisticate e data la sua lunghezza, risulta particolarmente difficile simularne i risultati senza venir scoperti. Scale aggiuntive permettono di valutare l’autopercezione dei sintomi ed alcune tendenze specifiche verso le dipendenze.

Se il test MMPI si definisce strutturato, in quanto fornisce stimoli chiari e specifici, altri test di personalità, utilizzati e largamente accettati soprattutto in ambito infantile, si basano proprio sull’ambiguità dello stimolo offerto il quale dovrebbe rilevare un’interpretazione ed un significato psicologico personale. I test proiettici consentirebbero di delineare indirettamente le caratteristiche strutturali della vita psichica e delle dinamiche cognitive ed affettive del soggetto ed il loro limite sta nell’interpretazione che poi deriva il clinico, anche se si stanno delineando linee guida sempre più precise e standardizzate.

Tra i più noti test proiettivi naturalmente il Rorschach, caratterizzato da tavole con delle immagini ambigue ed il TAT (Thematic Apperception Test).

Fra i test utilizzati nei contesti organizzativi, in specifico durante i processi di selezione del personale, sicuramente uno dei più utilizzato è il 16PF di Cattell per la semplicità di compilazione e per la completezza dei risultati ottenibili, tra l’altro adoperabile anche in contesti di tipo clinico.

I test d’intelligenza vengono utilizzati per verificare la deviazione del quoziente intellettivo rispetto ad un campione normativo per età e sesso. Il più comune è senz’altro la WAIS, applicabile in ragazzi dai 16 in poi, mentre esiste una versione per bambini in età scolare (WISC) ed in età pre scolare (WPSSI). Il test fornisce un valore di intelligenza globale a partire da 2 scale subcliniche di natura verbale e di performance, ma anche un indice di deterioramento mentale.

Simili ai test di intelligenza esistono poi quelli per individuare le abilità residue e vengono utilizzati principalmente nei casi di Demenza, patologia che implica un’importante attivazione nel mantenere le abilità possedute al momento della diagnosi e nel migliorare quelle che hanno subito un peggioramento (memoria, linguaggio, orientamento spaziale, riconoscimento di persone o luoghi).

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Test Rorschach:

In Psicometria ed in Psicodiagnostica, le macchie di Rorschach, così chiamate dal nome del loro creatore Hermann Rorschach sono la base del noto test reattivo – proiettivo per l’indagine della personalità.

Anche se l’interpretazione di disegni ambigui era una pratica ideata già da Leonardo da Vinci e Botticelli, e anche se il medico tedesco Justinius Kerne nel 1857 pubblicò un libro di poesie ognuna delle quali ispirata a una macchia d’inchiostro creata accidentalmente e lo psicologo francese Alfred Binet aveva compiuto esperimenti con macchie di inchiostro utilizzate come test di creatività, Rorschach, per primo, oggettivò un approccio sistematico.

Rorschach, un anno prima di morire prematuramente a soli 37 anni, scrisse il libro “Psychodiagnostik” (1921) destinato a formare la base del test, tuttavia il volume non godette inizialmente di molta attenzione. Walter Morgenthaler produsse nel 1932 una seconda edizione, mentre la prima traduzione in lingua inglese avvenne solo nel 1942, con il titolo Psychodiagnostics: A Diagnostic Test Based on Perception.

Il metodo di valutazione dei risultati del test creato inizialmente da Rorschach fu migliorato dopo la sua morte da altri studiosi tra i quali Samuel Beck, Bruno KlopferJohn Exner riunì in seguito alcuni di questi sviluppi nel comprehensive system (sistema comprensivo), anche in un tentativo di dare ai punteggi un rigore statistico. Il sistema di Exner rimane molto popolare negli Stati Uniti, mentre in Europa si considera spesso il libro di Evald Bohm, più vicino al sistema originario di Rorschach, come riferimento standard.

Il test si compone essenzialmente di 10 tavole, su ciascuna delle quali è riportata una macchia d’inchiostro simmetrica: 5 monocromatiche, 2 bicolori e 3 colorate. Le tavole vengono sottoposte una alla volta all’attenzione dell’individuo al quale, senza limiti di tempo, viene chiesto di esprimere secondo lui tutto ciò cui la tavola somiglia. Non esistono risposte giuste o sbagliate, ma dall’interpretazione delle risposte date a ciascuna tavola è possibile – a seconda del tipo di siglatura e di approccio teorico interpretativo – delineare un profilo di personalità e identificare eventuali nodi problematici. Essendo legato a risposte soggettive della persona e per ovviare alle carenze psicometriche, in particolare negli Stati Uniti a partire dalla fine degli anni ’70, sono iniziate ricerche di validazione sempre più ampie e strutturate, che hanno condotto all’articolazione di nuovi sistemi di inquadramento categoriale delle risposte qualitative fornite dal soggetto. Attualmente esistono due grandi gruppi di scuole di “siglatura”: quelle europee (una tradizione psicoanalitica e fenomenologica, radicata soprattutto in Francia che usa il cosiddetto “Metodo Chabert”, ed una detta svizzero-italiana con il “Metodo Bohm/Loosli-Uster/Passi-Tognazzo”) e quella americana (che usa il “Sistema Comprensivo di Exner”). L’interpretazione del test di Rorschach non si basa solo sul contenuto della risposta (inteso come che cosa la persona vede nella macchia d’inchiostro), essendo questa solo un aspetto delle numerose…? che debbono essere considerate per interpretare i dati. Il tempo impiegato dal soggetto per fornire una risposta ad una tavola è significativo (ad esempio il fattore temporale o i commenti limitrofi al nucleo tematico principale espresso nella risposte). Anche le informazioni sulle determinanti (gli aspetti generali della macchia d’inchiostro che hanno portato alla risposta, come la forma e il colore) e la posizione (quali dettagli della macchia hanno portato alla risposta, l’immagine , intera, un dettaglio o lo spazio intorno alla macchia) sono spesso considerate più importanti del contenuto, pur esistendo indicazioni contrastanti al riguardo. Anche l’originalità può essere inoltre considerata un’ulteriore categoria di base.

Gli psicologi e gli psichiatri ritengono necessario mantenere riservate le rappresentazioni delle tavole del Test di Rorschach, in modo da rendere spontanee e senza interferenze pregresse le risposte dei soggetti alla loro visione essendo determinante una risposta “istintiva”. Questa pratica è coerente con le indicazioni etico-deontologiche dell’American Psychological Association e dell’Ordine Nazionale degli Psicologi italiani, ed è ritenuta indispensabile per preservare l’affidabilità del test, per tale ragione esso è reso disponibile solamente ai professionisti. Questa linea di condotta etica e quella reclamata dall’ International Rorschach Society che rivendica il copyrigth, sono state violate per la prima volta da William Poundstone, con il suo libro Big Secrets, dove descriveva i metodi per la somministrazione del test e forniva la sagoma delle dieci immagini ufficiali e, successivamente, da alcuni siti Internet dove è possibile visionare le tavole.

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Transfert e Controtransfert: Il Transfert (franc. Transfert; ingl. Transference; ted. Übertragung), detto anche traslazione, indica il legame del paziente con l’analista che si instaura in modo automatico riattualizzando i significati che hanno supportato le sue domande di amore nell’infanzia e che testimonia che l’organizzazione soggettiva del soggetto è comandata da un oggetto che Lacan chiama oggetto di attaccamento. In senso specifico è, dunque, il trasferimento sulla persona dell’analista delle rappresentazioni inconsce proprie del paziente. Il transfert è una costante nelle relazioni, siano esse professionali, amorose o gerarchiche anche se i due partner i più delle volte non ne hanno coscienza. D’altro lato l’analista, per effetto della sua analisi personale, si presume che conosca le sue relazioni personali e che si ponga quale interprete in modo da non interferire e sapendo reperire le figure del passato che viene ad incarnare per il proprio paziente. L’analizzato, al contrario, dimentica che il quadro analitico non ha nulla a che vedere con la situazione vissuta un tempo. A questo punto l’intervento dell’analista, anche se limitato al puro ascolto, diventa determinante in quanto si presta al ruolo. La distanza mantenuta dall’analista permette al paziente di progredire analizzando tale transfert.

Nella storia del movimento psicoanalitico probabilmente nessun concetto ha subito una evoluzione così complessa e profonda come quello di transfert. Freud (1985) ha scoperto e preso in considerazione il fenomeno del transfert, rinunciando all’ipnosi, a seguito del fallimento del trattamento catartico nel caso di Anna O. e partendo dalla nozione di spostamento perché il paziente sposta sull’analista i propri conflitti intrasoggettivi.All’inizio il transfert è per Freud soltanto una forma di spostamento dell’affetto da una rappresentazione mentale ad un’altra, e la preferenza per lo schermo costituito dall’analista è dovuta al fatto che esso costituisce una specie di “resto diurno” sempre a disposizione del soggetto e che questo tipo di trasferimento favorisce la resistenza in quanto l’esplicitare il desiderio rimosso è reso più difficile se deve essere fatto all’interessato. Il transfert si concepisce essenzialmente come resistenza tendente a nascondere la vera natura delle fantasie infantili proiettate sull’analista.

Passando per le teorizzazioni raccolte ne “La dinamica del transfert” del 1912, in cui si parlerà per la prima volta esplicitamente di investimento libidico di “prototipi infantili”, “clichés indeformabili” esistenti nel soggetto, si perviene alla concezione, essenzialmente energetica, esplicitata in “Al di là del principio del piacere” (1920) in cui Freud riconduce il transfert a quella tendenza generale della materia vivente a ricostituire per ripetizione gli eventi traumatici nel fine onnipotente di accedere alla stasi pretraumatica. Secondo Freud, il transfert è una forma di innamoramento che prescinde dall’aspetto, dall’età e dal sesso dello psicoanalista, e si manifesta anche quando questi si mantiene distaccato dal paziente e conserva un comportamento riservato. Il transfert è la proiezione sulla persona della psicoanalista di un complesso di Edipo/ di Elettra che non è stato rimosso correttamente, di una sessualità infantile mal vissuta. Ha i tratti tipici di questo amore infantile, che non ha riguardo all’età, al sesso, all’aspetto comportamento della persona, e che l’Io tende a censurare.

Freud distingue un transfert positivo, nel senso spiegato sopra, da uno negativo quando il fenomeno diventa la più forte resistenza opposta al trattamento e quando non se ne è chiesto il perché. Il transfert positivo si compone di sentimenti amichevoli e teneri coscienti e di altri inconsci dal fondamento erotico che permettono ai due partner di affrontare anche argomenti molto intimi e delicati, quello negativo di sentimenti aggressivi e di sfiducia verso l’analista. Tramite il maneggiamento del transfert la compulsione alla ripetizione si trasforma permettendo al paziente il ricordo progressivo. Man mano che l’analista prosegue con l’associazione libera, quanto rimosso riemerge nella parte cosciente dell’io e si manifesta in forma sempre più simile a questo amore infantile, generalmente rivolto verso uno dei genitori, procedendo di pari passo in modo più violento l’azione di censura e il tentativo di tornare a dimenticare queste pulsioni. Lo psicoanalista non risolve la nevrosi e il transfert né cedendo parzialmente al transfert in cambio di un proseguimento del paziente nella cura, né tentando di reprimerlo o abbandonando la terapia. L’unica via d’uscita dalla situazione della traslazione, per Freud, consiste nel riannodarla al passato dell’ammalato, così come egli lo ha effettivamente vissuto, o come lo ha costruito nella sua immaginazione agente al servizio dei suoi desideri. La nevrosi e le fantasie del paziente spariscono quando ha rivissuto i propri istinti e riesce a ricordarli senza tentativi di rimozione, divenendone cosciente e padrone, quando la terapia ha ricostruito un Io più forte dell’inconscio e della coscienza morale, che ha ritrovato la sua unità e normalità.

Jung ha usato l’esempio dell’alchimia in merito al processo di trasformazione dei metalli, ipotizzando che costituisca inconsciamente anche una lucida illustrazione di quanto accade realmente nella pratica del trattamento del transfert ad opera dello psicoanalista, rivolto anch’egli ad un’opera di trasformazione – sia pure di natura esclusivamente psichica e non metallurgica. Jung diede alle stampe nel 1946 “Psicologia del Transfert“, che contiene le sue riflessioni su questo parallelismo, esaminando e commentando minuziosamente con questo criterio, quadro per quadro, le illustrazioni del “Rosarium Philosophorum” (antichissima opera alchemica). Jung nell’opera asserisce che nell’atto in cui il paziente trasferisce sul medico, mediante l’azione induttiva che si sprigiona sempre dalle proiezioni, un contenuto attivato dall’inconscio, viene costellato anche nel medico il materiale inconscio corrispondente. In tale modo medico e paziente si trovano in un rapporto fondato su una comune inconscietà”. Jung ritiene che il transfert non possieda necessariamente una natura sessuale e non esprima i rapporti edipici già vissuti perché potrebbe essere paradigmatico di tendenze psichiche che chiedono di essere attualizzate. Il transfert erotico è dunque uno tra i molti contenuti che potrebbero essere proiettati. Quando un transfert viene a cessare esso non si dissolve ma potrà spostarsi su un’altra relazione o in altre forme psicologiche. L’intensità del transfert corrisponde alla significatività per il paziente del contenuto proiettato.

In sintesi, se Freud interpretava il transfert come la manifestazione di una resistenza al lavoro analitico, come una coazione a ripetere lo stile dei rapporti parentali vissuti all’epoca del complesso edipico e come un’attualizzazione dei conflitti inconsci, riuscendo a cogliere anche gli aspetti positivi del transfert, Jung iscriveva il transfert nel fenomeno più ampio della proiezione che ha la sua radice in un inconscio attivato e che ha bisogno di esprimersi.

La Klein (1952) ritiene che nel transfert si manifestino non tanto le componenti edipiche quanto le relazioni oggettuali dei primissimi anni di vita che il paziente non può ricordare ma che possono essere ricostruite proprio a partire dalle reazioni di transfert del paziente. La Klein ipotizza anche la possibilità di cogliere nell’evoluzione del transfert la successione genetica delle fasi attraverso le quali il paziente è passato nel corso del primo sviluppo. Il paziente si distacca dall’analista proprio come cerca di distaccarsi dai propri oggetti originari. Tale tesi è stata accolta da Fairbairn, Winnicott e Balint.

Il controtransfert, detto anche contro traslazione, coinvolge l’analista e riguarda gli affetti suscitati in lui dal paziente. L’analista deve saperlo analizzare per far si che non sia d’intralcio all’analisi distogliendo lo psicanalista da una posizione corretta. Per Freud il controtransfert costituisce un elemento di ostacolo al progredire della terapia poiché invalida quell’atteggiamento di impassibilità e distacco emotivo necessario all’analista che si comporta di fronte al paziente come se fosse uno specchio che gli mostra solo ciò che gli viene mostrato.

D’altro lato, per Jung il controtransfert è indispensabile e ineliminabile in quanto strumento di conoscenza e partecipazione nella relazione dinamica che coinvolge i due partner della terapia. Il controtransfert per Jung va pertanto accolto e controllato.

La scuola della Klein considera infine il controtransfert come lo strumento privilegiato per comprendere la natura della relazione instaurata. La relazione dell’analista nei confronti del paziente è assimilata a un contenitore materno dove quest’ultimo al pari del bambino può modificare il modo di leggere l’esperienza, introiettando le modalità con cui è stato trattato.

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Vantaggio secondario: comunemente allo stato di malattia si attribuisce una condizione conseguente sia individuale che familiare, che si costituisce come una condizione che gioca un ruolo importante nel mantenimento della malattia stessa. Ogni condizione morbosa, sottintende, talvolta malgrado chi ne è affetto o i suoi familiari, un vantaggio secondario ossia una situazione favorevole che la malattia porta con sé. A volte le persone od i familiari sembrano aver ben compreso quale vantaggio ci sia in un disturbo di natura psicologica, primo fra tutti l’attenzione ricevuta, altre risulta invece più difficile da riconoscere, ma è sempre presente. La ricerca del vantaggio secondario è fondamentale per il superamento di alcuni disturbi, se non di tutti e va sempre indagato con attenzione da parte del clinico, perché può costituire un serio ostacolo alla guarigione. Talvolta, in una coppia, la malattia svolge una funzione di rassicurazione per chi non ne è affetto, basti pensare al ruolo accudente/accudito, ai casi di agorafobia con un partner altrimenti molto geloso, all’ansia da prestazione sessuale, quando la partner ha uno specifico disturbo sessuale, per esempio di natura algica. In questi casi il vantaggio sta nella dinamica della coppia più che nel paziente stesso, che invece può trarre giovamento dall’essere accudito, scusato per alcune mancanze, al centro dell’attenzione e così via.

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Chiara Santi

Author: Chiara Santi

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