L’ennesima morte di Freud

SEGNALAZIONE

Buongiorno, mi chiamo Giorgia Aloisio e sono una psicologa-psicoterapeuta romana. Volevo segnalarvi un articolo che è stato pubblicato sul mensile ‘Class’ di giugno. Poichè la rivista proponeva una sezione dedicata alla psicoterapia, ho ritenuto interessante leggerlo: l’articolo contiene un’intervista a Vittorino Andreoli che io trovo alquanto svalutante nei confronti della psicoterapia e di quella di orientamento psicoanalitico in particolare. Lo psichiatra sostiene che “Freud è morto.. Se vogliamo, facciamolo pure resuscitare” e ritiene che l’unica sua importante scoperta sia ‘la relazione’ (come se fosse cosa di scarsa rilevanza): si mostra svalutante di fronte all’importanza che ha il sogno nella comprensione della psicodinamica del paziente ricordando una battuta di Musatti di fronte al sogno di sua moglie: ‘Dormi tranquilla, xè tutte monade”. L’articolo prosegue con un buffonesco test dall’improbabile titolo “Siete pronti a raccontare i fatti vostri all’analista?” (incappando nell’errore di identificare psicoterapeuta e psicanalista) ma non è finita qui. La prof.ssa Oliverio Ferraris, che si fregia del titolo di psicologa e psicoterapeuta, consiglia a chi ha problemi psicologici di “rivolgersi al medico di base, che può spiegare in modo chiaro e semplice le diverse scuole di pensiero”.. davvero una incredibile assurdità. I medici di base, spesso, prescrivono blandi psicofarmaci e, quando si trovano nei guai per queste terapie improvvisate, approdano all’idea di consigliare una visita psichiatrica o un consulto psicologico. Mi piacerebbe poi sentire cosa abbiano da dire in merito agli indirizzi terapeutici degli psicologi.. Dulcis in fundo: “A ciascuno la sua terapia”. Qualche giornalista di parte, con una certa faziosità, elenca una serie di istituti e società da contattare in caso di “crisi psicologica”: SIPS, Centro di terapia strategica, istituto italiano di sessuologia scientifica, Società italiana psicoterapeuti cognitivisti ed altro. Mi domando se non sarebbe stato invece il caso di citare gli ordini regionali.. al posto di queste realtà private. E mi chiedo quali siano gli scopi di articoli come questo che danno un’idea particolaristica e parziale di quello che sono la psicologia e la psicoterapia. Purtroppo la disinformazione continua a pullulare indisturbata creando confusione e dubbi in merito alla affidabilità del lavoro psicologico. Vi ringrazio per la cortese attenzione, un cordiale saluto e buon lavoro.

Giorgia Aloisio

PARERE DEL PROF. PAOLO MIGONE

Nel numero di giugno della rivista Class vi sono alcune pagine dedicate alla psicoterapia, con una copertina contenente una intervista a Vittorino Andreoli, l’immancabile test da compilare sotto l’ombrellone per – testualmente – «scoprire se si è pronti a raccontare i fatti propri all’analista», un articolo della giornalista Alessandra Gaeta in cui fa alcune domande a Anna Oliverio Ferraris e Paolo Crepet, e «un elenco di società serie alle quali rivolgersi con fiducia quando si è alla ricerca di una terapia  e di uno specialista di provata capacità». Infatti viene detto che è importante trovare un terapeuta preparato, perché «incappare in incompetenti o peggio è un pericolo reale», vi è «il rischio di imbattersi in persone che mancano della minima professionalità», e così via. Sembrerebbe quindi un articolo di divulgazione scientifica per innalzare il livello di conoscenze nei lettori in un campo così complesso come quello della cura della sofferenza psicologica.

Eppure anche questo articolo, come tanti altri che vediamo nei media, è un tipico esempio di superficialità, stereotipi culturali e frasi accattivanti che rivelano poco approfondimento da parte dei giornalisti. Da una parte viene detto che «non è facile orientarsi» e occorre rivolgersi alle «società serie», dall’altra si consiglia «di rivolgersi al proprio medico di base che può spiegare in modo chiaro e semplice le diverse scuole di pensiero e dare indicazioni su quale terapeuta è più adatto per un particolare disturbo»: non è facile capire come un medico di  base sappia districarsi nella complessità delle scuole di psicoterapia, tenendo conto che è difficile persino per uno studioso della materia, a meno che non voglia, appunto, banalizzare al massimo le questioni. Ma quali sono poi queste «società serie» elencate per aiutare i possibili pazienti disorientati di fronte al mare magnum delle scuole di psicoterapia? Vediamole brevemente.

La prima che viene elencata, in un paragrafo intitolato “A ciascuno la sua terapia”, è la Società Italiana di Psicologia scientifica (SIPs), che è la più antica associazione italiana di psicologia, con una storia gloriosa, però da tempo la sua influenza è molto diminuita, e precisamente da quando sono comparsi sulla scena gli ordini professionali degli psicologi (cioè dopo la Legge 56/1989) che hanno un po’ trasformato il panorama associativo e politico della psicologia italiana (sembra insomma che gli psicologi abbiano trovato altri punti di riferimento). Se si guarda il sito Internet della SIPs, si può vedere che l’ultimo congresso nazionale menzionato è del 2000, la copertina della rivista Psicologia Italiana che compare sul sito è del 1995 (con sotto indicata la quota di abbonamento ancora in lire). Certamente è possibile che il sito non sia aggiornato da molti anni (cosa però che sarebbe peculiare, considerando che viene raccomandata come una società seria e affidabile); io tenevo contatti con la SIPs, avevo pubblicato sulla rivista ecc., però da molto tempo non ne sento parlare, anche se è certamente possibile che sia disinformato (eppure frequento in una certa misura la realtà professionale italiana). Il problema però della SIPs come società a cui raccomandare coloro che sono alla ricerca di un terapeuta non è solo questo, è che la SIPs è una associazione “generalista”, cioè genericamente di psicologia, non di psicoterapia. Inoltre per iscriversi, come per la maggior parte delle associazioni di questo tipo, basta inviare i propri dati e la quota di iscrizione, oltre a brevi informazioni sul proprio curriculum (e suppongo che ogni nuovo socio venga accolto a braccia aperte poiché, come si ammette nel sito stesso, «oggi la SIPs conta un numero inferiore di soci rispetto al passato»); coloro quindi che fossero alla ricerca di uno psicoterapeuta tra i membri della SIPs troverebbero degli “psicologi”, non necessariamente degli “psicoterapeuti” che hanno completato i quattro anni di formazione post-laurea in psicoterapia previsti dalla legge 56/1989. Per carità, non voglio certo sostenere che far parte dello sconfinato elenco degli psicoterapeuti iscritti agli albo sia una garanzia in termini di capacità professionali, dico soltanto che, a livello di probabilità, è meglio pescare da questo “mucchio” che da quello, ancor più grande, costituito dall’insieme degli psicologi. Anzi, nella SIPs vi sono anche “studenti, specializzandi e tirocinanti” perché è prevista, con una quota ridotta, anche la loro iscrizione. Si rimane dunque perplessi di fronte alla indicazione di questa associazione, e per di più messa in cima all’elenco, per coloro che sono alla ricerca di uno psicoterapeuta serio e preparato. Sarebbe bastato che la giornalista avesse chiesto a qualche altro collega, o avesse dato una occhiata di pochi muniti al sito Internet della SIPs per capire meglio la situazione.

Come secondo viene citato il Centro di Terapia Strategica di Arezzo guidato da Giorgio Nardone (che, con un refuso molto divertente, in un passaggio dell’articolo compare come “Giorgio Tardone”). Questo centro è uno di quelli la cui propaganda è tra le più appetibili per un pubblico poco informato e assetato di illusioni, infatti viene ribadito l’adagio secondo cui la tecnica praticata in questo centro produrrebbe cambiamenti radicali in “circa sette sedute”. Queste illusioni vengono fomentate da articoli disinformativi come questo, dove sembra che l’obiettivo non sia quello di dare informazioni corrette al pubblico, ma di stimolare la sua curiosità allo scopo di aumentare le vendite anche a costo di aumentare parallelamente la sua ignoranza. La cosa curiosa infatti è che il Centro di Terapia Strategica di Arezzo si distingue per essere quasi completamente estraneo al mondo della ricerca empirica sull’efficacia della psicoterapia, per cui queste sono solamente asserzioni non dimostrate. Tempo fa ebbi occasione di confrontarmi con un esponente di rilievo di questo centro (questo confronto è pubblicato a pp. 541-546 del n. 4/2005 di Psicoterapia e Scienze Umane [Migone, 2005d]), e il mio imbarazzo fu tale che feci enormi sforzi per nasconderlo e per non offendere il mio interlocutore, anche perché so bene che questi colleghi sono in perfetta buona fede (e questa è una cosa per certi versi inquietante). La mia netta impressione fu che non vi era alcuna consapevolezza di cosa significasse “ricerca scientifica”, dato che veniva identificata con “ricerca clinica” (cosa completamente diversa; vedi Migone, 1996, 2001, 2006, 2008, 2010a cap. 11; Dazzi, Lingiardi & Colli, 2006). Del resto non c’è da meravigliarsi, perché il nostro è un paese in cui solo pochi anni fa scoppiò il “caso Di Bella”, che ci espose al ridico di fronte al mondo intero e per il quale vi furono addirittura ripercussioni politiche, come se l’Italia fosse immersa in uno stato di sottocultura tipica di un paese del terzo mondo. Intendo dire che per affermare che una terapia funzioni non basta asserirlo da parte di terapeuti e pazienti, non basta il suo successo sociale, la sua popolarità o la propaganda fatta dai mass-media, altrimenti, per essere coerenti, dovremmo considerare come terapie efficaci anche i viaggi a Lourdes, che continuano a essere fatti da moltitudini di persone con grande soddisfazione (certamente il numero di “esperienze cliniche” dei pellegrini di Lourdes è maggiore di quello delle dei pazienti che  si recano al centro di Arezzo, per cui a rigore dovremmo concludere che è più efficace Lourdes). Occorrono ricerche controllate indipendenti, le quali ad esempio non vengono assolutamente fatte per la terapia strategica della scuola di Arezzo. In quel dibattito, a cui ho accennato prima, chiesi invano i riferimenti delle pubblicazioni delle loro ricerche su riviste internazionali qualificate (cioè dotate di referees anonimi che valutano i lavori in doppio cieco ecc.), e mi fu risposto che vi erano delle “ricerche” negli Atti di un recente convegno, pubblicati su Internet dalla loro scuola! Come ho detto, quello che trovavo sconcertante era l’assoluta buona fede di questi colleghi, e la totale non consapevolezza di essere fuori da un discorso scientifico, al punto di confondere, come ho detto prima, ricerca “clinica” con ricerca “sperimentale”. Io ho avuto modo di vedere vari pazienti “reduci” da terapie fatte da colleghi della scuola di Arezzo, e i loro racconti mi hanno sempre fatto una notevole impressione, anche se mi rendo conto che questa è solo una esperienza personale che come tale conta ben poco perché potrebbe essere controbilanciata da altrettante esperienze uguali e contrarie. Resta il fatto che, sulla base anche dei risultati di numerose ricerche controllate a livello internazionale, ritengo che affermare che si possono curare disturbi psicologici invalidanti in sette sedute può significare solamente che non si ha alcuna idea di cosa sia la malattia mentale. Non potendo in questa sede approfondire questa mia affermazione, rimando ad altri lavori, ad esempio all’articolo di Westen, Morrison Novotny & Thompson-Brenner (2004), tanto citato nella letteratura del settore e  tradotto in italiano nel n. 1/2005 di Psicoterapia e Scienze Umane (vedi specialmente pp. 12 sg.).

Un’altra scuola citata è quella di terapia cognitiva, e qui occorre dire che i colleghi cognitivisti hanno invece una lunga tradizione di ricerca scientifica, cultura e serietà nella formazione. Se però la giornalista autrice di questo articolo si fosse maggiormente informata avrebbe saputo che vi è di fatto una certa crisi all’interno del movimento di terapia cognitiva riguardo alla sua efficacia terapeutica che è stata vantata per molti anni. Non potendo qui dilungarmi, e per di più in una materia che è abbastanza specialistica, mi limito a citare un’affermazione di Alan Kazdin (che è una figura prestigiosa della psicologia americana, e certo senza simpatie per la psicoanalisi, si pensi che tra le altre cose è stato direttore della rivista Behavior Therapy): «Forse oggi possiamo affermare con maggiore certezza che, contrariamente a quanto era stato proposto originariamente, qualunque cosa sia alla base dei cambiamenti della terapia cognitiva, non sembra siano le cognizioni» (Kazdin, 2007, p. 8; vedi anche Shedler, 2010, p. 20). In altre parole, sembrerebbe dimostrato che la terapia cognitiva ha fallito il suo tentativo di dimostrarsi efficace, dato che è emerso che i fattori terapeutici sono più correlati a fattori emotivi ed esperienziali (e psicodinamici) che a fattori cognitivi in senso stretto.

Un’altra scuola menzionata è quella di terapia psicodinamica breve intensiva di Davanloo, che ha una sede a Firenze. Certamente queste terapie sono efficaci, e vi è una abbondante letteratura al riguardo (tra i tanti lavori, ricordo le citatissime review di Abbass et al. [2006] e di Leichsenring, Rabung & Leibing [2004], che però non riguardano specificamente la tecnica di Davanloo ma tutte le terapie dinamiche a breve termine). Quella di Davanloo è solo una delle tante tecniche di terapia breve, e per la verità, contrariamente a quanto propagandato, nella mia opinione non è adatta a un vasto range diagnostico ma solo a pazienti selezionati (tanto è vero che nel movimento di psicoterapia breve esistono approcci che predicano tecniche opposte, eppure sono tutte sotto lo stesso “ombrello”). Vi sono poi varie contraddizioni implicate nel concetto di “terapia breve” (ad esempio la confusione, non da poco, tra “terapia breve” e “breve terapia”, tra terapeuti “brevi” e “bravi”, incoerenze teoriche e cliniche, ecc.); di nuovo, non potendo in questa sede approfondire questa problematica, peraltro molto interessante, mi limito a rimandare a un mio lavoro in cui affronto questo problema in dettaglio (Migone, 2005b).

Vengono citati anche l’Istituto Italiano di Sessuologia Scientifica di Roma (se si vuole parlare di scuole di sessuologia, vi sono allora molte altre scuole, e non si capisce perché debba essere citata solo questa), e l’Istituto di Analisi dei Codici Affettivi del Minotauro di Milano, il che è abbastanza curioso perché rappresenta un gruppo molto piccolo, poco rilevante nel panorama nazionale, ed elencato in questo modo sembra quasi che sia all’altezza degli altri gruppi. Vengono ignorate tante altre scuole, le più grandi e con una lunga tradizione storica, ad esempio quelle psicoanalitiche (nei loro vari orientamenti), e poi quelle umanistico-esperienziali (la “terza forza” del movimento psicoterapeutico, ricchissima di esperienze e che tra l’altro in alcuni casi ha giocato un ruolo pionieristico nel campo della ricerca empirica in psicoterapia, si pensi solo a un Rogers), e così via.

L’impressione insomma che si ha leggendo questo articolo è quella di una vera e propria disinformazione, e per di più in un contesto in cui si dice che si cerca di dare informazione e orientare coloro che fanno fatica a trovare chiarezza in questo campo. Colpisce poi il tono generale dell’articolo, e anche la intervista a Vitttorino Andreoli il quale, assieme ad affermazioni condivisibili e di buon senso, dà per scontato che ormai le terapie derivate dalla psicoanalisi siano superate («Freud è morto. Se vogliamo, facciamolo pure resuscitare. Fa parte della storia…», dice Vittorino Andreoli). Come diceva ironicamente un collega americano, «forse la morte di nessun altro uomo al mondo è stata annunciata così tante volte e per così tanti anni quanto quella di Sigmund Freud» (Westen, 1999, p. 5). Questo jeu de massacre ai danni di Freud va tanto di moda, i giornalisti alla ricerca di effetti speciali che solletichino i lettori amano farlo, ma regolarmente  si ignorano i dati di ricerca. Volendosi seriamente infatti porre la domanda di quale tipo di psicoterapia è migliore delle altre, occorre guardare ai più recenti review meta-analitiche, non basta intervistare certi psichiatri alla moda o che parlano nei talk-show televisivi (per il significato di “meta-analisi”, vedi Shedler, 2010, p. 13).

È da segnalare a questo proposito che recenti ricerche sembrano modificare un dato che appariva assodato, quello della maggiore efficacia delle terapie cognitivo-comportamentali. Questo dato sembra un artefatto dovuto sia al maggior numero di studi compiuti sulle terapie cognitivo-comportamentali, sia al fatto che si prestavano meglio al vaglio di un certo tipo di ricerca empirica. Ma negli anni recenti, con l’entrata in forze del movimento psicoanalitico nell’arena della ricerca, sono emersi sempre più dati che sembrano capovolgere le sorti.

Nei disturbi di personalità borderline, che sono disturbi psicologici diffusi e tra i più difficili da trattare, Bateman & Fonagy (2008) ad esempio hanno dimostrato la superiorità di una tecnica psicoanalitica rispetto a una tecnica cognitivo-comportamentale (la Dialectical-Behavioral Treatment [DBT] di Marsha Linehan, 1993) che precedentemente vantava i migliori risultati; nello studio di Bateman & Fonagy il follow-up era di 8 anni, un periodo di tempo che non si è quasi mai visto nelle ricerche sull’efficacia della psicoterapia. Negli attacchi di panico, Barbara Milrod et al. (2007) hanno dimostrato che una terapia psicodinamica è superiore a un training di rilassamento, una tecnica cognitivo-comportamentale che rappresenta un controllo credibile perché già dimostrata efficace; non va dimenticato che il trattamento del panico era sempre stata una roccaforte delle terapie comportamentali (questi due studi sono usciti niente meno che sul prestigioso American Journal of Psychiatry, organo della Società Americana di Psichiatria).

Inoltre Shedler (2010), in una importante meta-analisi che ho fatto uscire sul n. 1/2010 di Psicoterapia e Scienze Umane in contemporanea con gli Stati Uniti (dove è apparsa sulla rivista American Psychologist, organo dell’American Psychological Association), dimostra che l’effect size (cioè la “dimensione del risultato”) delle terapie psicodinamiche varia da .69 a 1.46, mentre quella delle terapie cognitivo-comportamentali varia da .58 a 1.0. (i  ricercatori sanno che questa differenza è molto consistente). Non solo, ma dopo una terapia psicodinamica vi sarebbero anche meno ricadute e il miglioramento aumenterebbe nel tempo, come se si mettessero in moto processi psicologici che evolvono autonomamente; inoltre, cosa estremamente interessante, in diversi studi è stato dimostrato che quando le terapie non psicodinamiche sono efficaci ciò avviene in parte perché i terapeuti non psicodinamici utilizzano tecniche che da sempre caratterizzano l’approccio psicodinamico. Pare quindi che crolli un altro mito.

Questi dati sono noti da alcuni anni, e negli Stati Uniti anche le compagnie assicuratrici ne stanno prendendo atto. Queste informazioni sono già passate nei mass media anche in Italia, ad esempio ne ha parlato l’Espresso (Cicerone, 2009; Codignola, 2010) e anche Le Scienze (Levy & Ablon, 2010), una rivista divulgativa, quest’ultima, che si distingue per l’alto livello qualitativo.

A proposito, se l’effect size delle terapie psicodinamiche varia da .69 a 1.46, può servirci conoscere, come elemento di paragone, l’effect size dei farmaci antidepressivi nella depressione: è imbarazzante dirlo, ma è estremamente più basso, varia da .17 a .31 (Kirsch, 2009; Shedler, 2010, p. 19; Pigott et al., 2010; Migone, 2005c, 2010b). Un altro fatto curioso, questo, se si pensa che da anni i mass-media ci bombardano con articoli sull’importanza dei farmaci per la depressione, sui miracoli della “pillola della felicità” e cose di questo genere.

Bibliografia

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44 Comments

  1. Insomma, a sentire Migone la psicoanalisi è la regina delle scienze psicologiche. Mi viene però da porre alcuni interrogativi:
    1)Le ricerche sui farmaci le fanno le case farmaceutiche, le ricerche sulla efficacia della psicoanalisi le fanno gli psicoanalisti e le ricerche sugli interventi CBT i cognitivo-comportamentali. Non è possibile che queste ricerche siano viziate alla base da faziosità?
    2)La psicoanalisi è una disciplina elaborata su base speculativa. Questo è innegabile. Ha prodotto sicuramente anche qualche buona intuizione, ma rimane una disciplina disomogenea teoricamente ed insostenibile sul piano teorico-scientifico. E’ sufficiente il “maquillage” delle tentate ricerche sulla efficacia per farne una scienza?
    3)Migone sostiene che il protocollo Fonagy è superiore, agli effetti della ricerca, al protocollo Linehan. Allora mi chiedo: se ha letto con attenzione i contenuti proposti dai due studiosi, non le sembra che siano abbondantemente sovrapponibili? Ma soprattutto, che cosa conserva ancora Fonagy del suo background psicoanalitico? Io direi praticamente niente, potrebbe essere tranquillamente scambiato per un terapeuta cognitivo-comportamentale.
    4)Non le sembra, Professore, che la confusione rilevabile negli articoli scritti sulla psicologia clinica derivi essenzialmente dalla confusione che persiste nella stessa psicologia clinica? E soprattutto, non le sembra che questa confusione sia il frutto di un secolo di quella psicologia di scuola che lei stesso difende con lo stesso ardore di Nardone e di chiunque altro possa definirsi psicologo di scuola (ovvero psicoterapeuta)?
    5) Non le sembra, che la cultura della psicologia clinica si configuri come una specie di perenne tiro alla fune tra scuole nel voler portare la verità sulla mente dalla parte propria?
    6) Non le sembra, Professore, che in questa condizione di parcellizzazione epistemologica e teorico-tecnica, la psicologia clinica si configuri come quella terra di nessuno nella quale chiunque può accampare la sua tenda?..Anche Nardone, Benemeglio, Bandler, Grinder, e tutti coloro che credono, a modo loro, di essere nel giusto e di aver trovato la formula giusta per curare la mente. E non mi venga a parlare di ricerche sulla validità, perchè nella condizione di scuola in cui si trova la psicologia clinica equivalgono al giornale di regime dei pasi totalitari: lA VERITA’ E’ SEMPRE A SENSO UNICO!
    7) Ed infine: non si è stancato, Professore, di palleggiarsi in testa il suo credo psicotapeutico di scuola? Guardi, il problema non è che lei è uno psicoanalista, quanto che proprio trovo terribilmente noioso ripetere le proprie perosnali lezioncine, allo stesso modo, negli stessi luoghi, ovviamente con gli stessi contenuti, attraverso il tempo. Se I fisici non si sono fermati ad Einstein, mi spiega perchè gli psicologi si dovrebbero fermare a Freud, Jung, Beck, Nardone, Watzlawich, o chi per loro?

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    • @fulvio vignoli,
      Ringrazio il collega Fulvio Vignoli per le stimolanti domande. Se sei d’accordo, potremmo darci del tu (a proposito, non sono un Professore, sono un dottore, ho avuto solo piccoli contratti universitari qua e là, e mi sento a disagio quando mi danno del Professore). Rispondo alle tue domande una per una, per quanto posso.

      1. Hai pienamente ragione quando dici che “le ricerche sui farmaci le fanno le case farmaceutiche, le ricerche sulla efficacia della psicoanalisi le fanno gli psicoanalisti e le ricerche sugli interventi CBT i cognitivo-comportamentali. Non è possibile che queste ricerche siano viziate alla base da faziosità?”. Questo bias è ben noto ai ricercatori, si chiama “researcher’s allegiance”, ed è molto consistente. Sono state fatte varie ricerche per misurarlo. Luborsky et al. [The Dodo bird verdict is alive and well – mostly. Clinical Psychology: Science and Practice, 2002, 9, 1: 2-12] ad esempio hanno trovato che quasi il 70% della variabilità degli effect size di confronti tra psicoterapie è dovuto al bias della researcher allegiance, nel senso che le ricerche su tecniche terapeutiche condotte da chi è fautore di quelle tecniche hanno molta più probabilità di produrre risultati positivi. In teoria allora le ricerche che dimostrano dati contrari ai desideri dei ricercatori potrebbero essere le più interessanti, però forse è sbagliato farne una legge assoluta. L’unica cosa da fare mi sembra quella di continuare a perfezionare le metodologie di ricerca, individuare i vari bias (che sono molti, questo della researcher’s allegiance è solo uno dei tanti), e così via.

      2. La tua seconda domanda, cioè se la psicoterapia sia una scienza o no, è un po’ grossa, non liquidabile sbrigativamente anche perché rimanda ad altre domande (ad esempio a cosa si intenda per scienza, vi sono scienze dure e molli [hard e soft sciences], vi è chi dice che questa dicotomia sia superata ecc.; mi vedo costretto a rimandare ad altri lavori, ad es. a un mio contributo sul n. 1/2009 di Psicoterapia e Scienze Umane in cui commentavo l’articolo di un fisico proprio sulla questione del rapporto tra psicoterapia e scienza, se ti interessa dimmelo che te lo mando). Certamente la psicologia sperimentale o di laboratorio si può dire che sia una scienza nel senso tradizionale, mentre certe applicazioni della psicologia (come la psicoterapia) presentano problemi abbastanza complicati (ad esempio i termini di riproducibilità) perché entrano in gioco variabili più complesse quali la relazione interpersonale, e anche qui è stato detto e scritto molto, non posso riassumere qui questo dibattito (se ti interessa posso darti dei riferimenti). Mi sembra però che il rischio dietro a certe posizioni (come la tua, se l’ho capita bene) è quello di abbandonare del tutto ogni possibilità di verifica, di controllo ecc., cioè di assumere posizioni estremizzate.

      3. Fonagy e la Linehan sono davvero diversi? Qui sfondi una porta aperta. Mi sono speso molto a sostenere proprio quello che tu qui ipotizzi, parecchi sono i lavori a cui potrei fare riferimento dove entro nel dettaglio di questa problematica (che tuttavia, anche qui, non va semplificata troppo). Ho avuto la fortuna di conoscere da vicino questi ricercatori, e potrei parlare a lungo del problema che tu sollevi (che non riguarda solo Fonagy e la Linehan, ma anche Kerbnerg, a mio parere). Purtroppo non posso qui dilungarmi e sono costretto ancora una volta a rimandare ad altri lavori (ad esempio al cap. 8 della nuova edizione del mio libro “Terapia psicoanalitica”, Milano: FrancoAngeli, 2010).

      4. Anche qui sono d’accordo con te. La cosiddetta “psicologia di scuola” (cioè la fedeltà difensiva e acritica ai padri fondatori, la cecità o ignoranza delle altre scuole, ecc., tutti comportamenti originati dalla propria insicurezza) è responsabile di molti dei fenomeni deteriori che tu giustamente lamenti.

      5. e 6. Questi punti mi sembrano sovrapponibili al punto precedente. Però il problema è di sapere cosa fare per migliorare la situazione senza cadere in posizioni semplicistiche, estremizzate o addirittura, come si diceva una volta, “qualunquistiche”.

      7. Se ho ben capito, mi accusi di essere anch’io “di scuola”. Certamente potrei esserlo, ma se lo sono non posso saperlo. Sono gli altri che lo possono vedere più di me, perché io ovviamente sono biased. C’è chi dice che non lo sono affatto (mi interesso di varie scuole psicoterapeutiche, sono stato critico verso tutte, ecc.), e altri, come ad esempio nel tuo caso, hanno la impressione che anch’io sia “di scuola”. Questo mi fa dispiacere perché, almeno nelle mie intenzioni consce, ho sempre fatto il possibile per non esserlo. E se qualcuno ha l’impressione che io sia di scuola, se me lo dice mi fa un favore perché mi fa riflettere.

      Ti ringrazio delle osservazioni che hai fatto, e di avermi dato la opportunità di risponderti.

      Paolo Migone
      Condirettore di Psicoterapia e Scienze Umane
      http://www.psicoterapiaescienzeumane.it
      Via Palestro, 14
      43123 Parma
      Tel./Fax 0521-960595
      E-Mail

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  2. Caro collega,
    la tua garbatezza e lucidità nel rispondere ai miei interrogativi, mi fa quantomeno sorgere un ragionevole dubbio sulla tua (da me) presunta faziosità. Comunque, venendo al merito dei contenuti da te esposti, vorrei considerare quanto segue:
    1) quanto alla possibilità di fare scienza in psicologia clinica, personalmente non ho nessun dubbio. A parte il passaggio, nelle ricerche in psicoterapia, dal modello RCT al modello single case design (vedi Westen), che segna una svolta secondo me importante nel ritagliare un modello appropriato nelle ricerche di efficacia in psicoterapia, vi è da rilevare come il problema di rapportarsi a situazioni “uniche e irripetibili” è proprio di tutte le scienze della vita, anche della medicina. Ad esempio, un medico aggiusta forse scientificamente il dosaggio di un farmaco a quel tale paziente? Il medico sa, in realtà, come il farmaco possa finemente interagire con la fisiologia di quel dato paziente? La risposta è: no! Facendo psicologia, a mio avviso, non dobbiamo incappare nell’errore di essere “più realisti del Rè”, seguendo un modello di scienza assolutamente deterministico che non seguono più neanche le scienze naturali storiche (vedi la fisica).
    2) Quanto poi al dibattito epistemologico sulla psicoanalisi, dirò che i contenuti di massima li conosco: Khun, Popper, Habermas, Grunbaum….ed ho anche letto il tuo contributo su internet quanto alla riflessione di Grunbaum. Devo dire che la riflessione di questo fisico epistemologo non mi ha mai convinto per un motivo: quando lui intende contestare Popper, dicendo che certi contenuti della psicoanalisi freudiana sono verificabili, va a riferirsi a contenuti, come il nesso paranoia-omosessualità, che sono delle derivazioni della teoria base freudiana, rimanendo invece la teoria freudiana dello sviluppo psicosessuale, base di ogni altra deduzione, del tutto non verificabile. E per definizione, dovremmo dire, visto che i processi evolutivi, teorizzati da Freud, avverrebbero secondo una modalità eminentemente incoscia, e quindi al di là di qualsiasi aggancio a dati fenomenici derivanti dall’osservazione del comportamento.Ergo, la psicoanalisi è stata sviluppata secondo una base irriducibilmente speculativa. Solo attraverso l’atto interpretativo la psicoanalisi disvela l’inconscio: ed ecco che la tesi di Habermas non sembra essere del tutto peregrina.
    Comunque, concordo con te sul fatto che certi argomenti è complicato dibatterli per email. Intanto ti rimando al mio sito http://WWW.stanmod.com per poter visionare i contenuti di una mia pubblicazione sulla psicologia clinica. In ogni caso, se tutti gli psiconalisti fossero aperti al dialogo come te, allora sarebbe molto più facile dialogare sui temi della psicologia clinica…gli psicoanalisti e non solo.. . Un saluto cordiale

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  3. errata corrige: rileggendo la risposta alle tue riflessioni, mi sono accorto di un brutto refuso. Quando parlo di Grunbaum e Popper, in luogo di “verificare” leggi “falsificare”..obs..

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  4. Interessante dibattito – fra colleghi – che mi sembra coinvolgere la questione metodologica della psicologia. Anni fa si discuteva se e in che modo si potesse applicare alla psicologia il metodo sperimentale della fisica – ritenuto invidiabile. Cosa assurda per alcuni motivi che qui cerco di riassumere. Il metodo sperimentale fisico fa uso in primo luogo dell’osservazione empirica del fenomeno raccogliendo dati da un gran numero di casi particolari. Si sforza poi d’individuare le grandezze fondamentali presenti che lo caratterizzno, e le pone in relazione matematica aderente ai dati (Galilei e Bacone)inducendo una legge genarale valida per tutti i casi particolari che diventano così descrivibili e prevedibili in condizioni date.
    Nei fenomeni psichici ci è permessa solo la prima parte del metodo, vale a dire la raccolta dei dati grazie all’osservazione dei fenomeni. Il metodo fisico non è interamente applicabile in psicologia. Ci si deve accontentare del metodo empirico di raccolta dei dati e non è possibile individuare grandezze caratteristiche. Ai dati, in seguito bisogna dare un ordine tramite una o più interpretazioni ritenendo valida quella più rispondente ai criteri di economia secondo il “rasoio di Occam”. Inpsicologia non sono state finora individuate purtroppo delle grandezze caratteristiche fondamentali cui fare riferimento a scopo matematico. Il vantaggio in fisica è che queste sono quelle dalle quali si possono dedurre moltissime altre grandezze derivate (come p.e. la “velocità”, che deriva dalle fondamentali “tempo” e “spazio” tramite un’operazione matematica di divisione v=s/t, o come il volume del cubo V=S esp3, ricavato con un’operazione matematica di potenza con esponente 3). Il successo della fisica non è dovuto tanto alla misurazione quanto al grandissimo numero di grandezze derivate, deducibili teoricamente – e compatibili con i dati empirici – grazie ale sette operazioni (addizione, sottrazione, prodotto, divisione, potenza, radice, logaritmo) ed alle loro combinazioni (in numero teoricamente infinito: p. e. l’accelerazione a=s/t esp2, in cui il tempo compare a denominatore al quadrato).
    Anche se sono stati proposti in psicologia vari metodi di “misura” che sarebbe più giusto chiamare “valutazioni” generiche e spesso di ordine statistico, bisogna tenere presente che il metodo fisico matematico ha il pregio di ricavare le grandezze derivate in grandissimo numero.
    Inoltre i fenomeni psichici non sono direttamente osservabili fino ad oggi – se non nel comportamento ed in alcuni fenomeni non psichici ma fisiologici che hanno comunque bisogno dei correlati psicologici per acquistare significato (P. e. nel nervo ottico e in quello acustico scorrono segnali di uguale natura elettrica; di conseguenza per sapere che uno è visivo e l’altro uditivo, abbiamo bisogno della testimonianza del soggetto) e quindi il dato fisiologico che sembrava finalmente un dato psicologico “osservabile”, in realtà non è tale. E’ osservabile il suo correlato fisiologico, non il dato psicologico di per sé.
    Per giunta la stessa fisica e persino la geometria conoscono ambiti di non misurabilità e nessuno grida allo scandalo: si tratta della forma – che tanta importanza ha p. e. nella fisica delle particelle, per cui i “fattori di forma” devono essere valutati empiricamente e non sono “misurabili”. In sostanza la forma non è misurabile e questo semplice fatto rende le cose estremamente complicate quando un fenomeno dipende dalla forma (come per esempio in quelli di movimento di un fluido in prossimità di un ostacolo di data “forma”).
    Per la costruzione della scienza psicologica occorre un metodo nuovo: propongo quello della “psiconica”. (Rimando ad un mio articolo in http://www.psiconica.eu), vale a dire la simulazione di fenomeni psichici con una macchina in grado di renderli riproducibili (una volta correttamente realizzata per riprodurli), reciprocamente influenzanti e influenzabili nell’interazione con l’ambiente circostante ed inoltre accelerabili, sicché una malattia mentale che si manifesterebbe in venti anni di sviluppo potrebbe essere indotta e quindi studiata in macchina magari in molto meno, per es. pochi giorni.
    Finora non ho trovato in Italia che ostacoli per questa ricerca, non parliamo poi dei fondi.
    Oggi occorre non solo un metodo nuovo, e questo può ben essere quello psiconico che anche qui ho proposto, ma anche una psicologia teorica unitaria, trasversale, capace di rendere conto del maggior numero di dati osservabili.
    A questo scopo propongo la psicopoiesi – psicologia della creatività (alcuni articoli si possono trovare nel mio sito http://www.psicopoiesi.it).
    Cordiali saluti.
    Salvatore Incarbone
    fisico, psicologo e artista.

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  5. Credo che le osservazioni metodologiche di Salvatore Incarbone meritino qualche breve riflessione. Intanto diremo che il metodo sperimentale nasce con la fisica, ed è stato quindi ritagliato sui fenomeni fisici. L’unica altra disciplina alla quale si applichi con una certa purezza il metodo sperimentale è la “cugina” chimica. Quindi, tutte le altre discipline che aspirano alla scientificità, vedi le scienze che studiano la vita, devono necessariamente accontentarsi solo di buone approsimazioni alla soddisfazione del metodo sperimentale. Tuttavia, ritengo qui importante rilevare che fare scienza nella contemporaneità significa anche ragionare in base alla rivoluzione portata dalla “teoria generale dei sisitemi” (Von Bertallanfy), dallo studio dei sistemi non-lineari, e qundi dal superamento del “meccanicismo deterministico” della pura scienza galileiana, meccanicismo sulla base del quale è stato costruito il metodo sperimentale galileiano, quello al quale fa riferimento il collega Incarbone. Metodo che, tra l’altro, trova essenzialmente applicazione in fisica classica. Sicuramente, sarà anche superfluo ricordare al collega Incarbone, che è anche fisico, che la stessa cosa non vale per la fisica quantistica: con questa branca di studio che si occupa dell’infinitamente piccolo, anche la fisica, parafrasando Einstein, si mette “a giocare a dadi”, accettando l’indeterminazione connessa all’effetto probabilistico.
    In tutto questo, semplicemente la psicologia può fare scienza, sul suo oggetto di studio, applicandosi con gli strumenti che può, così come qualsiasi altra scienza dei fenomeni della vita.
    Tra l’altro, vorrei ancora aggiungere che anche la fisica si è dovuta piegare alla logica dell'”operazionalismo debole”, ovvero ha dovuto accettare di lavorare sui “concetti”, e non esclusivamente sul dato osservativo nudo e crudo: ad esempio, quello di elettrone è un “concetto” che sintetizza tutta una serie di osservazioni e rilievi empirico-sperimentali..nessuno ha mai visto e/o fotografato un elettrone. Parimenti, la psicologia lavora spesso su concetti, come quello di “memoria”, ai quali non corrispondono “oggetti” direttamente osservabili, ma che sono sostenuti comunque sulla base di tutta una serie di rilievi empirico-sperimentali. Ed è per questo che, dialogando col collega Migone, ho ritenuto di definire la base teorica della psicoanalisi come “irriducibilmente speculativa”, proprio perché per definizione non può essere collegata a nessun rilievo osservativo. Voglio dire, che non vi sono “fenomeni osservabili”, a livello della fenomenologia dell’età evoluiva, che possano trovare nella spiegazione psico-evolutiva psiconalitica una spiegazione che soddisfi quel “principo di parsimonia” (vedi rasoio di Okkam)che è di fondamentale importanza nel procedere scientifico. D’altra parte, è la psicoanalisi stessa a ritenere questi processi evolutivi “eminentemente inconsci” e quindi disvelabili con la “interpretazione”, non potendo invece trovare riscontro nella “osservazione”. Non a caso, lo psiconalista Hartmann ha definito la psicoanalisi come una disciplina squisitamente “esplicativa”, una disciplina che non si collega a quella fase descrittiva che è invece parte integrante del procedere scientifico. In altre parole, la base teorica sulla quale si reggono le interpretazioni psicoanalitiche è stata interamente postulata da freud, così come da qualsiasi altro psicoanalista dopo di lui…se si eccettua Jhon Bowlby, che non a caso ha finito per dare il là ad un filone di studi che ha messo in collegamento la psiconalisi con la psicologia scientifica. Bowlby, sebbene la sua formazione di psicoanalista sia sempre riconoscibile, ha rappresentato, a mio avviso, quella testa di ponte che ha rotto l’isolamento culturale della psicoanalisi, dandole una concreta chance di rimanere viva, sebbene non nella sua pura forma, anche nella contemporaneità. Altri psiconalisti lo avrebbero seguito in questa impresa: vedi, ad esempio, Westen, Fonagy, Lichtenberg, Tronick e diversi altri ancora. Peccato che molti altri si sentano ancora legati alla ortodossia della disciplina originaria… .
    Quanto poi al fatto di dover tendere alla creazione di un modello trasversale unificato della psicologia clinica, collega Incarbone, con me sfonda una porta aperta. A questo proposito, la rimando al mio sito: http://WWW.STANMOD.COM
    Concluderò poi dicendo, in relazione alla “macchina per la simulazione della vita psicologica” della quale parla, che la sua idea mi sembra tanto affascinante quanto “eccessivamente complicata” da realizzare…comunque, seguirò le coordinate di lettura che mi ha consigliato. Un cordiale saluto.

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  6. Da clinico qualunque (ed incidentalmente moderatore del forum) m’inserisco in questo interessantissimo dibattito esprimendo la mia modesta opinione. Sul valore della validità empirica il nostro portale ha già ospitato oltre al dibattito sulla psicologia clinica (http://www.osservatoriopsicologia.com/2010/02/22/dallarticolo-di-baker-mcfall-shohan-il-commento-dei-nostri-esperti/), rimasto largamente (e fortunatamente) insaturo, anche il prezioso contributo del collega Zanon (http://www.osservatoriopsicologia.com/2009/02/20/psicologia-e-clinica-fra-scienza-e-non-scienza/) che in sostanza condivido.
    Esiste a mio parere un equivoco di fondo dal quale discendono probabilmente tutte le successive distinzioni e che provo ad esprimere con una semplice domanda: la Psicologia è esclusivamente una “scienza della natura” (o della vita come dice Vignoli)??? O no???
    Se la risposta è si, comprendo il disagio più volte espresso qui dagli “scienziati” della lista di fronte alla irresolutezza di alcune discipline critico-ermeneutiche (come la psicoanalisi) o sociali (come molte branche della psicologia) o antropologico-culturali. Il fenomeno psichico è un fenomeno della vita non differenziabile dalla “vita umana”. Natura e “natura umana” coincidono di fatto.
    Se la risposta è no, come invece io credo, e la “natura umana” richiede un dominio differente, forse allora occorrerebbe fare tutti uno sforzo di ri-concettualizzazione delle scienze psicologiche (il plurale diventa obbligato) nella direzione di una maggiore articolazione. Con tutti i dovuti distinguo e differenze di oggetto, metodi empirici, osservativi, etc, etc. La Psicologia diventa allora un condominio abitato da molti stranieri (tra di loro, s’intende), ma questo non è per me necessariamente un limite.

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  7. Provando a rispondere a D’Elia, dirò che la “vita è natura”, quindi pensare alla necessità di una scienza a parte per la conoscenza della vita mentale può discendere, a mio avviso, da due diversi impliciti:
    1) il tradizionale implicito metafisico-religioso, che ci fa pensare a noi stessi come a creature che discendono dal divino, contrariamente alle altre creature e all’ambiente stesso che sarebbero meramente accessori rispetto alla nostra esistenza
    2)la mistificazione umanistico-esistenziale, che trova rappresentazione culturale nel costruttivismo radicale, per la quale ognuno di noi è una monade che funziona mentalmente secondo regole proprie, che non hanno niente a che fare con l’altrui umanità

    Io credo, invece, che la mente sia una espressione della natura, e che nella natura, come dicono i biologi, ci sia unità nella diversità. Quindi, l’individualità di ognuno di noi, a mio avviso, non ci rende incomparabili ai nostri simili. Diversi sì, ma non incomparabili. Da qui, la possibilità di fare scienza sulla mente in senso “nauralistico”. D’altra parte, anche geneticamente ognuno di noi è unico e irripetibile, ma ciò non impedisce di fare scienza sulla genetica.. .

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  8. Si, tutto chiaro, ma la mia proposta di articolazione non era tra vita e natura (la vita è parte della natura, chiaro), bensì tra natura e natura umana.
    La differenza non è necessario porla in termini religiosi, né umanistici, ma in termini antropologici, e se vogliamo filosofici.
    Possiamo concordare che la natura umana sia sostanzialmente differente dal resto della vita biologica per una serie di fattori quantitativi/qualitativi, quasi tutti di natura mentale, tra cui il linguaggio, il pensiero astratto, la creatività, l’organizzazione sociale complessa, la sessualità, etc, etc, etc, etc, in poche parole la cultura??
    Ebbene, questo non giustifica allora l’uso di strumenti e metodi diversi (nel senso di più articolati) da quelli “biologici”? Insomma la natura umana necessiterebbe di uno “statuto empirico”, o esplorativo, leggermente diverso da quello di un rattus norvegicus. O no!? Che ne pensate?

    Questo non significa poi che gli strumenti e i metodi “biologici” non siano utili ed efficaci, ma che non bastano… sono riduttivi. In my opinion…

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  9. Sono d’accordo sul fatto che l’uomo sia interfacciato con un “ambiente culturale”, che sicuramente non possiedono le altre forme di vita. Tuttavia, riprendendo un classico esempio della cultura sistemica, in teoria se volessi studiare in maniera esaustiva una pianta in un bosco dovrei anche studiare tutti i rapporti che intercorrono tra le radici di tutte le piante; ed ancora, studiare come il bosco nel suo insieme interagisca con il terreno e con le altre forme di vita…ma, realisticamente, se sono chiamato, come botanico, ad intervenire su di una pianta, o semplicemente a studiarla, non posso pretendere di avere un pieno e sublime approccio olistico: mi devo accontentare di quello che riesco a fare. Parimenti, se cerco di studiare la mente umana non posso pretendere di spiegare tutta la variabilità del fenomeno. E, sicuramente, in parte la variabilità è determinata anche da fenomeni culturali, ovvero linguistici, folkloristici, religiosi, di costume e via dicendo. Ma questo non significa che io non possa applicare i metodi della scienza alla mente. Significa solo che, così come per ogni altro fenomeno, non posso avere un puro e sublime approccio olistico. D’altra parte, è difficile anche in fisica: chiedete ad un fisico come si complicano i calcoli se invece che tra due corpi si voglia studiare l’influsso gravitazionale tra tre corpi celesti.. . Non credo che la complessità umana sia di un genere diverso da quello che caratterizza, nel suo insieme, la nostra realtà. D’altra parte, lo studio dei sistemi non lineari mette in evidenza proprio questo: descrivendo, con la matematica complessa, i fenomeni mentali, non si nota nessuna differenza sostanziale con lo studio di altri fenomeni naturali. Lasciamo pure che siano anche altre discipline a rendere il più possibile completi gli studi sulla vita dell’uomo: nessuno vuole cancellare, o delegittimare, l’antropologia culturale, la sociologia, la filosofia, l’arte e tutte le altre espressioni di cultura che si interessano dell’uomo. La psicologia dovrebbe avere, a mio avviso, una sua identità, non pretendere di spegare e ridurre scientificamente ogni manifestazione umana.

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  10. Caro Fulvio e cari colleghi,
    per quanto apprezzi le sottigliezze del dibattito epistemologico (ne conosco i principali autori), nato dal commento a Migone, qui mi sembra però che lo si sia utilizzato per evitare di vedere che il re è nudo, oppure che abbia comunque prodotto questo effetto “fumogeno” anche se involontariamente.
    Mi spiego meglio. C’è un evidente tentativo di salvare a tutti i costi la validità della psicoanalisi. Il trucco è semplice: basta rietichettare come “psicoanalisi” procedure e metodi che hanno poco o nulla a che fare con questa, ma che hanno invece dimostrato qualche efficacia superiore al placebo. Oppure, cercare di screditare prospettive diverse dalla psicoanalisi, su cui si sta facendo ricerca da tempo, isolando alcuni specifici riscontri empirici dissonanti da assunti di base, ma marginali. Oppure utilizzare risultanze di ricerche psicologiche, estrapolandole dal loro contesto anche teorico. Fa parte di una miriade di tentativi di restituire alla psicoanalisi il credito scientifico perduto, cui assistiamo da tempo.
    Per accreditare la validità della psicoanalisi, lo stesso Migone ci offre un piccolo scampolo di tali tentativi, che vorrei segnalare, poiché mi sembra emblematico e non richiede una conoscenza particolarmente profonda dell’argomento. Allora, leggiamo attentamente. Migone afferma:
    “È da segnalare … che recenti ricerche sembrano modificare un dato che appariva assodato, quello della maggiore efficacia delle terapie cognitivo-comportamentali. Questo dato sembra un artefatto dovuto sia al maggior numero di studi compiuti sulle terapie cognitivo-comportamentali, sia al fatto che si prestavano meglio al vaglio di un certo tipo di ricerca empirica. Ma negli anni recenti, con l’entrata in forze del
    movimento psicoanalitico nell’arena della ricerca, sono emersi sempre più dati che sembrano capovolgere le sorti.”
    Sorprendente questo commento di Migone, di solito così ben informato, circa l’interpretazione delle recenti ricerche sull’efficacia delle terapie cognitivo-comportamentali. Secondo lui il “dato” della maggiore efficacia delle terapie cognitivo-comportamentali si sta modificando. Non ci dice in che modo. Non ci dice da quali ricerche lo abbia desunto, laddove invece è molto prodigo di bibliografia a sostegno dei suoi argomenti. Fermo restando che – finché si rimane nell’ambito scientifico – non si può dare nulla come sicuramente assodato, è interessante il modo di procedere: 1.si preferisce suggerire piuttosto che affermare (“recenti ricerche sembrano modificare un dato..”), 2. non si chiarisce quale sia il “dato” effettivo circa l’efficacia delle terapie cognitivo-comportamentali che verrebbe modificato (efficacia di quali terapie CC? per quali problemi clinici? dimostrato come?), 3. si propone comunque subito non una ma ben due diverse interpretazioni del “dato”: maggior numero di ricerche (!) e che “si prestavano meglio al vaglio di un certo tipo di ricerca empirica” (cioè il controllo sperimentale!).
    Nel prosieguo, quindi, il lettore si attenderebbe qualche documentazione a supporto di quanto affermato circa questo “capovolgimento delle sorti”. Ecco quindi che veniamo informati che: “Nei disturbi di personalità borderline, che sono disturbi psicologici diffusi e tra i più difficili da trattare, Bateman & Fonagy (2008) ad esempio hanno dimostrato la superiorità di una tecnica psicoanalitica rispetto a una tecnica
    cognitivo-comportamentale (la Dialectical-Behavioral Treatment [DBT] di Marsha Linehan, 1993) che precedentemente vantava i migliori risultati”. Forse è interessante notare che il lavoro citato di Bateman & Fonagy non mira affatto a valutare “una tecnica psicoanalitica”, bensì sottopone al controllo sperimentale l’efficacia di un “trattamento basato su mentalizzazione” (mentalisation treatment) per di più condotto in regime di ricovero: un trattamento quindi che ben difficilmente richiama alla mente la psicoanalisi. Da notare infatti che in tutto l’articolo non si parla mai né di psicoanalisi né di inconscio o di transfert, o di altri caposaldi né della teoresi né della prassi psicoanalitica. Inoltre, tale trattamento non viene affatto confrontato come sostiene Migone (basta leggere anche il solo titolo del lavoro) con la DBT, ma con il trattamento di routine (Treatment as Usual, o TAU). Quest’ultimo consisteva nella abituale gestione psicofarmacologica del caso da parte di psichiatri, sostegno infermieristico nella comunità, ed occasionali ricoveri quando necessari, ma senza alcuna psicoterapia. Tantomento una psicoterapia cognitivo-comportamentale.
    Mettendo da parte il fatto che stavolta il metodo sperimentale è accettabile, non è sconcertante questo modo così distorto di riportare un lavoro scientifico? Forse lo ha letto mentre dormiva?
    Inoltre Migone prosegue: “Negli attacchi di panico, Barbara Milrod et al. (2007) hanno dimostrato che una terapia psicodinamica è superiore a un training di rilassamento, una tecnica cognitivo-comportamentale che rappresenta un controllo credibile perché già dimostrata efficace”. Qui dobbiamo forse supporre che Migone non sia al corrente che il training di rilassamento non è mai stato una tecnica comportamentale né tantomeno cognitiva. E’ noto che questo è un componente di per sé assolutamente insufficiente a definire un trattamento come cognitivo-comportamentale, tanto è vero che viene usato talvolta come terapia di controllo, in quanto le componenti ritenute efficaci sono altre. Forse dovremmo dire che un volante è un elemento caratteristico delle Ferrari, dato che vi si trova?
    Ma ciò che rende ancora più perplessi è l’equiparazione delle terapie psicodinamiche alla psicoanalisi. Non è questo il contesto per illustrare quanto sia irriconoscibile il volto della psicoanalisi nelle terapie
    psicodinamiche. Mi limiterò qui elencare quelle che secondo autori pure citati da Migone (F. Leichsenring, S. Rabung, E. Leibing, (The Efficacy of Short-term Psychodynamic Psychotherapy in Specific Psychiatric Disorders A Meta-analysis. Arch Gen Psychiatry. 2004;61:1208-1216) sono le caratteristiche di tali terapie: “time limited (usually 16-30 sessions with a range of 7-40!), face-to-face setting (!); therapists are usually relatively active (!), they foster the development of a therapeutic alliance (!), focus.. on specific conflicts or themes that are formulated early in therapy (!), attention is paid to adherence to the focus (!), the setting of achievable goals (!!) and termination issues (!), patients’ experiences here and now (!!) including their symptoms(!)”, e circa il cosidetto “transference” si afferma: “the emphasis is .. on the here-and-now dimension, ie, on the present relationship between the patient and the psychotherapist, which is not necessarily traced back to the past.” Da notare che anche la semplice relazione paziente-terapeuta è chiamata “tranference” (nonostante venga attivamente promossa l’alleanza dal terapeuta!), tanto il buon vecchio Freud è ormai nella tomba: anche se si rivoltasse, chi se ne accorgerebbe?
    Che dire: se questa è ancora psicoanalisi, bisogna supporre che abbia fatto un viaggio agli antipodi!
    Per quanto riguarda, invece gli usi e gli abusi delle metanalisi, l’argomento è troppo complesso per affrontarlo qui. A chi vuole posso mandare il mio lavoro sull’argomento: Sibilia L., Carro L., Saenz Caballero N. (2001) Usi ed abusi della metanalisi nella valutazione di efficacia delle psicoterapia. Atti dell’XI Congresso Annuale della Associazione Italiana di Analisi e Modificazione Cognitivo-Comportamentale. p.392-408.
    Grazie a tutti dell’attenzione.

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  11. Ciao Lucio,
    sono perfettamente d’accordo sui tuoi rilievi al dibattito avviato da Migone. Intanto, diremo che andrò sicuramente ad approfondire l’argomento della validità delle tecniche meta-analitiche: ne ho sicuramente una conoscenza molto meno approfondita della tua, quindi seguirò le tue indicazioni bibliografiche. Quanto, invece, al fatto che vengano etichettati come “di marca psicoanalitica” trattamenti come quello di Fonagy, quando ormai di psicoanalitico non hanno proprio niente, posso dire che l’argomento è stato tra quelli da me portati a titolo di critica nei confronti delle affermazioni di Migone. Quindi, mi trovi del tutto d’accordo. Il problema è che, piaccia o no ai gran sacerdoti della psicoanalisi (senza offesa per nessuno), le cosiddette avanguardie della psicoanalisi tendono tutte ad affacciarsi alla cultura di area cognitiva, riprendendo da essa concetti, metodologie e tecniche. Il Ré è nudo, su questo non vi è dubbio. D’altra parte, con la mia critica a Grunbaum ho messo ben in chiaro una cosa: la psicoanalisi si basa su assunti teorici non falsificabili per definizione, quindi questi assunti sono totalmente al di fuori della cultura scientifica. Gli epistemologi sono epistemologi..non maghi. Nessuno può avere argomenti per contrastare questo dato di fatto: è di per sè evidente, proprio perchè fa parte delle premesse fondamentali della cultura psicoanalitica. Come dice Erick Kandel, che negli anni 50 del ‘900 incontrò la psicoanalisi nel suo percorso formativo, solo quegli psicoanalisti che saranno in grado di accettare la sfida dello studio della mente sul piano scientifico, potranno contribuire agli sviluppi futuri della materia: tutti gli altri sono destinati a tramontare con il loro credo. E’ anche doveroso dire, che esistono dei concetti di matrice psicoanalitica, i quali, rivisti e corretti, possono essere traghettati nella psicologia clinica del futuro, vedi ad esempio il concetto di “meccanismo di difesa” o quello Bowlbyano di “stile affettivo-relazionale. Ma si tratta di concetti presi singolarmente (rivisti e corretti), quando invece dei singoli monoliti teorici della psicoanalisi nessuno può essere ritenuto salvabile, così come non è salvabile, nella sua interezza, nessun paradigma interpretativo d’autore di qualsiasi altra scuola: la scienza non può essere fatta sul pensiero d’autore. Quindi, ma tu questo già lo sai, non vorrei essere frainteso: con me, il pensiero d’autore è out! E la psicoanalisi, che si basa interamente sul pensiero d’autore, è, a mio giudizio, da considerare un tipo di cultura che va superato senza indugi.
    Colgo anche l’occasione, per sottolineare un vizio di fondo delle discussioni sul rapporto tra scienza e psicoanalisi: di solito, il primo argomento degli psicoanalisti è “anche la psicoanalisi rientra nella scienza”. Quando poi si trovano in difficoltà, rispetto a questa prima linea di difesa, la difesa diventa “ma sarà il caso di approcciare lo studio della mente sul piano scientifico?”. Caduta anche questa barricata, l’ultimo bastione rimane “la cultura scientifica è disumanizzante ed è il vero male dell’epoca contemporanea”. Ovviamente, per far cadere questo ultimo bastione basta una domanda: salireste su di un aereo che non è stato mai collaudato?..Così, tanto perché qualcuno, molto eloquente, vi dice che il viaggio andrà bene sicuramente…beh, ne dubito. La scienza confronta i modelli di pensiero con la realtà dell’esperienza, tutto qui. Non vedo come questo possa essere ritenuto disdicevole. Non credo che che le epoche dominate dalla religione o dalla ideologia politica abbiano dato frutti migliori di quelli prodotti dall’era della scienza e della tecnica, ovvero dalla nostra era. Un saluto cordiale a tutti…psicoanalisti e non.. .

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  12. Il 27 marzo 2006 compare un numero di Newsweek, che riporta in copertina l’mmagine di un numero di Time con la scritta “Freud Is Dead”, corretta a matita con l’inserzione di un “Not”.Il succo degli interventi, che trovo tuttora pertinenti, ricorda le numerose e vitali vie che oggi ha preso l’invenzione freudiana dell’inconscio.
    In sintesi si puo’ dire che esso suona cosi’: la scoperta dell’inconscio non è una teoria scientifica in senso classico, secondo la logica deterministica del principio di ragion sufficiente. Essa si pone invece nel solco della scienza contemporanea, di tipo indeterministico. Per essere viva quindi richiede che si usi una logica intuizionista (Brower). In questa direzione l’intuizione di Freud si dimostra fertile ancora oggi.
    Per fare un esempio: nella pratica della cura lo scritto freudiano (1937)*Costruzioni in analisi* ha un maggior contenuto di verita’ (cioe’ e’ piu’ scientifico, spiega piu’ cose) di quello popperiano (1935) *La logica della scoperta scientifica*, al quale esso risponde.
    Dunque hanno ragione quelli che dicono che le scuole uccidono (rendono incapace di verita’) l’ipotesi di un oggetto che agisce non saputo (inconscio) sul soggetto: le scuole uccidono la ricerca, sia quelle di psicoanalisi, come quelle di psicologia clinica, perche’ mirano a confermare la propria dottrina. Nonostante le scuole, pero’, oggi ci sono ricercatori che sviluppano l’ipotesi freudiana nel lavoro clinico, per spiegare cio’ che avviene nella cura dell’anoressia, della dipendenza, nella Comunita’ terapeutica, ecc.
    Il problema e’ che molto raramente i loro contributi trovano un consenso sufficiente a convincere un editore a pubblicarli.
    Confido nell’ebooking.
    Carlo Vigano’

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  13. RISPOSTA ad un commento su una mia \”affermazione\”, in realtà incompresa e travisata, comparsa sulla rivista Class. Non ho vistol\’intervista stampata e non so in quale contesto hanno inserito le mie parole. Ciò che io dissi in quell\’occasione era che \”sarebbe auspicabile che i medici di base fossero informati sulla varietà di psicoterapie\”, non che ci si debba rivolgere \”soltanto\” a loro per informazioni. Questo perché molti potenziali pazienti sono del tutto spaesati, non sanno nulla degli ordini degli psicologi e delle diverse scuole. La prima persona che incontrano nella loro ricerca è spesso il medico di base, il quale appunto dovrebbe essere più informato di quanto generalmente non sia. Una buona iniziativa degli ordini potrebbe essere quella di mettersi in contatto con i medici di base, organizzando incontri e/o inviando loro dei depliant con informazioni chiare e precise. Anna Oliverio Ferraris

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  14. Provando a rispondere a Viganò, diremo che nessuno vuol negare che il pensiero freudiano abbia rivitalizzato, dopo essere nato in filosofia ed in letteratura, il concetto di “inconscio”. Tuttavia, dopo Freud l’inconscio, agli effetti della ricerca scientifica, è diventato qualche cosa di molto più “esteso” e di molto meno misterioso: è in prima istanza inconscia la nostra risposta emotiva agli eventi, esistono le prove sul piano neuroscientifico (vedi circuiti talamo-limbici), così come sono inconsce la maggior parte delle nostre funzioni di processamento sul piano cognitivo (intuizione, creatività, costruzione di percorsi di pensiero ecc.). Quindi, l’inconscio messo in evidenza è ben diverso dal “fosco” e “torbido” inconscio freudiano, ma non è meno importante ai fini della vita psicologica: anzi, dovremmo dire che acquista maggiore rilevanza. Provi, a titolo di esempio, a chiedersi da dove le venga il pensiero che esprime quando qualcuno le chiede “Cosa ne pensi di?”, non avendo in realtà mai pensato prima a quello che le stanno chiedendo…gli elaboratori di quel pensiero lavorano su base inconscia, coscientemente non fa altro che verbalizzare e sorvegliare, riflessivamente, il contenuto dell’output dei suoi elaboratori inconsci. Comunque, bisogna riconoscerlo, a Freud va il merito di avere per primo riportato il concetto di inconscio all’interno della riflessione degli studi di psicologia, anche se oggi, agli effetti degli studi scientifici, il concetto di inconscio si riferisce a ben altro da ciò che teorizzo Freud.

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  15. Vedo che questo dibattito si è accesso, e penso che sia una cosa positiva perché significa che questo argomento sta a cuore a molti. Vorrei rispondere su alcuni punti, e mi scuso se necessariamente non toccherò tutte le questioni sollevate perché sono veramente così tante che è proprio impossibile.

    Lucio Sibilia mi rimprovera di non essere stato rigoroso, cioè di essere stato approssimativo, di non aver citato appropriatamente le fonti a cui facevo riferimento, le metodologie, le definizioni (ad esempio di “psicoanalisi” ecc.). Qui c’è un equivoco: in questo mio commento, che mi era stato chiesto, io volutamente sono rimasto sulle generali perché mi sembrava che questo non fosse assolutamente il contesto per un intervento più dettagliato. Può darsi che io abbia sbagliato a rimanere sulle generali, ma di fatto il mio timore (e qui Sibilia si sorprenderà) era addirittura di essere stato troppo specifico per questo contesto! Mi limito a dire che quello che io volevo fare era riportare quella che sembra (almeno a me, ma anche ad altri ricercatori) una linea di tendenza che sta emergendo sempre di più nella letteratura sulla ricerca in psicoterapia, e cioè che le terapie “derivate dalla psicoanalisi” sono molto più efficaci di quanto si credeva, e che in molti casi sono superiori a quelle cognitivo-comportamentali. Qui Sibilia dirà che questa mia affermazione è troppo generica, dice troppo e quindi (popperianamene) niente, cioè è difficilmente falsificabile, e penso che, se lo dicesse, avrebbe buoni argomenti per dirlo. Rimane il fatto che io volevo rimanere nei limiti di affermazioni generali e basta.

    Ma quali dati portavo a sostegno di questa mia affermazione? Vi sono vari studi, pubblicati su riviste non certo di poco conto. Ne cito solo uno: la meta-analisi (che in realtà è una “mega-analisi”, cioè una meta-analisi di meta-analisi) di Shedler del 2010, pubblicata sull’organo dell’American Psychological Association (che io citavo e a cui facevo riferimento in modo preciso, quindi non è vero quello che dice Sibilia quando dice, riferendosi a me, “Secondo lui il ‘dato’ della maggiore efficacia delle terapie cognitivo-comportamentali si sta modificando. Non ci dice in che modo. Non ci dice da quali ricerche lo abbia desunto”). Riportavo addirittura i dati delle effect size (da .69 a 1.46 nelle terapie psicodinamiche e da .58 a 1.0 nelle terapie cognitivo-comportamentali). Ma qui Sibilia subito argomenta (e giustamente) che bisogna stare attenti a trarre conclusioni generali o affrettate da dati di ricerca, è un campo scivoloso, irto di trabocchetti di ogni tipo, bias a non finire (si pensi solo al bias della researcher allegiance, che è altissima, del 70%, in alcuni studi, ma probabilmente di più). Sibilia ha pienamente ragione, ma ogni argomentazione di questo tipo può essere rivolta anche al campo delle terapie cognitivo-comportamentali, per cui non ci serve molto. Sibilia ha ragione anche quando dice che bisogna stare attenti ai termini che si usano, perché ad esempio la parola “psicoanalisi” può essere stiracchiata a piacere e dimostrare che quasi ogni cosa al mondo è psicoanalisi (giustissime le sue osservazioni sul MBT di Fonagy: è psicoanalisi? Certamente Fonagy proviene dal campo psicoanalitico, ma quali elementi della cosiddetta psicoanalisi sono presenti nell’MBT? Questo tema è uno di quelli che mi appassionano di più, e ho idee precise in merito, ne parlerei a lungo, ma sarebbe veramente impossibile farlo qui; a proposito, giorni fa volevo mandare al collega Vignoli un mio articolo in cui discutevo abbastanza nei dettagli la DBT della Linehan, paragonandola con la TFP di Kernberg e anche in parte con l’MBT di Fonagy, ma non avevo la sua email, allora ho mandato un messaggio nel suo sito web ma non mi ha risposto, suppongo che non l’abbia visto: colgo l’occasione per dire a chiunque legga queste righe che se è interessato mi scriva [migone@unipr.it] che glielo mando).

    Già adesso il mio intervento sta diventando troppo lungo, e allora cerco di rispondere a una obiezione centrale e molto giusta che faceva Sibilia: cosa intendono questi ricercatori con “terapia psicodinamica” quando usano questi termini, e quando dicono che è efficace? Ancora una volta, io non potevo entrare nel dettaglio perché il mio intervento perché sarebbe diventato ancor più lungo, ma lo avrei molto voluto. Mi ero limitato a citare la fonte, a cui tutti, volendo, possono rivolgersi: l’articolo di Shedler, che ho l’impressione che Sibilia non abbia letto altrimenti non avrebbe mosso questa obiezione. In quell’articolo non si limita certo a fare operazioni di nominalismo, ma va a fondo su questo problema. Per “terapia psicodinamica” (indicata con l’acronimo PDT) non si intende qualcosa di generico, o di teorico, ma alcune caratteristiche precise (sette per la precisione), e qui cito, “determinate dall’esame empirico di registrazioni e trascritti di sedute reali, [che] distinguevano in modo attendibile la terapia psicodinamica da altre terapie. (…) Blagys & Hilsenroth (2000) hanno fatto una ricerca nel database di PsycLit per identificare studi empirici che avevano paragonato il processo e la tecnica della terapia psicodinamica manualizzata con quella della terapia co¬gni¬tivo-comportametale (cognitive-behavior therapy [CBT]) manualizzata”, ecc. (ecco il riferimento di Blagys M.D. & Hilsenroth M.J.: Distinctive activities of cognitive-behavioral therapy: A review of the comparative psychotherapy process literature. Clinical Psychology Review, 2002, 22: 671-706). In altre parole, si tratta di rilevazioni empiriche, di un modo di procedere con cui Sibilia, ricercatore e studioso rigoroso, si troverebbe molto d’accordo. Ugualmente, gli studi che hanno dimostrato che quando le terapie non psicodinamiche sono efficaci ciò avviene in parte perché i terapeuti non psicodinamici utilizzano tecniche che da sempre caratterizzano l’approccio psicodinamico sono stati compiuti con metodologie rigorose (in questo caso basate sul Q-sort, per la precisione).

    Sibilia può argomentare che tutte queste ricerche sono false, fatte male, ecc. Potrebbe benissimo avere ragione. Ma non ritengo che non gli convenga usare solo questa argomentazione, perché, come dicevo, può essere rivolta anche alle ricerche che dimostrano l’efficacia delle terapie cognitivo-comportamentali. Tantissimo è stato detto e scritto sulle debolezze delle ricerche sulle terapie cognitivo-comportamentali, basti vedere l’articolo di Westen, Morrison Novotny & Thompson-Brenner (2004) che avevo citato, e che sicuramente Sibilia conosce: avevo voluto far uscire questo articolo, come quello di Shedler, in italiano su Psicoterapia e Scienze Umane, e data la sua importanza fu incluso nel PDM del 2006 (il Manuale Diagnostico Psicodinamico, uscito in italiano presso Cortina).

    Per concludere, quello che volevo dire si può riassumere in questo modo: non è un caso che oggi sia stato pubblicato un articolo come quello di Shedler, anni fa non avrebbe potuto essere pubblicato, non vi erano i dati disponibili (e non è l’unico articolo che segna questa tendenza che anni fa non c’era). E la rivista su cui è uscito non simpatizza certo per la psicoanalisi, il fatto è che i suoi referees anonimi non hanno potuto respingerlo poiché riportava dati di ricerca incontrovertibili, che (seppur nella loro limitatezza, nel loro bisogno di essere validati da ulteriori ricerche, ecc.) la comunità scientifica doveva conoscere e con cui deve fare i conti. Non resta da sperare che il movimento cognitivo-comportamentale sappia rispondere nel migliore dei modi a questa sfida, e che addirittura sappia criticare duramente questi dati, nell’interesse vero dello stesso movimento dei ricercatori psicodinamici.

    Ringrazio Lucio Sibilia e gli altri colleghi hanno contribuito a questo dialogo e per avermi permesso di tornare su questi argomenti.

    P.S.: Ho letto con piaceer la precisazione di Anna Oliverio Ferraris, anch’io avevo immaginato che era un esempio di una frettolositò e poca comprensione da parte della giornalista.

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  16. Come moderatore del forum OPM non posso non ringraziare tutti gli intervenuti alla discussione e la loro passione, con un particolare cenno a Paolo Migone, autore del parere da cui la discussione nasce (e che ci onoriamo di ospitare tra i nostri esperti), per la sua instancabile dedizione alle ragioni del confronto scientifico e per il suo equilibrato stile argomentativo, esempio per tutti noi che abbiamo a cuore la psicologia.

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  17. Caro D’Elia,
    qui vorrei soltanto chiederle: “le ragioni del confronto scientifico” vengono rispettate secondo lei riportando falsamente il contenuto dei lavori scientifici citati? A mio avviso, NO. Non c’è bisogno di essere particolarmente rigorosi, basta un minimo di onestà intellettuale. Nel dibattito scientifico vige l’assunto che questa non manchi mai negli interlocutori. Tuttavia, talvolta mi sembra lecito dubitarne.
    Grazie, può anche non pubblicare, se vuole, questo commento.

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  18. Mi scuso con Paolo Migone per non aver risposto al suo messaggio al mio indirizzo web: vado a vedere la posta solo di quando in quando! Provvederò oggi stesso a rispondere al collega. Quanto, invece, alla risposta circostanziata di Migone, vorrei permettermi di aggiungere quanto segue: agli effetti del dialogo tra Sibilia e Migone, emerge come fare ricerca sull’efficacia delle psicoterapie, in questa situazione di parcellizzazione di scuola, non possa che condurre ad una gran confusione su “quel che sia valido per che cosa”. A parte la disomogeneità metodologica degli studi condotti in questo settore, che rende tra l’altro gli studi meta-analitici ancor più discutibili di quanto non lo siano già come stumento di verifica, vi è infatti da mettersi d’accordo su di un punto: basandosi, come studiosi, su di una nosografia condivisa, esistono centinaia di diversi disturbi psichiatrici. Per quali di essi ottiene risultati positivi la terapia psicodinamica? Per quali disturbi ottiene risultati positivi la terapia CBT, o quella strategica, o quella gestaltica, o ciascuna delle altre 400 scuole di pensiero esistenti in psicologia clinica? Conoscendo un po’ meglio delle altre la cultura CBT, posso dire che un abbozzo di risposta alla mia domanda la cultura CBT riesce a fornirlo..e le altre? Forse anche le altre, anche se sicuramente in proporzione diversa per ogni singola scuola. Tuttavia, io credo che il presupposto del pensiero di scuola renda anche lo sviluppo evidence based, in psicologia clinica, alquanto problematico. Tutto ciò, mi dà quindi l’opportunità di riagganciarmi anche all’intervento della Oliverio Ferraris: Sulla base di che cosa, di quali nitidi e chiari criteri, il medico di famiglia dovrebbe consigliare un paziente circa la scelta di uno psicoterapeuta? Se la psicologia clinica è un guazzabuio già per gli psicologi e per gli psichiatri, pensate allora a cosa potrebbe sembrare agli occhi di un medico di famiglia che conosce il campo solo in maniera molto marginale. Io credo, anzi, che se un medico dovesse consigliare uno psicoterapeuta ad un paziente, conoscendo approfonditamente il settore, potrebbe anche scegliere di dire: “Beh, la consiglio di non rivolgersi ad alcuno psicoterapeuta..non si sa mai quello che potrebbero propinarle come cura..”. Questa mia è solo una provocazione, ovviamente, ma comunque non credo che il nostro ipotetico medico potrebbe essere biasimato più di tanto. Tanto più, che di fronte alle ricerche in psicoterapia esce fuori il famoso “verdetto di Dodo”, ovvero: “Tutti hanno vinto, tutti meritano un premio”, ovvero tutte le psicoterapie sono efficaci allo stesso modo. Francamente, non credo proprio che le cose stiano così: credo, invece, che l’effetto researcher allegiance, citato da Migone, abbia veramente un influsso notevole nello spingere la ricerca evidence-based in psicoterapia verso il citato “verdetto di Dodo”. Quindi, sempre a mio avviso, finchè gli psicologi non si decideranno ad unificare la psicologia clinica, potendo esprimere quindi un fronte di ricerca chiaro sull’efficacia degli interventi, anche il movimento evidence-based in psicoterapia rischia di non essere altro che una “cura palliativa” per il nostro movimento; ovvero, rischia di ridursi ad una “logica dei pannucci caldi”, che non riesce a curare affatto quel grande “malato culturale” al capezzale del quale stiamo tutti: un malato che si chiama “psicologia clinica”.

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  19. Caro Sibilia, credo che le ragioni di un buon confronto scientifico si difendano innanzitutto difendendo uno stile interlocutorio e assumendo la buona fede altrui. Cosa che tutti voi fin qui avete preservato (cosa di cui vi ho già ringraziato). Cosa però che lei, a me pare, col suo ultimo intervento mette in crisi dubitando dell’onestà dei suoi interlocutori.

    Personalmente non ho alcun dubbio dell’onestà di Migone, ma forse è il caso che a questo punto, avendo lei introdotto questo dubbio, si chiarisca con lui direttamente, se vorrà.

    Da lettore del vostro scambio, a me pare che sia più facile spiegarsi il radicale disaccordo attraverso la malafede altrui (accade spesso, purtroppo, su questo forum) piuttosto che con differenze irriducibili legate a visioni “politiche” (nel senso di politica della scienza e della professione e forse del mondo) assai distanti.

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  20. A margine -molto a margine- della discussione, dibattuta con ben altri argomenti:
    Ultimamente mi sono occupato di reti. Da pesca.
    E naturalmente le reti a strascico sono diverse e pescano pesci diversi dalle tonnare, ad esempio.
    Però ho trovato che le tonnare siciliane sono simili, anche se non identiche, a quelle che usano qui in Spagna.
    E mi sono ricordato di quel maestro che diceva che le teorie (e le pratiche) sono como reti da pesca

    Emilio Vercillo
    -che ha usato le 2 (..2?) reti-

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  21. A margine di questo dibattito, che sembra essersi arenato nelle solite secche della partigianeria, vorrei fare alcune considerazioni “notturne”, cerecando di essere più che altro “maieutico”. Vorrei, quindi, chiedero subito: al di là dei dibattiti epistemologici e metodologici, che fine ha fatto il paziente? Siamo, noi tutti, degli psicologi, ovvero professionisti che dovrebbero adoperarsi per lenire la sofferenza e promuovere il benessere, oppure siamo dei filosofi sotto mentite spoglie? Ci vogliamo chiedere il perché i dibattiti, in psicologia clinica, finiscono tutti per slittare sul piano dell’epistemologia?
    Venedo a questioni più concrete, non vi è mai capitato, cari colleghi, di imbattervi in pazienti con i quali è difficilissimo essere d’aiuto? Non vi è mai capitato di imbattervi in pazienti “che non ne hanno” per lavorare con uno psicologo? Ed ancora, psicotici a parte, non avete mai avuto pazienti con i quali non sarebbe mai stato possibile lavorare senza l’integrazione con una cura farmacologica? Non avete mai avuto pazienti altamente incostanti nel venire agli appuntamenti, e nel seguire quanto concordato insieme per vivere meglio la vita fuori dal setting di lavoro dello psicologo? Vorrei poi chiedere: tutti i vostri pazienti tendono ad atteggiarsi con voi nello stesso modo, ovvero considerandovi una figura materna (o paterna), oppure un amico col quale collaborare, oppure ancora uno specchio attraverso il quale conoscere se stessi? Non credete che nessuna teoria di scuola sia sufficiente a trovare soluzioni efficaci a questi dilemmi? Non credete che i problemi che si incontrano quotidianamente, facendo attività clinica, abbiano bisogno di continui studi, ed aggiornamenti conseguenti, per trovare delle risposte sempre più soddisfacenti? Non vi mette in crisi, anche solo un tabagista che voglia smetterla col suo vizio, oppure un giocatore incallito di macchine mangia-soldi? Non credete che accettare la sfida della salute mentale significhi anche possedere sempre nuovi e migliori strumenti per lavorare? Ed allora, come fate, santi numi, ad accontentarvi di stare ogni volta ad ascoltare le litanie di scuola? In un’epoca in cui si parla di studi di brain-imaging, di macchine azionate e dirette con la lettura dell’attività cerebrale, di cyber-droghe, ed in un’epoca in cui anche la portinaia sa cosa sia la serotonina, sarà mai possibile continuare a vestire le ghette dei primi del ‘900 e andare a discutere di cosa sia la scienza alle riunioni settiamanli del “Circolo di Vienna”?
    Ogni risposta, purché civile, è gradita. Grazie dell’attenzione.

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  22. Caro Vignoli,
    non sono sicuro che la maieutica funzioni per chi, lungi dal cercare la conoscenza, si procura invece di offuscarla, magari spacciando i contenuti di ciò che legge per tutt’altro, pur di sostenere le sue pratiche. Non si tratta di partigianerie, né di sollevare sofisticate questioni epistemologiche, ma di affermare che per consentire un dialogo scientifico non si possono accettare abusi. Ad esempio: 1) i contenuti di lavori scientifici citati non devono essere stravolti, 2) le psicoterapie sottoposte a studio sperimentale non devono essere ri-etichettate in modo da attribuirne l’efficacia evidenziata ad altre non ancora studiate, e 3) il metodo sperimentale sia accettato sempre (quando ci sono ipotesi da verificare) e non solo quando fa comodo.
    Migone è certo un uomo onesto e competente, ma anche “Bruto è un uomo onesto”, diceva Antonio nell’orazione funebre per Cesare (Shakespeare, Julius Ceasar,3.2.91).
    Parlare di pazienti sarebbe anche utile ma, a parte che esulerebbe dal dibattito, implicherebbe subito gravi problemi linguistici. Che dialogo ci può essere se ciascuno descrive a modo suo ciò che fa o non fa? Eppure, è proprio ciò che accade. Psicoterapeuti di orientamenti diversi usano spesso termini diversi per indicare le stesse operazioni e termini simili per procedure diverse. Ciò dipende dal fatto che si mescolano termini descrittivi con termini teorici, che vengono scambiati per descrittivi. Per accertartene, basta fare una prova con qualche collega, leggere qualche resoconto di caso clinico, oppure andare al sito del progetto CLP (http://www.commonlanguagepsychotherapy.org).
    Proprio per affrontare questo problema linguistico abbiamo creato questo progetto internazionale, che mira a sviluppare un lessico universale delle procedure psicoterapiche, il Common Language for Psychotherapy (CLP) Procedures project, cui hanno aderito le più importanti società internazionali di psicoterapia. Già 98 terapeuti, sia di diversi Paesi che di differenti orientamenti, hanno aderito ed oggi abbiamo più di 80 procedure terapeutiche definite con linguaggio comune, insieme ad almeno un esempio clinico per ciascuna.
    Per far progredire la psicoterapia verso uno statuto di scienza, a mio avviso, ci vuole un linguaggio comune, pur nelle diversità teoriche, l’uso di saperi e concetti già sottoposti a verifica sperimentale, nonché la disponibilità a sottoporre a verifica le proprie osservazioni, ipotesi, e i propri modelli interpretativi. Ovviamente, senza trucchi.
    Cari saluti.

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  23. Gentile Sibilia, la invito a continuare a portare i suoi argomenti, come sta facendo, e di astenersi da giudizi personali sull’onestà o disonestà dei suoi interlocutori. La ringrazio.

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  24. Ciao Lucio,
    intanto vorrei dirti che ritengo sia un’operazione senz’altro importante, quella di unificare il linguaggio adottato in psicologia clinica. Quindi, l’operazione che state portando avanti è di sicura rilevanza. Sai come la penso, e sai anche che per me il riferimento di cultura principale, in psicologia clinica, è quello cognitivo-comportamentale, ANCHE SE NON SONO UNO PSICOLOGO DI SCUOLA.
    Entrando invece nel merito del mio esercizio maieutico, diremo che si è trattato di una semplice “riflessione a voce alta” su come la configurazione “a mosaico” della psicologia clinica sia profondamente inadeguata ad accettare le sfide poste dalla modernità. Ad esempio, ricerche sempre più numerose evidenziano come l’integrazione tra farmaci e psicoterapia consenta di ottenere risultati rilevanti in un gran numero di disturbi psichiatrici; anche, quindi, in quei disturbi che vengono ancora trattati, normalmente, o con l’una o con l’altra metodica.A questo punto, però, sorge un problema: integrare i farmaci con quale psicoterapia? La maggior parte degli studi sull’integrazione sono stati fatti abbinando i farmaci a trattamenti cognitivo-comportamentali. E la cosa non stupisce, visto che questo filone della psicologia clinica è quello più vicino ai valori della cultura scientifica. Tuttavia, vi è anche da chiedersi: nel caso delle altre scuole, vi è apertura all’integrazione? Ed ancora, si avrebbero gli stessi risultati combianando altri approcci con i farmaci? La risposta è che non lo sappiamo. Nel frattempo, l’utenza dei servizi di salute mentale, ignara delle nostre diatribe di scuola, deve pregare il cielo di imbattersi in professionisti che pratichino una psicologia seria, corroborata attraverso le ricerche. Altrimenti, molto facilmente, i pazienti finiscono per esasperarsi nella sofferenza vivendo disturbi che non si attenuano, oltre a spendere considerevoli somme di denaro inutilmente. E’ giusto tutto questo? E’ giusto che mentre gli psicologi dibattono vanamente su cosa sia la scienza, la loro disciplina scivoli inesorabilmente nell’immoralità e nella disonestà intellettuale? L’aspetto curioso di tutto questo, è che gli psicologi vivono con “bella indifferenza” questa situazione, ognuno chino sulle sue idee di scuola, ognuno combattendo per i suoi vessilli. Ognuno ha studiato all’università biologia, statistica, neurofisiologia, genetica, psicologia fisiologica, psicofisiologia clinica, psicologia sperimentale e via dicendo, quando poi, una volta laureati: Pufffff…dimenticati tutto e convertiti ad un credo! Un credo quasi sempre sviluppato su basi speculative, ovviamente. Vi sembra normale? Dopo aver studiato il cervello e la mente sul piano scientifico, ci rimettiamo ghette e bombetta e torniamo nella Vienna dei primi del ‘900 a praticare la psicoanalisi e a parlare di cosa sia la scienza, oppure andiamo dietro a santoni che propongono terapie miracolose sulla base di improbabili concezioni della mente! E il paziente? E la voglia di aiutare gli altri? E la formazione avuta all’università?… Dove sono finite?

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  25. Caro Fulvio,
    tu scrivi giustamente: “Ognuno ha studiato all’università biologia, statistica, neurofisiologia, genetica, psicologia fisiologica, psicofisiologia clinica, psicologia sperimentale e via dicendo, quando poi, una volta laureati: Pufffff…dimenticati tutto e convertiti ad un credo! Un credo quasi sempre sviluppato su basi speculative, ovviamente.”
    Vero, purtroppo. Ma il neolaureato psicologo, trovandosi di fronte allo spettro della disoccupazione, e quindi alle possibili future difficoltà di mantenersi in vita, ecco che diviene facilmente preda di chi gli offre un “patto di sangue”. Che io descriverei così: “Io ti do la possibilità di sopravvivere, dichiarandoti professionalmente maturo perché (o , scegliete voi), tu mi darai una eterna fedeltà (oltre a una parte delle tue sostanze), omaggiando e rispettando per sempre il mio pensiero e le mie opinioni, su cui io non ho mai dubitato.”
    Che sia un patto di sangue lo si evidenza in quei casi in cui il patto viene violato: il “traditore” diventa un rinnegato o un reietto e si lanciano anatemi sanguinosi. Non credere che stia facendo una caricatura, è tutto documentato.
    Con stima,
    Lucio

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  26. ..Sono d’accordo Lucio..io rimango dell’idea che ancora oggi tutti quanti, ogni scuola di psicoterapia esistente, non facciano altro che perpetuare l’idea di psicologia clinica ereditata dalla psicoanalisi. Nessuno può negare che la psicoanalisi, interamente postulata da Freud in quanto presunta teoria scientifica, si sia poi frammentata in tante ed idiosincratiche visioni d’autore. Ad iniziare dalle defezioni della prima ora, quelle di Jung e Adler, ne sarebbero seguite innumerevoli altre, che avrebbero fatto della psicoanalisi un “arcipelago” culturale molto frastagliato. Bene, da lì la psicologia clinica avrebbe ereditato interamente l’impostazione di fondo freudiana, creando innumerevoli scuole di pensiero, spesso formate, al loro interno, da altrettante sub-scuole. Da Freud in avanti quindi, che indubbiamente ha fondato le “terapie della parola”, si sarebbero creati innumerevoli cloni della psicoanalisi, dalle più disparate epistemologie e dai più disparati paradigmi interpretativi. La psicologia clinica è quindi diventata la campionessa storica della frammentazione di scuola: sicuramente, neanche la filosofia, che è per definizione composta da scuole di pensiero, è mai arrivata a vivere di tante scuole di pensiero esistenti in contemporanea. La logica di questo discorso implica, dunque, che noi tutti viviamo ancora oggi nell’era freudiana della psicologia clinica. Io penso che nemmeno il nostro caro, vecchio medico viennese potesse immaginare un regno così lungo della sua dottrina, ed una così durevole vita della sua impostazione “carismatica”. In verità, anche chi lo avversa, contrapponendosi dall’osservatorio particolare della propria scuola, non fa altro che perpetuarne il regno. In fondo, è anche giusto che gli psicoanalisti continuino a sentirsi la città stato più forte della psicologia clinica: questo sistema deriva dal loro esempio primigenio, quindi anziché orientarsi sulle imitazioni, tanto vale orientarsi sull’originale.. . In tutto questo gli psicologi sono semplicemente dormienti. Come dici tu, Lucio, gli psicologi accettano di buon grado il “patto di sangue”, senza farsi troppe domande; ed anche quando se le dovessero fare queste domande, sono poi portati a fare spallucce e tirare avanti..tanto che ci vuoi fare!? Da quì, l’anacronismo di una disciplina che non riesce a rinnovarsi, che non riesce a darsi un assetto unitario. In un certo senso, quella della psicologia clinica è la cittadella Amish della scienza: come gli amish, gli psicologi preferiscono vivere nel passato, guardare alla contemporaneità delle auto super-tecnologiche seduti sul duro sedile del loro calesse. Per gli psicologi è ancora il 1910. In questo senso, vi è da riconoscerlo, Freud è più che mai vivo ed imperversante.

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  27. Spero di non annoiare troppo i blogger, se aggiungo ancora qualche cosa sulla degenerazione del mercato della formazione in psicoterapia. Vi siete mei chiesti perché spuntino come funghi figure di pseudopsicologo formate dagli psicologi? Ne citerò qualcuna: il coach, il reflector, il counselor, il pedagogista clinico (cosa mai vorrà dire?),il consulente filosofico, il consigliere esistenziale, il practicioner Reiky, il practicioner PNL e tante altre ancora. Ora, visto che la missione degli psicoterapeuti si è trasformata dal dare assistenza a chi soffre, e/o promuovere il benessere, al formare metà della popolazione mondiale in psicoterapia, esagero se dico che la cultura della psicoterapia ha assunto una esclusiva valenza commerciale, perdendo al contempo ogni aspetto di dignità come pratica sanitaria? Esagero se dico che l’autoindulgenza degli psicologi nel voler procedere a schema libero, seguendo l’onda lunga del freudismo, sta uccidendo la psicologia clinica? Non credete che il freudismo rischi di diventare l’alfa e l’omega della psicologia clinica, ovvero che questa disciplina, nata con Freud, rischi anche di morire a causa dell’esempio “speculativo” dato da Freud? Io credo che la deriva commerciale del mercato della formazione in psicoterapia si fermerà solo con la fisiologica saturazione dei mercati. Quando vedremo che la formazione in psicoterapia avrà imboccato la strada del multi level marketing, in verità esistono già dei casi, allora potremo cominciare a stracciare la laurea in psicologia che ci siamo guadagnati! A quel punto, infatti, di fronte a questa immane buffonata, chi è che avrà ancora il coraggio di andare a spendere i propri soldi da uno psicologo, o, ancora peggio, dalla moltitudine sterminata degli pseudo-psicologi??
    A margine di questo discorso, vorrei far notare ancora un’altra cosa: visto che la maggior parte degli psicologi aspira molto di più a diventare formatore, che non a lavorare quotidianamente con i pazienti, si capisce anche perché siano ancora in molti a pensare che le formulette terapeutiche del pensiero delle singole scuole possano, in effetti, risultare terapeutiche…che ne sanno loro delle difficoltà quotidiane che si incontrano nel cercare di aiutare la gente? Loro hanno da fare nel migliorare come imbonitori, come affabulatori, mica possono perdere tempo a pensare a cosa serva per aiutare la gente! Al massimo ne discutono davanti ad una coppa di vino, nelle lunghe serate di riposo degli week-end formativi, oppure ai convegni, oppure ancora in qualche altra occasione mondana o giù di lì.. . Esiste un proverbio che dice che chi non sa fare il proprio mestiere cerca di andare a insegnarlo agli altri..mi sembra che, in questo, molti psicologi non abbiano perso tempo.. .

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  28. Sono una psicologa psicoterapeuta. Intervengo quando la discussione è andata molto avanti, per tornare – in un certo senso – alla segnalazione della collega. Mi chiedo, semplicemente: accertato che, nella rivista citata, la comunicazione riguardo alla psicoterapia è per lo meno confusa, e considerando che l’osservatorio si prefigge la tutela e la promozione della professione, perchè non pensare ad azioni concrete per promuovere una corretta informazione riguardo alla psicoterapia?
    Inoltre, riguardo ai medici di base, oltre a condividere le perplessità emerse, desideravo segnalare un notizia di cui sono venuta a conoscenza tramite il sito http://www.firmiamo.it. (Petizione: Psicologo di base: NO ai medici contro il Ddl n. 3215) Esiste un proposta di legge (il Ddl n. 3215, appunto) di istituzione della figura dello psicologo di base, la quale prevede che i requisiti per potere svolgere questo ruolo siano: l’iscrizione all’albo dei medici e degli odontoiatri/l’iscrizione all’albo degli psicologi da almeno dieci anni.
    Poichè mi sembra una proposta veramente confusiva oltre che ingiusta, vorrei sapere se è di vostra conoscenza
    Vi ringrazio dell’attenzione.
    Roberta Portelli

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    • @Roberta Portelli, Gentile collega,
      sono anch’io venuto casualmente a conoscenza del ddl 3215 per la istituzione della figura dello “psicologo di base”. Conosco, quindi, anche le rimostranze fatte oggetto di petizione dalla collega su Firmiamo.it, in merito all’allargamento ai medici (ed ai medici odontoiatri)della possibilità di fare domanda per poter svolgere questa nuova funzione prevista dal SSN.Mi viene di considerare che, come al solito, si tratta della solita “buona volontà” del sistema di cultura italiano nei confronti della psicologia (siamo fortunati rispetto ai colleghi di molti altri paesi)che si risolve, d’altra parte, nel solito pasticcio. Ragioniamo per un attimo sulla questione: quando venne fatta la legge Ossicini per regolamentare l’esercizio della psicologia e della psicoterapia, si volle comunque recuperare la figura del medico come figura che, sebbene non formata in materia di psicologia, potesse comunque svolgere il ruolo di curante, anche in questo ambito, attraverso la possibilità di iscrizione alle scuole di specializzazione in psicoterapia. In questo caso, ci troviamo di fronte allo stesso fenomeno: se vi è la possibilità di poter svolgere un ruolo di curante per lo psicologo, ci deve poter rientrare anche il medico. Cercando di scovare l’implicito che domina questo tipo di impostazione, al di là dei massonici ossequi a caste privilegiate fatti dai palazzi del potere, vi ritroviamo un assunto, ovvero l’assunto che lo psicologo deve rimanere “sussidiario” alla figura del medico: è il medico che si occupa della salute pubblica, sempre e comunque. Anche perché sono gli psicologi ad aver accettato sconvenienti compromessi per delimitare le loro peculiarità. Io vado ripetendo da tempo, che psicologia dovrebbe mirare a riunirsi con la psichiatria per creare una grande e distinta facoltà di “Scienze della mente” dalla quale far uscire figure di “Psicologo-Psichiatra”. “Perchè?” ci si potrebbe chiedere. Al di là di altre questioni più propriamente teoriche che non starò a ribadire in questo intervento, credo che il medico abbia un grande vantaggio nei confronti dello psicologo: il vantaggio di poter prescrivere farmaci. Come dimostrano molte ricerche su base empirica, abbinare il farmaco alla psicoterapia offre dei vantaggi notevoli; e sicuramente, anche quando si voglia svolgere una funzione meramente “sintomatica” sui disturbi della sfera psichica, si può oggettivamente fare abbastanza anche solo con i farmaci, sebbene poi le ricerche dimostrino che nel lungo termine i risultati possano essere anche molto scadenti, senza l’integrazione con la psicoterapia. Poter prescrivere farmaci, quando invece noi psicologi non lo possiamo fare, offre al medico delle possibilità di cura a 360° che, d’altra parte, lo psicologo non possiede.Tra l’altro, facendo per un attimo lo psicologo alla situazione, la possibilità di prescrivere farmaci legittima molto di più un “curante” come lo è anche uno psicologo, nel ruolo, appunto, di “curante”. Tutto ciò potrebbe sembrare banale, ma, a mio avviso, è terribilmente reale.Quindi, è inutile che noi psicologi ci agitiamo tanto nel voler delimitare le nostre specificità: senza l’aggancio ad una legittimità bio-medica, queste nostre prerogative rimangono fragili, “evanescenti”, come afferma un noto psichiatra italiano. E ci dobbiamo considerare perfino fortunati, se pensiamo che, ad esempio, in Francia lo psicologo è ancora oggi poco più che un “libero pensatore”, mentre in Germania, a quanto ne so, è niente più che un filsofo “sui generis”. Concluderò dicendo che, al di là dell’ammirevole proposito della collega che ha presentato la petizione della quale parliamo,non si tratta di niente altro, se non dell’ennesimo tentativo velleitario degli psicologi di legittimare una specificità che è storicamente mal definita. Ma, di questo gli psicologi non vogliono sentir parlare: lo psicologo promuove il cambiamento, per professione, ma non vuole cambiare. Lo psicologo ha il problema di essersi sentito “arrivato” a metà strada, a metà strada del suo processo di “individuazione” professionale

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  29. AUTORE DEL SEGUENTE COMMENTO: il Dott.PAOLO MIGONE
    (per motivi tecnici riportato dal moderatore)

    Intervengo di nuovo in questo dibattito, anche se è passato un po’ di tempo, perché mi viene richiesto dal collega Giorgio Nardone (che dirige il Centro di Terapia Strategica di Arezzo), il quale ha ravvisato nel mio commento un’offesa nei confronti suoi e della sua scuola, per cui mi chiede far pervenire le mie scuse, che devono ovviamente essere divulgate sullo stesso canale d’informazione pena una denuncia nei miei confronti. Gli ho già risposto privatamente per fargli le mie scuse se l’ho offeso, e ora volentieri le faccio pubblicamente.
    Come avevo già precisato nel mio commento, io non ho mai dubitato della buona fede dei colleghi del Centro di Terapia Strategica di Arezzo (ad esempio avevo precisato: «so bene che questi colleghi sono in perfetta buona fede»), la mia voleva essere solo una critica alle idee, non alle persone, verso le quali ho il massimo rispetto. Certamente posso aver usato toni polemici, e ripeto che se questi toni possono essere risultati offensivi mi scuso, è stato un errore che tra l’altro va a mio danno perché le critiche sono molto più efficaci quando vengono fatte senza animosità.

    Tra parentesi, è curioso che in questo dibattito, che si è subito infuocato, proprio io sia stato minacciato di denuncia: infatti un altro interlocutore aveva detto, riferendosi a me, che era stato riportato «falsamente il contenuto dei lavori scientifici citati», e aveva dubitato della mia «onestà intellettuale», al punto che il moderatore è dovuto intervenire addirittura due volte per ammonirlo. Io però non avevo pensato di denunciarlo. Due colleghi (entrambi, peraltro, di area cognitivo-comportamentale) mi avevano scritto privatamente per esprimere la loro disapprovazione del comportamento di quel collega e per mostrare un apprezzamento nei miei confronti, e io avevo risposto ringraziandoli e dicendo che preferivo lasciar perdere, e che sarebbero stati i lettori a giudicare autonomamente.

    Mi ha fatto comunque piacere che Giorgio Nardone mi abbia scritto perché era da tempo che cercavo un confronto con lui. Nella sua e-mail mi dice: «Credo che il dibattito scientifico lo possiamo fare nelle sedi adeguate e sono pronto a dibattere con te su qualunque livello». Colgo quindi questa occasione per discutere alcuni aspetti della “Terapia Breve Strategica”, sperando che le mie riflessioni possano interessare anche altri, e che lo stesso Nardone intervenga per criticare le mie posizioni nel caso le ritenesse sbagliate. Per me le critiche, anche dure, sono salutari, permettono di riflettere e a volte di modificare le proprie idee.

    Comincio facendo due piccole osservazioni sulla e-mail che mi ha inviato privatamente. La prima è la seguente. Nardone, in risposta alle mie critiche, mi fa notare che il suo approccio «tra le altre cose è riconosciuto dal MIUR, considerato che da oltre 10 anni esiste la sua Scuola di specializzazione che abilita i suoi specializzati ad utilizzare la terapia breve strategica». Ritengo che questa argomentazione sia debole poiché non ha alcun valore nel dimostrare la validità o efficacia di un approccio psicoterapeutico. È ovvio che questa scuola è riconosciuta dal Ministero, ma il Ministero utilizza solo regole formali per i riconoscimenti, né potrebbe fare altrimenti. Non solo, il Ministero ha riconosciuto scuole di ogni tipo, tanto che adesso sta correndo ai ripari per cercare di essere più rigoroso (cosa peraltro non facile se non impossibile, dato che appunto può solo adottare regole formali, burocratiche; tanto si potrebbe discutere sui limiti della Legge 56/1989, questa non è la sede, ma se a qualcuno interessasse posso inviare alcuni documenti che affrontano in dettaglio questa problematica; vedi ad esempio Borsci, 2005; Galli, 1999, 2005).

    Mi sarei poi aspettato, e con questo vengo alla seconda osservazione che volevo fare, che Nardone entrasse subito nel merito delle mie argomentazioni, che erano precise, circostanziate: alludo ad esempio alla questione della ricerca scientifica, alla differenza tra ricerca clinica e ricerca sperimentale, alle ricerche fatte dalla sua scuola, alla metodologia impiegata, ecc. Trovo cioè un po’ auto-contradditorio da una parte dire «sono pronto a dibattere con te su qualunque livello» e dall’altra non farlo quando già io avevo mosso critiche precise che aspettavano solo che qualcuno rispondesse.

    Oltretutto, come dicevo, sono alcuni anni che io aspetto che Nardone risponda alle mie critiche, e solo adesso pare disposto a rispondere (il che non può che farmi piacere). Infatti nel n. 3/2005 di Psicoterapia e Scienze Umane io avevo pubblicato un articolo (Migone, 2005b) in cui criticavo in dettaglio il concetto di terapia “breve”, che è un costrutto fondante dell’approccio della scuola di Arezzo, e il 23-9-2005 avevo mandato una e-mail al Centro di Terapia Strategica di Arezzo per chiedere se vi fosse interesse a inviare un intervento di dibattito critico da pubblicare nel numero seguente della rivista. Giorgio Nardone mi rispose il 6-10-2005 con una e-mail molto gentile, scusandosi del ritardo con cui mi rispondeva, e dicendo che era disposto a intervenire. Ne fui molto contento, e gli risposi lo stesso giorno, restando in attesa del suo contributo. Però non ne seppi più niente, il suo contributo non arrivò mai, non so perché, né lui mi mandò un’altra e-mail per spiegarmi il motivo. Un dibattito comunque avvenne lo stesso dato che, prima che Nardone mi rispondesse, un suo collega mi mandò un contributo a cui risposi in un dibattito (Migone, 2005c) che fu pubblicato nel n. 4/2005 (è a questo dibattito a cui facevo riferimento nel mio commento). Io non so se Nardone e quel suo collega si siano sentiti a proposito del contributo da inviare, o se Nardone lo avesse delegato a intervenire al suo posto, perché non ho più sentito Nardone, e nessuno dei due ha mai fatto riferimento all’altro. Mi è dispiaciuto che Nardone non abbia fatto seguito alla sua intenzione di inviare un contributo (nella sua e-mail del 6-10-2005 diceva: «Sarà un piacere contribuire alla discussione critica sulle terapie brevi. A presto»), sono rimasto comunque contento che un altro collega del suo Centro avesse mandato un contributo perché mi ha permesso di discutere con lui.

    Ebbene, cosa dicevo in quel mio articolo del 2005? Affrontavo di petto il concetto di “terapia breve” muovendo critiche molto precise (che tra l’altro non riguardavano solo la “Terapia Breve Strategica”, ma tutti gli approcci che utilizzano il termine “breve” per caratterizzare il proprio approccio). Riassumere qui tutti i passaggi di quel mio contributo non è facile e, come dicevo, lo mando molto volentieri a chiunque me ne faccia richiesta (basta che mandi una e-mail al mio indirizzo che è migone@unipr.it ). Già nel mio commento accennavo ad alcuni passaggi della mia critica, e provo qui a riassumerne alcuni.
    Il concetto di terapia breve come minimo contiene vari fraintendimenti e contraddizioni. Ad esempio: se veramente possediamo una tecnica capace di rendere le terapie molto brevi, che bisogno c’è di specificarlo all’inizio nel nome della tecnica, o dicendo al paziente che la terapia sarà breve? Ogni terapia deve essere più breve possibile, altrimenti si assume che altri approcci facciano apposta ad allungare le terapie, senza alcuna necessità e quindi a danno dei pazienti (e questo va dimostrato, anche a proposito di “diffamazioni”, in un certo senso). Come accennavo nel mio commento, bisogna distinguere tra terapeuti “brevi” e “bravi” (infatti il titolo di quel mio articolo era: “Terapeuti ‘brevi’ o terapeuti ‘bravi’? Una critica al concetto di terapia breve”): i terapeuti “bravi” sono quelli che terminano una terapia in breve tempo perché hanno una tecnica migliore (oppure che trattano pazienti che a loro volta possono essere definiti, per così dire, “bravi”, cioè che hanno disturbi più facilmente trattabili – a parte questo, se esiste veramente questa tecnica migliore non si capisce perché debbano praticarla solo i terapeuti “brevi” e non tutti gli terapeuti del mondo); i terapeuti “brevi” invece non è chiaro cosa siano, dato che pare che debbano essere brevi a tutti i costi anche quando il paziente richiede più tempo per essere trattato, quindi non curano bene il paziente, oppure sono terapeuti con una tecnica limitata dato che sanno trattare solo pazienti facili, cioè che migliorano in breve tempo (ammesso che questi pazienti esistano e che sia possibile diagnosticarli all’inizio della terapia, e questa è un’altra delle contraddizioni che discutevo nel mio articolo). Questi terapeuti “brevi” quindi non sarebbero “bravi” (cioè la loro tecnica non sarebbe adatta per un vasto range diagnostico).

    Un’altra implicazione di questa mia critica è la differenza importante che esiste tra una “terapia breve” e una “breve terapia”, che, come si può facilmente intuire, sono due cose completamente diverse: infatti, l’unica definizione possibile di “terapia breve”, dal punto di vista concettuale e operazionale, è che venga stabilito all’inizio della terapia, come regola di base del setting, che la terapia terminerà entro un certo tempo o numero di sedute, altrimenti non è possibile distinguere una terapia che per vari motivi risulta “breve” senza che il terapeuta si definisca “terapeuta breve” (cioè che si comporta come quasi tutti gli psicoterapeuti del mondo, ovvero fa del suo meglio per aiutare il paziente nel migliore dei modi e nel più breve tempo possibile senza dirgli che fa una “terapia breve” con tutte le ovvie implicazioni che cioè comporta) da una terapia che invece risulta breve perché ciò è stato deciso prima che inizi la terapia, indipendentemente dai risultati raggiunti (in quest’ultimo caso però non si possono distinguere, col gioco di parole che ho proposto, i terapeuti “brevi” da quelli “bravi”; resta possibile, beninteso, che un terapeuta breve sia anche bravo, però in questo caso non si riesce assolutamente a capire come mai dovrebbe definirsi “breve” e non semplicemente “bravo”, a meno che non voglia appunto utilizzare il temine “breve” a scopi propagandistici, suggestivi, ecc., come ho spiegato approfonditamente nel mio articolo; in altre parole, ritengo che l’aggiunta del termine “breve” al nome di una tecnica psicoterapeutica sia fuorviante perché distoglie l’attenzione da quegli aspetti specificamente tecnici per cui una terapia è di fatto superiore a un’altra, aspetto questo che è il più importante).

    Mi rendo conto però che non posso continuare in queste mie argomentazioni perché renderei questo mio scritto troppo lungo, e di nuovo invito chiunque fosse interessato a scrivermi per farsi mandare quel mio articolo. Esposi queste riflessioni per la prima volta in una conferenza che tenni a New York nel 1982, ben 28 anni fa, e da allora le presentai in molte occasioni, ridiscutendole più volte e convincendomene sempre di più, senza mai trovare un collega che sapesse trovare in esse una contraddizione o un errore logico, cosa questa da un certo punto di vista mi deluse molto perché mi diede l’impressione di non trovare mai interlocutori validi. Neppure quel collega della scuola di Arezzo che inviò un intervento in quel dibattito seppe entrare nel merito delle mie argomentazioni, ovviamente a mio parere, e le fraintese completamente. Riuscirà Giorgio Nardone a farmi il regalo che nessuno è riuscito farmi in tutti questi anni, cioè a criticarmi in modo preciso, argomentato, trovando contraddizioni nel mio discorso?

    Quello che voglio sottolineare insomma è l’effetto di propaganda che si crea attorno a certe tecniche psicoterapeutiche che si mettono sul mercato in un determinato modo, e che ottengono consensi appunto sulla base di questa immagine che si sono creata, immagine che a mio parere non corrisponde alla reale efficacia della tecnica (e, come ho detto, l’articolo di cui mi era chiesto un commento, dove la “Terapia Breve Strategica” compariva per prima, era un esempio di questo fenomeno; questa mia critica ovviamente non è rivolta solo alla “Terapia Breve Strategica”, ma a tantissime altre scuole che seguono la sessa logica di propaganda scorretta, ovviamente a mio parere).
    Ma per non ripetermi, e anche per fare prima, riporto ora alcuni brani del mio intervento nel dibattito pubblicato sul n. 4/2005 di Psicoterapia e Scienze Umane (riporto questi brani integralmente, l’unica modifica che ho fatto è quella di sostituire sempre il nome del collega a cui mi rivolgevo con “il mio interlocutore”, infatti non mi interessa assolutamente personalizzare il dibattito, cioè rivolgermi alla persona, ma solamente alle idee; ho inoltre aggiunto un paio di “Note della Redazione” indicate con N.d.R.):

    < <(…) Sembra che il mio interlocutore dica che, dato che al mondo esistono terapie lunghe, è legittimo definirsi terapeuti brevi se si vuole accorciarle. D’accordo, ma, se questa non vuole essere solo una tautologia, da una parte ciò presuppone che quei terapeuti a cui capita di fare terapie lunghe fanno apposta a farle lunghe anche se potrebbero farle brevi; dall’altra non si capisce la differenza – per riprendere il titolo del mio articolo – tra terapeuti “brevi” e “bravi”. In altre parole, come fa un terapeuta ad essere bravo e quindi breve? Secondo il mio interlocutore , utilizzare – come avrei fatto io – «artifici razionalistico-dimostrativi tesi a disconoscere la legittimità metodologica della terapia “breve” è un’operazione funambolica» (p. 534). Il mio interlocutore non spiega se per lui “funambolica” significa “sbagliata” o invece solo “giusta ma che richiede un po’ di attenzione per essere capita”, ad ogni modo mi dispiace di non essere stato capito, perché la «legittimità metodologica» è proprio quella che avevo cercato di approfondire. Dice poi che questa mia «operazione funambolica» non è «da sottovalutare, visto che la visione della psicoterapia come “se non è profonda è inefficace, se è breve non è profonda” a tutt’oggi pervade il pensiero contemporaneo» (ibid.). Può darsi benissimo che questo pregiudizio sia diffuso, ma io non ne avevo parlato (anche se vi sono molti dati di ricerca empirica al riguardo, quindi non “pregiudizi” [vedi ad esempio Westen et al., 2004, pp. 12-14]). Molti fanno terapie brevi o brevissime, questo non è un problema, ed è ben noto che Freud faceva analisi di una seduta o di poche sedute (senza bisogno di definirsi breve), ma, a parte questo, io facevo discorsi completamente diversi. (…) A questo punto il mio interlocutore accenna al suo approccio, quello di terapia «breve strategica» [corsivo nell’originale, pp. 534 e 535]. Mi fa piacere quindi avere questa occasione di confronto. Dice che va combattuto quello che viene definito “il pregiudizio psicoanalitico”, che sarebbe basato «su due rigidi presupposti metodologici secondo cui i fenomeni di cambiamento psicologico avvengono (a) attraverso una faticosa ricostruzione archeologica del passato e (b) modificando, mediante esperienze correttive all’interno della seduta, l’interazione di transfert che il paziente ha con il terapeuta» (p. 535). È vero che la psicoanalisi considera importante il passato e anche le esperienze correttive (se vogliamo, la psicoanalisi dice molto di più in termini di fattori curativi, ma qui è secondario). Ad ogni buon conto, questo «pregiudizio psicoanalitico» – continua il mio interlocutore – «si concretizza nel giudicare impossibile e inefficace, perché non profonda, qualsiasi altra prassi terapeutica che non sia quella psicoanalitica» (ibid.). Nel mio discorso, la dicotomia profondo/superficiale non è mai entrata, per me esisteva solo il cambiamento in qualunque modo lo volesse intendere. Dice poi che questo pregiudizio «arriva fino all’assurdo logico di negare una realtà perché non concorda con la teoria» (ibid.), e cita Hegel. In quali passaggi del mio articolo nego la importanza della realtà? Mi piacerebbe che fossero stati indicati. Critica poi il concetto di «analisi interminabile» (ibid.), e questo è un altro fraintendimento. Ritengo che qui il mio interlocutore confonda l’analisi come processo con l’analisi come terapia: l’analisi come processo psicologico può esserci o non esserci (sia in terapia che fuori dalla terapia, se è per questo), può essere continuata dopo la terapia sotto forma di autoanalisi ed è interminabile per sua natura (sarebbe come dire che uno dovrebbe smettere di ragionare, o di riflettere), mentre la terapia ovviamente può terminare. Mi colpisce che il mio interlocutore abbia confuso queste due cose, tanto che qui, se mi è permesso, sembra che sia lui, non io, a farsi trascinare da una ideologia che gli fa dire qualunque cosa purché sia anti-psicoanalitica. Riprendendo poi il paradosso di Achille e la tartaruga, il mio interlocutore critica l’idea che la terapia consista solo in «un avvicinamento approssimato e mai definitivo verso il processo di guarigione» (p. 535): ma questa idea non appartiene solo alla psicoanalisi, appartiene alla psicologia, alla medicina, alla biologia, alla scienza in generale. Non vi è una separazione netta tra salute e malattia, si tratta di un continuum di variabili dimensionali, a meno che non si utilizzi solo il DSM-IV il cui sistema categoriale – come hanno sempre detto esplicitamente anche gli stessi autori di questo manuale diagnostico e “statistico” – serve essenzialmente a scopi di ricerca dato che la realtà non è certo categoriale. È ovvio però che questo non impedisce di terminare una terapia, semmai la si termina ancor più facilmente grazie al concetto processuale di “analisi interminabile” (vedi in proposito l’articolo di Paul Parin “La fine dell’analisi terminabile” su Psicoterapia e Scienze Umane, 2/1975, pp. 1-7). Ben più arduo invece mi sembra terminare una terapia se l’obiettivo è la “guarigione definitiva”, soprattutto se non si riconosce un continuum tra salute e malattia e si afferma che «il fenomeno del cambiamento è un fenomeno tutto-o-nulla, digitale, discontinuo, non graduale» (p. 535). Il mio interlocutore accenna inoltre alla «epistemologia sistemico-costruttivista» e ai «concetti cardine dell’approccio strategico», secondo cui «il disagio psicologico è il risultato del sistema percettivo-reattivo che la persona si costruisce attivamente nell’interazione con se stesso» e così via (per brevità, vedi p. 535). Mi sembra che questi concetti, al di là delle parole usate, facciano parte di quasi tutti gli approcci psicoterapeutici, psicoanalitici e non, ma nel paragrafo seguente il mio interlocutore spiega dove risiede una «eretica implicazione di tale punto di vista» rispetto ad altri approcci: «Lo stato precedente del sistema non predice il suo stato futuro. Ciò che “spiega” il sistema è unicamente il suo stato attuale, le regole del suo funzionamento nel qui e ora» (ibid.). Questo è sicuramente un concetto forte dell’approccio strategico, che lo differenzia da quello psicoanalitico secondo il quale il passato può avere (ma – si badi bene – può anche non avere) una grande importanza. Riflettiamo su questo punto. Se, come viene affermato, un sistema è spiegato «unicamente» dal suo stato attuale, abbandoniamo un’ottica sistemica (su cui però l’approccio strategico dovrebbe basarsi) nella misura in cui eliminiamo a priori dal sistema (ideologicamente?) una variabile, quella del passato (tanti anni fa mi occupai della terapia sistemica: per una mia critica più dettagliata, vedi Migone, 1980, 1990, 1995 cap. 2). Come è noto, invece, la psicoanalisi in questo senso è sempre stata “sistemica”, dato che afferma che così come il passato può influenzare il presente, il presente può influenzare il passato (vedi il concetto, tanto caro a Freud, di Nachträglichkeit). Non riesco a capire questo bisogno di eliminare la variabile del passato, tanto più che l’importanza straordinaria del lavoro sul passato per risolvere una patologia attuale è sostenuta non da ideologie o pregiudizi, ma da una enorme mole di dati di ricerca empirica. Si pensi solo alle moltissime ricerche sul Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD), o al lavoro sul lutto dove per esempio molti approcci psicoterapeutici, anche cognitivisti, sostengono l’importanza del ricordo, del racconto e della elaborazione del passato allo scopo di produrre un cambiamento nel breve periodo, mentre se questo lavoro sul passato non viene fatto si allunga il lutto patologico e quindi la terapia. Non dimenticherò mai, a questo proposito, una terapia di Davanloo [un noto “terapeuta breve”, N.d.R.] in cui migliorò in poche sedute il grave lutto di una madre che aveva perso il bambino, spingendola a ricordare e ripetere più e più volte l’incidente, quasi forzandola con la sua tecnica confrontativa, col risultato di produrle una rapida fuoriuscita da un lutto dolorosissimo che altrimenti sarebbe durato molti mesi o anni; ugualmente, ricordo il caso raccontato di un terapeuta cognitivo-comportamentale la cui tecnica – altrettanto utile e a mio parere con lo stesso meccanismo di azione sottostante al di là dell’apparente diversità – consisteva nel far “ricordare, ripetere e rielaborare” [l’allusione qui è al titolo del noto saggio di Freud del 1913, N.d.R.] ripetute volte un lontano episodio molto doloroso, cosa che permise alla paziente di reintegrarlo nella sua personalità globale una volta “decondizionata” dall’angoscia collegata. Nel passaggio seguente il mio interlocutore ribadisce che non è detto che «disagi maturati lungo un arco di tempo molto esteso necessitino obbligatoriamente, per essere risolti, di un altrettanto lungo trattamento terapeutico» (p. 536): sono pienamente d’accordo, infatti non lo avevo affermato e anzi lo avevo dimostrato con un caso clinico. Il vero problema è quali interventi mettere in atto per aiutare meglio (e quindi prima) i pazienti, e quale teoria regge questi interventi. Nel passaggio successivo dice che «un’altra eresia» dell’approccio sistemico-costruttivista è che «la prospettiva epistemologica fonda anche la posizione deontologica»: questa consisterebbe nell’assumersi «piena responsabilità di tutto ciò che avviene all’interno della terapia, e quindi anche la responsabilità di influenzare direttamente il paziente al fine di provocare un cambiamento» (ibid.). Si sta dicendo che gli altri approcci non si assumono questa responsabilità, o che hanno l’obiettivo di “non provocare un cambiamento”? Viene poi affermato che per i terapeuti strategici l’impegno è di aiutare il paziente in breve tempo perché se «entro questo spazio limitato di tempo non si ottiene alcun significativo cambiamento, il terapeuta strategico interrompe la terapia, poiché continuandola si renderebbe solo complice del mantenimento e della persistenza del problema» (ibid.). Ritengo che questa affermazione vada esaminata attentamente. Esistono pazienti al mondo che sono così gravi da non guarire nelle poche sedute (in media, come dice dopo, «7 sedute») impiegate dall’approccio strategico? I casi sono due: o esistono o non esistono. Se non esistono, cioè se i pazienti sono tutti curabili in poche sedute, potrebbero essere appunto trattati dai terapeuti strategici. Non mi interessa qui stabilire se questa ipotesi sia vera, ma solo analizzarne le implicazioni. Se è vera, allora tutta le ricerche epidemiologiche sono false, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ci ha raccontato bugie, quasi tutti i terapeuti del mondo e gli operatori dei Centri di Salute Mentale che quotidianamente si confrontano nel territorio con patologie che loro percepiscono come gravi e spesso con tendenza cronicizzante sono allucinati. Tra l’altro, se questa ipotesi è vera – e se il mio interlocutore qui mi permette di continuare in questa amichevole ironia – allora ne consegue che almeno questi operatori devono essere matti, e come possono essere curati? Forse con la terapia breve strategica, ma temo che ad Arezzo le liste di attesa si allungherebbero un po’, dovendo accogliere quasi tutti gli operatori della salute mentale del mondo. Se invece è vera l’altra ipotesi, cioè se esistono pazienti che sono così gravi da non guarire in poche sedute, la domanda è chi li cura, dato che i terapeuti strategici per deontologia non li curano. Ma allora i terapeuti strategici non sono bravi, sono solo brevi. Cioè supponiamo (a scanso di equivoci, sottolineo che è solo una ipotesi) di avere prove empiriche che esistono pazienti non curabili in 7 sedute ma in 100 sedute: non verrebbe data loro questa possibilità. Il lavoro fatto dalla 8a alla 100a seduta non servirebbe ad aiutarli perché il terapeuta strategico sa già che dall’8a alla 100a seduta «si renderebbe solo complice del mantenimento e della persistenza del problema» (e questo nonostante vi siano prove empiriche contrarie). Con una asserzione a priori, cioè con un pregiudizio (ideologico?), si dichiara che la collusione paziente-terapeuta (una dinamica peraltro ben studiata dalla psicoanalisi, fin da quando l’approccio strategico non era ancora nato) non è una ipotesi possibile, ma l’unica possibile se la terapia si allunga (tra l’altro, andrebbe definito in modo esatto il numero di sedute dopo il quale si innescherebbe questa collusione, altrimenti cadremmo in un’ottica dimensionale, rifiutata dagli strategici). A questo punto il mio interlocutore fa un’altra affermazione importante, forse il più grande fraintendimento del mio articolo, però coerente con le affermazioni precedenti: dice, riferendosi al caso clinico che avevo descritto a pp. 364-365, che «è profondamente scorretto sul piano etico e personale farsi pagare da un paziente settimanalmente per 4 anni senza “un tangibile miglioramento nella sua vita”» (p. 536). L’ipotesi interpretativa da me fatta in quel caso può essere giusta o sbagliata, ma era su quella ipotesi che io volevo ragionare, ed avevo anche sottolineato: «Invito il lettore a prestare attenzione non tanto ai dettagli clinici o alla loro plausibilità (si potrebbe immaginare che siano esempi inventati, l’importante è il loro valore euristico), ma alle implicazioni teoriche sottostanti» (p. 361). Secondo questa ipotesi, sono stati proprio quei 4 anni che hanno permesso alla paziente di fare un importante passo avanti. Ripeto che non ha importanza essere o non essere d’accordo su questa ipotesi, importa solo ragionare come se essa fosse vera (si ipotizza cioè che al mondo esistano pazienti che – come dicevo prima – non guariscono con solo 7 sedute ma ad esempio in 100). Il mio interlocutore non dice che non è d’accordo con questa ipotesi, cioè non entra nel merito della dinamica del caso specifico magari offrendo un’ipotesi alternativa per spiegare il miglioramento, dice solo che comunque non è etico farsi pagare per 4 anni, e quindi anche nel caso che essi servano (questa era l’ipotesi). Sembrerebbe che secondo la deontologia del terapeuta strategico è meglio lasciare il paziente ammalato non per 4 anni, ma per tutta la vita, con costi ancor maggiori – e, come dicevo, in questo passaggio il mio interlocutore è coerente con quanto ha detto prima (salvo poi ammettere «una certa elasticità alla durata della terapia» – ma non si era parlato di «tutto-o-nulla»?). Nel penultimo paragrafo, infine, vengono fatte affermazioni che non possono essere trascurate. Queste riguardano la ricerca empirica, che mi è stata sempre a cuore: sono stato tra i primi in Italia ad interessarmene, con alcuni colleghi ho fondato la sezione italiana della Society for Psychotherapy Research (SPR), su Psicoterapia e Scienze Umane abbiamo pubblicato articoli importanti di questo settore e così via (per brevità, vedi Parloff, 1985; Chambless & Ollendick, 2001; Westen et al., 2004; Migone, 1988 pp. 57-60, 1995 pp. 187-197 [pp. 210-228 della nuova edizione del 2010, N.d.R.], 1996, 1998, 2005a). Mi fa piacere che il mio interlocutore sostenga che nell’uso delle strategie «l’unico criterio di sopravvivenza è l’efficacia» (p. 536), cioè che sia in favore della ricerca empirica. Sono molto stupito però che qui parli di «eresia» dell’approccio «sistemico-costruttivista», dato che la ricerca empirica è perseguita dal movimento psicoterapeutico da tanti anni, movimento nel quale mi sembra che i terapeuti strategici non siano molto presenti. Sono andato a congressi internazionali, europei e nazionali dell’SPR, e non mi è mai capitato di vedere ricerche presentate dai terapeuti strategici, né ho visto loro lavori pubblicati sulle riviste riconosciute come qualificate dalla comunità scientifica del settore. Né il mio interlocutore cita nella sua bibliografia nessun articolo di ricerca empirica. Ho pensato che fosse una svista, per cui ho voluto chiederglielo personalmente, e mi ha detto che due anni fa, in occasione di un loro primo convegno europeo, hanno fondato una rivista on-line (http://www.centroditerapiastrategica.org/network%20journal%20content.htm ) il cui primo numero contiene gli Atti di quel convegno, e il secondo numero è previsto per il dicembre 2005 con gli Atti del secondo convegno europeo avvenuto nel novembre 2005, e poi ha detto che essendo la rivista di recente creazione la maggior parte delle loro ricerche è contenuta su libri. Rimango perplesso, nel senso che chi ha un po’ di dimestichezza col campo della ricerca, anche minima, sa che i lavori devono essere pubblicati da riviste internazionali indipendenti e dotate di referee, non su riviste o libri pubblicati dal gruppo di appartenenza, che hanno ben poco valore in un campo come quello della psicoterapia che è così complesso e pieno di difficoltà metodologiche (si pensi solo al bias dovuto alla researcher allegiance, nel senso che è stato dimostrato che le ricerche su tecniche terapeutiche condotte da chi è fautore di quelle tecniche hanno molta più probabilità di produrre risultati positivi – Luborsky et al. [2002] ad esempio hanno trovato che quasi il 70% della variabilità degli effect size di confronti tra psicoterapie è dovuto alla allegiance; vedi anche Wampold, 2001). Ho comunque guardato le pubblicazioni on-line indicate dal mio interlocutore e mi sono sembrate molto interessanti, ma per la maggior parte sono di tipo teorico o clinico, non di ricerca empirico-quantitativa e senza alcuna analisi statistica né gruppi di controllo, manualizzazione, ecc. Certamente potrei sbagliarmi (i lavori erano molti e non sono riuscito a guardarli tutti), ma ho l’impressione che si confonda la ricerca in psicoterapia con la “ricerca clinica” (Migone, 2004). Questo è un peccato, soprattutto perché si parla di «statistiche relative ad un gruppo limitato di casi, 3.484 pazienti, visti negli ultimi anni», di cui sarebbe già stato fatto un follow-up di 1 anno «in tutti i casi» (p. 536). Questo campione è di proporzioni enormi e fa invidia ai principali centri di ricerca di tutto il mondo, dotati di ricchi finanziamenti e dell’appoggio delle più prestigiose università (il mio interlocutore tra l’altro, nel dire che questo è un gruppo «limitato» di casi, rischia di essere controproducente perché può tradire una sua poca conoscenza della letteratura del settore: un campione di 3.484 pazienti non è «limitato», ma spaventosamente grande). Vengono citate anche percentuali di risultati positivi, sono colpito ad esempio dalla percentuale di trattamenti efficaci del «77% nel caso di presunte psicosi» (ibid.): ma cosa significa «presunte»? Erano presunte dall’inviante o dal terapeuta? Si tratta di diagnosi che si sono poi rivelate sbagliate (cioè che solo all’inizio apparivano come psicosi) o di diagnosi che sono rimaste incerte? Mi sembra improbabile che il terapeuta non abbia saputo fare diagnosi (anche perché pare non abbia avuto dubbi nel diagnosticare disturbi fobici, guariti per il 95%, e ossessivi, guariti per l’89%), per cui potrebbe significate che erano diagnosi che in seguito si sono rivelate errate, ma allora che senso ha indicare che il 77% di diagnosi errate di psicosi sono state “trattate efficacemente”? Da cosa se non erano psicosi? Dalla diagnosi errata? E il rimenante 23% ha mantenuto una diagnosi presunta? La mia sensazione insomma è che, per il modo con cui il mio interlocutore espone qui i risultati delle ricerche, il gruppo di Arezzo sia ancora agli inizi del suo cammino nel mondo della ricerca. Si ha l’impressione di una certa approssimazione, e soprattutto di una non consapevolezza delle problematiche metodologiche (mi vengono in mente le ricerche di Mara Selvini di anni fa sui “giochi psicotici”, le quali, seppur di sicuro interesse euristico – come peraltro estremamente interessanti ritengo siano le ricerche cliniche del Centro di Terapia Strategica di Arezzo – non a caso ricevettero grosse stroncature dagli ambienti di ricerca statunitensi, mi ricordo ad esempio un articolo di Carol Anderson sul Journal of Marital and Family Therapy del 1986). Un ricercatore in psicoterapia non si esprimerebbe mai in questi termini, sarebbe più modesto, scevro da qualunque trionfalismo, circoscritto, preciso nella definizione della metodologia, del campione, del sistema diagnostico impiegato, dei gruppi di controllo, delle scale di valutazione usate, della analisi statistica ecc. Il mio interlocutore certamente non vorrebbe che le ricerche sulla validità della psicoanalisi o di altri approcci fossero esposte nello stesso modo, se non altro perché il campione dei pazienti “guariti” da questi altri approcci verrebbe elevato all’ennesima potenza. A mio parere, poi, queste semplificazioni rischiano di illudere i giovani in formazione. Ringrazio di nuovo il mio interlocutore per essere intervenuto permettendo questo confronto serrato sulle rispettive posizioni. Mi piacerebbe molto che (…) continuasse questo dibattito presentando una terapia ai curatori rubrica “Casi clinici” per una possibile pubblicazione, il cui scopo, come è scritto nella presentazione, «è quello di facilitare la verifica della coerenza tra prassi clinica e riferimento teorico»: in questo modo i lettori potrebbero vedere concretamente le strategie messe in atto per modificare una situazione clinica nel modo migliore e più breve possibile e capire meglio la loro giustificazione teorica, che potrebbe essere poi discussa e chiarita da colleghi di diversi orientamenti, terapeuti strategici inclusi. Nelle mie argomentazioni ho cercato di evidenziare alcune possibili contraddizioni e di utilizzare una prospettiva storico-critica, cioè di vedere – nella tradizione di Psicoterapia e Scienze Umane – come certe posizioni si inseriscono all’interno della storia delle idee in psicoterapia. Sono convinto che, al di là delle possibili divergenze sul modo di teorizzare o concettualizzare un caso clinico, abbiamo molto da imparare osservando le intuizioni cliniche e le strategie messe in atto da colleghi appartenenti a tradizione diverse>> (Migone, 2005b, pp. 541-547).

    Terminata questa lunga citazione, non nego che mi piacerebbe continuare la mia discussione della tecnica di psicoterapia strategica, di cui mi sono sempre un po’ interessato da quando agli inizi degli anni 1970 seguii un corso di formazione a Milano presso quella che allora nel mondo era già nota come Milan school di terapia sistemica. Come è noto, la scuola di Milano, originata da Mara Selvini, a metà degli anni 1980 ebbe un certo ripensamento e attraversò una crisi teorica che le fece rivedere l’impostazione iniziale (che può essere definita “rigidamente strategica”) per avvicinarsi a posizioni che a me sembrano più equilibrate, e molto vicine alla tradizionale psicodinamica (come peraltro la scuola di Roma, guidata da Maurizio Andolfi, da tempo praticava). Il Centro di Terapia Strategica di Arezzo rimane quindi in Italia uno dei pochi centri di ricerca (ovviamente “clinica”, non sperimentale) che porta avanti questa bandiera, e per questo indubbiamente è interessante. La mia impressione però è che la terapia cosiddetta strategica (basata ad esempio su manovre e ristrutturazioni comportamentali, dialogiche, ecc.) possa essere anche molto efficace nel breve periodo, ma che possano esservi frequenti ricadute. Sono ben consapevole che questa mia affermazione lascia il tempo che trova perché non è dimostrata, è solo una impressione basata sulla mia esperienza personale (ad esempio sui casi che ho seguito, reduci da questa terapia, su quello che so di quella tecnica, ecc.), quindi, come dicevo nel mio commento, «conta ben poco perché potrebbe essere controbilanciata da altrettante esperienze uguali e contrarie» (infiniti cioè sono gli esempi di terapeuti di altre scuole che non ottengono i miglioramenti vantati). La ricerca empirica, seppur nei suoi limiti, può dirimere maggiormente la questione ma, come dicevo, la scuola di Arezzo non si impegna nella ricerca empirica così come altre scuole. Un’altra mia impressione, quando leggo lavori di colleghi strategici o li sento argomentare sulla loro tecnica, è quella di una certa ingenuità e poca sofisticazione a livello teorico (e, ripeto, mai ho avuto l’impressione che non fossero in buona fede); quando lessi ad esempio per la prima volta il classico testo Paradosso e controparadosso (Selvini et al., 1975), ebbi fortissima questa sensazione. Personalmente, sono convinto che non sia così difficile imparare e mettere in pratica le tecniche cosiddette strategiche o sistemiche, anzi, ritengo che esse dovrebbero far parte del bagaglio di ogni collega dotato di una minima cultura psicoterapeutica; il problema, ovviamente a mio parere, è che la psicoterapia è qualcosa di molto più complesso, cioè le variabili in gioco sono maggiori di quelle considerate dai colleghi che seguono questo approccio (e questa è una amara ironia, se si pensa che l’ottica “sistemica”, cioè che include il maggior numero di variabili, era uno dei concetti forti di questo approccio).
    Mi rendo conto che le considerazioni che ho appena fatto sono molto personali e andrebbero dimostrate o argomentate meglio. Ma non posso dilungarmi oltre, devo interrompere questo mio già troppo lungo scritto. Se però può interessare al lettore, rimando a una mia critica serrata alla terapia sistemica che scrissi alla fine degli anni 1970 appunto dopo quel mio periodo di formazione sistemica a Milano (Migone, 1979), e che recentemente ho ripubblicato nel 2010 come cap. 2 della nuova edizione di un mio libro del 1995. In quel contributo (che mando volentieri a chi me ne farà richiesta) spiegavo con maggiore dettaglio quali sono a mio parere alcuni limiti di questo approccio.
    Ringrazio di nuovo Giorgio Nardone che mi ha dato la possibilità di tornare su questi temi di cui mi ero occupato ormai più di trent’anni fa.

    Paolo Migone
    Condirettore di Psicoterapia e Scienze Umane
    http://www.psicoterapiaescienzeumane.it
    Via Palestro, 14
    43123 Parma
    Tel./Fax 0521-960595
    E-Mail: migone@unipr.it

    Bibliografia:

    Anderson C.M. (1986). The all-too-short trip from positive to negative connotation. Journal of Marital and Family Therapy, 12, 4: 351-354.
    Bartoletti A. (2005). Achille o la tartaruga? Una critica al concetto di terapia open-ended: la prospettiva della Terapia Breve Strategica. Psicoterapia e Scienze Umane, 4: 534-537.
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    Galli P.F. (1999). Formazione psicoterapeutica e docimologia della sottomissione (Editoriale). Psichiatria e Psicoterapia Analitica, 18, 2: 106-109. Anche in: Psicoterapia e Scienze Umane, 2005, XXXIX, 2: 224-229.
    Galli P.F. (2005). Piccoli mostri crescono: scuole di psicoterapia, ECM, illusioni di controllo. Psicoterapia e Scienze Umane, XXXIX, 2: 223-224.
    Luborsky L., Rosenthal R., Diguer L., Andrusyna T.P., Berman J.S., Levitt J.T., Seligman D.A. & Krause E.D. (2002). The Dodo bird verdict is alive and well – mostly. Clinical Psychology: Science and Practice, 9, 1: 2-12 (Commentaries [pp. 13-34]: D.L. Chambless; B.J. Rounsaville & K.M. Carrol; S. Messer & J. Wampold; K. Schneider; D. Klein; L. Beutler).
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    Migone P. (1980). Introduzione a una critica della terapia relazionale. Psicoterapia e Scienze Umane, XIV, 1: 54-76 (una diversa versione, del 1987, è sul sito Internet: http://www.psychomedia.it/pm/modther/probpsiter/ruoloter/rt46-7tf.htm).
    Migone P. (1982). “Short-term dynamic psychotherapy from a psychoanalytic viewpoint”. Conferenza tenuta alla Society of Medical Psychoanalysts di New York il 10 novembre 1982, poi pubblicata in The Psychoanalytic Review, 1985, 72, 4: 615-634. Una versione italiana: Sulla psicoterapia dinamica breve. Psicoterapia e Scienze Umane, 1982, XVI, 4: 59-82.
    Migone P. (1988). Le psicoterapie brevi ad orientamento psicoanalitico: origini storiche, principali tecniche attuali, discussione teorico-critica, ricerche sull’efficacia, formazione. Psicoterapia e Scienze Umane, XXII, 3: 41-67.
    Migone P. (1990). La crisi di identità della teoria sistemica. Prospettive psicoanalitiche nel lavoro istituzionale, VIII, 2: 133-146.
    Migone P. (1995). Terapia psicoanalitica. Seminari. Milano: FrancoAngeli. Nuova edizione: 2010 (scheda su Internet: http://www.psychomedia.it/pm-revs/books/migone1a.htm).
    Migone P. (1996). La ricerca in psicoterapia: storia, principali gruppi di lavoro, stato attuale degli studi sul risultato e sul processo. Rivista Sperimentale di Freniatria, CXX, 2: 182-238. Edizione su Internet: http://www.psychomedia.it/spr-it/artdoc/migone96.htm. Una versione più breve ma aggiornata al 2006: Migone P., Breve storia della ricerca in psicoterapia. Con una nota sui contributi italiani. In: Dazzi N., Lingiardi V. & Colli A., a cura di, La ricerca in psicoterapia. Modelli e Strumenti. Milano: Raffaello Cortina, 2006, cap. 2, pp. 31-48.
    Migone P. (1998). Quale modello di scienza per la ricerca in psicoterapia? (Editoriale). Psichiatria e Psicoterapia Analitica, XVII, 2: 113-119. Una versione del 2001 su Internet: http://www.psychomedia.it/pm/modther/probpsiter/ruoloter/rt88-01.htm. Vedi anche Migone, 2004.
    Migone P. (2004). Che bisogno c’è di ricerca in psicoanalisi? Ricerca Psicoanalitica, XV, 1: 23-40. Vedi anche Migone, 1998.
    Migone P. (2005a). Editoriale. Psicoterapia e Scienze Umane, XXXIX, 1: 5-6.
    Migone P. (2005b). Terapeuti “brevi” o terapeuti “bravi”? Una critica al concetto di terapia breve. Psicoterapia e Scienze Umane, XXXIX, 3: 347-370.
    Migone P. (2005c). Risposta agli interventi di Osimo e di Bartoletti. Psicoterapia e Scienze Umane, XXXIX, 4: 537-548.
    Parin P. (1975). La fine dell’analisi terminabile. Psicoterapia e Scienze Umane, IX, 2: 1-7.
    Parloff M.B. (1985) Psychotherapy outcome research. In: Michels R. & Cavenar J.O. Jr., editors, Psychiatry. Philadelphia: Lippincott, vol. 1, chapter 11 (trad. it.: Stato attuale della ricerca sui risultati della psicoterapia. Psicoterapia e Scienze Umane, 1988, XXII, 3: 9-39).
    Selvini Palazzoli M., Boscolo L., Cecchin G. & Prata G. (1975). Paradosso e controparadosso. Milano: Feltrinelli.
    Wampold B.E. (2001). The Great Psychotherapy Debate. Hillsdale, NJ: Erlbaum.
    Westen D., Morrison Novotny K. & Thompson-Brenner H. (2004). The empirical status of empirically supported psychotherapies: assumptions, findings, and reporting in controlled clinical trials. Psychological Bulletin, 130: 631-663 (trad. it.: Lo statuto empirico delle psicoterapie validate empiricamente: assunti, risultati e pubblicazione delle ricerche. Psicoterapia e Scienze Umane, 2005, XXXIX, 1: 7-90. Per una sintesi di alcune parti, vedi: Migone P., Sono veramente efficaci le psicoterapie evidence-based?”. Il Ruolo Terapeutico, 2005, 98: 103-114; edizione su Internet: http://www.psychomedia.it/pm/modther/probpsiter/ruoloter/rt98-05.htm.).

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    • <Egregi professori, contano i fatti.
      Quando hai una figlia di 15 anni che sta morendo di anoressia, non ti interessa sapere quale sia la scuola di terapia migliore cui rivolgersi. Conta il risultato e che sia immediato. Non ti importa sapere da dove viene il sintomo e perchè si è istaurato, ma rimuoverlo e subito, perchè è prioritario tornare a mangiare.
      La scuola di Arezzo i fatti li fa e anche egregiamente.
      La gente sta bene, risolve i problemi nell'immediato.
      E' come la medicina che vuole sempre prevaricare l'omeopatia…non è diverso…. La gente è stanca della PSICANALISi ed anche delle altre terapie che non danno sollievo immediato al sintomo.
      IO NON SONO UN TECNICO, NON SONO UNA PSICOLOGA, SONO SOLO UNA MAMMA STANCA DI LEGGERE PER LA CURA DELL'ANORESSIA E' PREFERIBILE LA TERAPIA COGNITIVA COMPORTAMENTALE….
      Voi cattedratici dovreste cercare di lasciare campo libero anche alle nuove prospetttive psicologiche o forse vi fa paura che vi siano sottratti Pazienti che vengono in analisi da voi per dieci anni senza spesso avere trovato la soluzione ai propri problemi?
      MEDITATE

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  30. Ho letto il lungo e ben argomentato articolo di Paolo Migone. Non pretendendo di sviscerare gli argomenti addotti nel particolare, vorrei fare, comunque, alcune osservazioni:
    1)Ad un certo punto, si parla di terapeuti “brevi” e di terapeuti “bravi”. Ora, è intanto interessante riportare un rilievo di ricerca: le terapie brevi e ben riuscite sono più facili da ottenere con obiettivi ben focalizzati da raggiungere (disturbi di asse clinico soprattutto di spettro ansioso e depressivo e di lieve o media gravità), e in assenza di comorbilità con disturbi di personalità (asse II del DSM). In tutti gli altri casi, i tempi di intervento si allungano ed i risultati sono più incerti. Questo dicono le ricerche. Quindi, non vi è evidenza di trattamenti universalmente efficaci nel breve termine.
    2)Ad un certo punto, nell’intervento di Migone, si parla anche di “durata etica o non etica di una psicoterapia” e di “terapia causale o non causale” dei disturbi psichici.Mi vorrei concentrare su questo secondo punto, avendo già in altri interventi afforntato il primo. Le psicoterapie, a mio avviso, non sono necessariamente corrispondenti a quel tipo di interventi che, una volta apprestati, si rivelano essere definitivamente curativi. Si tratta, a mio avviso, di un equivoco storico, di un implicito ancora attivo anche in molti addetti ai lavori. Molti problemi psichiatrici, lo dicono le ricerche, vanno soggetti a recidive: la stessa cosa avviene anche per i problemi medici in stretto senso. Quindi, certi proclami miracolistici, ed una certa diffusa pretesa di assegnare alle psicoterapie quel significato di cura “causale” e non “sintimatica”, che possiamo far risalire a Freud, non è per niente realistica.Di solito, più grave è il problema e più tardi viene trattato, più è facile che si verifichino delle recidive, più o meno gravi, che il paziente può essere stato preparato ad affrontare, dal terapeuta, bene o meno bene: spesso, si rende comunque necessario un “richiamo” più o meno lungo della terapia.A questo proposito, aggiungeremo che molti protocolli terapeutici misurano la loro efficacia, verificando, tramite follow-up,l’abilità del paziente a “gestire le ricadute possibili” una volta terminato un primo ciclo di terapia. Tutto questo fa parte delle risultanze di ricerca e della stessa esperienza di chi lavora con soggetti psichiatrici: gli psicologi, tuttavia, ancora ne discutono. Ma, d’altra parte, si sa che gli psicologi faticano a mettere in discussione la psicologia ed il loro stesso operare. Il fenomeno è paradossale, visto che lo psicologo aiuta quotidianamente gli altri a scovare i propri impliciti, ma tant’è!
    3) Ad un certo punto, si parla anche dell’importanza del passato per predire le future reazioni del paziente. In questo caso, si scontrano due impostazioni, quella psicoanalitica e quella strategica, notoriamente antagoiste. A mio avviso, nella radicalizzazione degli atteggiamenti di scuola, ognuna delle due è in torto. Il sistema mente-cervello tende senz’altro a reiterare le sue modalità di funzionamento nel tempo. Quindi, ciò che lo ha caratterizzato nel passato tende ad avere buona probabilità di ripresentarsi anche nel futuro. Se si intende, dal punto di vista fisico, il sistema mente-cervello come sistema non lineare complesso, si tratta di una necessaria implicazione teorica. Tuttavia, il sistema può anche creare, ex novo, nuove modalità di elaborare e rappresentare l’esperienza, e questo lo mette nella condizione di formare e automatizzare nuove modalità di risposta, in antagonismo con quelle vecchie, agli eventi di esperienza: il risultato è, che la considerazione delle modalità tipiche di risposta agli eventi di un individuo implica anche la considerazione del suo passato, se si vuole intervenire terapeuticamene. Se poi la considerazione degli eventi passati di vita diventa la ricerca archeologica fatta dalla psicoanalisi classica, che si concentra nel cercare di scovare supposte “fissazioni” della libido, nella convizione che questo possa essere di per sé terapeutico, senza guardare affatto alla vita presente del soggetto se non per connetterla alla ricerca sul passato, allora gli approcci, basati sul riduttivo “qui e ora”, ne hanno ben donde a criticare. Tutto ciò, ribadendo che gli approcci basati sul qui e ora, ed esclusivamente rivolti alla prospettiva presente del paziente, sono a loro volta parimenti incompleti, per i motivi posti a premessa di questa riflessione.
    4) Il confronto di idee tra Migone e Nardone testimonia, a mio avviso, una volta di più l’indecenza culturale in cui consiste la cultura della psicoterapia in genere. E’ ben inteso: non perché l’indecenza riguardi Migone e Nardone, che senz’altro rispetto come colleghi, ma per il fatto che quello a cui si assite nel confronto tra scuole è un dialogo tra sordi, un dialogo viziato alla base dalla ideologia di scuola. Ma tant’è, gli psicologi non sanno fare altro che questo. E la psicologia annega nel discredito della restante parte della società.

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  31. Caro Nardone, sono passate più di sei settimane da quando ho raccolto il tuo invito a dibattere con te, ma finora non ho ricevuto alcuna risposta. È successo qualcosa? Ti prego di farmi sapere, perché non riesco a capire come mai non ti sei più fatto vivo. Ho pensato alle varie possibilità per cui non mi hai risposto, e nessuna mi pare convincente. Forse che tu non hai argomenti validi, cioè non riesci a trovare delle risposte alle domande che facevo? Escludo questa possibilità, perché le mie domande erano facili, di buon senso, ed è inverosimile che tu, con l’esperienza che hai, non te le sia mai poste prima, cioè non abbia mai pensato prima di adesso ai problemi che ponevo. Forse che tu intendi non rispondere come strategia, cioè vuoi ignorarmi come interlocutore, in una sorta di svalutazione nei miei confronti, non ritenendomi degno di una risposta? Questa potrebbe essere una motivazione con una sua logica, ma a ben vedere non può essere così perché avevi detto «sono pronto a dibattere con te su qualunque livello» (e lo avevi detto dopo che avevi già letto il mio primo commento, che sostanzialmente conteneva le stesse critiche). Forse che in queste sei settimane sei stato così impegnato che non hai avuto un attimo di tempo per rispondere? È possibile, ma se fosse così tu certamente, che sei una persona corretta, avresti mandato un messaggio per avvisare sia me che i lettori (anche loro perplessi per la mancanza di una tua risposta), dicendo che per mancanza di tempo eri costretto a posticipare la risposta. Forse che ti sei dimenticato di questo dibattito verso il quale ti eri dichiarato disponibile? È una ipotesi possibile, ma, nel caso tu ti fossi dimenticato, ritieni che potrebbe trattarsi di quel fenomeno che i ricercatori chiamano “motivated forgetting”? (e, secondo quest’ultima ipotesi, quale potrebbe essere la motivazione dietro alla eventuale dimenticanza?). Sono tutte ipotesi. Di fatto, non so come spiegare il motivo del tuo silenzio. Resto comunque in attesa, e spero che tu mi risponda. Ti mando intanto un cordiale saluto.
    Paolo Migone

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  32. Chiamato direttamente in causa rispondo all’intervento di Paolo Migone,
    Prima di tutto mi fa piacere che il collega Migone dopo avermi inviato personalmente le sue scuse per le sue affermazioni nell’intervento precedente che risultavano a dir poco diffamatorie nei confronti della mia persona e della mia Scuola, lo abbia fatto anche in questa sede. Questo già dimostra la loro inconsistenza e ciò avrebbe già chiuso ogni disputa ma, a quanto pare da quanto poi egli scrive dopo le dovute scuse, la sua “compulsione” alla arroganza appare irrefrenabile.
    Qui di seguito cercherò di rispondere alle critiche che il collega avanza nei confronti del mio lavoro.
    Innanzi tutto lo ringrazio per avermi paragonato a Lourdes per i pellegrinaggi di pazienti verso il mio Centro, poiché questo significa che comunque qualcosa di buono le persone trovano nel venire fin qui, non solo da tutta Italia ma bensì da tutto il mondo. Infatti la “legge del mercato” vale più di ogni sofisticato metodo di elaborazione dei risultati. Se, da oltre 20 anni le persone bisognose di risolvere i loro problemi invalidanti, continuano a rivolgersi ad un professionista in numero sempre maggiore, questo è la migliore prova della sua concreta efficacia. Se il metodo ed i risultati fossero fittizi, avrebbero potuto ingannevolmente produrre la processione di pazienti solo per un po’ di tempo, poiché poi il tam tam degli insoddisfatti inesorabilmente sfata le false promesse. Invece la nostra costumer satisfaction dei pazienti è in costante aumento, tanto da far sì di permettere anche ad oltre 100 collaboratori in Italia ed altrettanti all’estero di fruire di tale successo. Non a caso, nelle scorse settimane al 1° Convegno Mondiale di Terapia Breve Strategica e Sistemica, tenutosi a Chianciano Terme, sono giunti oltre 900 colleghi da 36 diversi Paesi. Ma ovviamente questo è solo effetto della mia “ingannevole comunicazione”, non certo invece dall’aver formulato un Modello di Psicoterapia vincente.
    Riguardo al paragone con il Dr. Di Bella e al fatto che come in quel caso si possono fare brutte figure all’estero, ricordo al collega che io sono l’autore italiano più tradotto. I miei testi, infatti, sono tutti editi non solo nelle maggiori lingue ma anche in quelle meno usuali come il Russo e il Giapponese ed alcuni testi come “L’arte del cambiamento”, “Psicosoluzioni” e “Paura, panico, fobie” sono best Sellers internazionali da decenni.
    Inoltre da molti anni sono costantemente invitato in tutto il mondo a tenere conferenze e seminari specialistici dove presento a colleghi il frutto delle ricerche svolte in campo clinico e l’esperienza maturata. Ho tenuto lezioni magistrali presso prestigiose Università da Oxford all’Università di Mosca. Così come presso il Centro di Terapia Strategica, giungono colleghi di ogni parte del globo ad imparare i modelli terapeutici da me formalizzati. Grazie a questo, attualmente, sono molte le sedi nel mondo della mia Scuola dove vengono attivati master clinici per la formazione di colleghi attraverso il modello di Psicoterapia Breve Strategica da me evoluto e migliaia i colleghi che applicano il mio Modello di terapia pertanto, o tutti coloro che apprezzano il mio lavoro nel mondo sono deficienti oppure si deve sospettare che chi denigra soffra un po’ di invidia.
    Comunque, se tale e convalidato successo di una persona e di un modello crea problemi a qualcuno questo lo lascio volentieri a lui. Come infatti scriveva Seneca: “le vette per loro natura attirano i fulmini”.
    Venendo alla teoria ed al metodo, sottolineo che, essendo nel solco della tradizione della Scuola di Palo Alto, del Pragmatismo e del Costruttivismo, il metodo per la ricerca in campo clinico da me adottato in linea con questa prospettiva, è quello della ricerca-intervento sul campo di stampo Lewiniano e non quello della ricerca sperimentale da laboratorio, né tantomeno quello basato su analisi statistiche e quantitative.
    Nel mio caso e dei miei collaboratori questa metodologia si è dispiegata in un lavoro di studio sistematico, rigoroso quanto creativo di tecniche terapeutiche idonee alla soluzione delle più importanti patologie psichiche e comportamentali.
    Studio e sperimentazione sul campo e con reali pazienti ! La messa a punto di un protocollo di trattamento specifico prevede: uno studio attento del problema e di tutte le strategie fino ad allora utilizzate per risolverlo, la messa a punto di nuove strategie o l’affinamento di quelle risultate funzionali; l’applicazione ad almeno 100 casi reali di tale disturbo. Se questo Modello terapeutico, dispiega una efficacia (ovvero la estinzione del disturbo misurata con la soddisfazione congiunta di paziente e terapeuta) in oltre il 70% dei casi ed una efficienza (misurata in termini di durata della terapia che rappresenta il rapporto costi/benefici) al di sotto delle 15 sedute, protocollo viene ritenuto valido e pertanto applicato a quel tipo di patologia. Per essere poi presentato, deve superare il vaglio della sua replicabilità da parte di terapeuti specializzati e della sua trasmissibilità in termini didattici (questa validazione nel nostro caso è anche trans culturale, ovvero applicato anche in culture differenti dalla nostra). Infine, deve mostrare predittività, ovvero: la capacità di prevedere gli effetti delle manovre incluse nella sequenza dell’intervento e deve avere capacità auto correttiva, ossia la proprietà di correggere i possibili errori nel corso della sua applicazione sulla base dei feedback ricevuti.
    Questo è ciò che io, al fine di mettere a punto sempre più evolute tecnologie, sulla scia di Popper e tutta la moderna epistemologia, riteniamo ricerca empirica e sperimentazione scientifica.
    I 28 libri pubblicati contengono, infatti, il frutto di questo lavoro, ovvero Protocolli specifici per le più importanti patologie che guidano il terapeuta ben formato a mettere in atto le strategie designate che sono una forma di avanzata tecnologia efficace, efficiente, trasmissibile, replicabile e predittiva.
    I risultati pubblicati nei testi fanno riferimento a casi trattati e controllati con follow up a distanza di tre mesi, sei mesi ed un anno dalla fine della terapia come richiede ogni buona pratica medica. Inoltre, la ricerca empirica di cui mi occupo richiede che i trattamenti siano videoregistrati per permettere il controllo del lavoro fatto e delle tecniche applicate e delle loro possibili evoluzioni, così come la loro dimostrazione. Oltre 15.000 sono i casi trattati presso mio Centro in 20 anni di attività, i dati pubblicati sono il risultato di questo documentabile lavoro. A questo possiamo aggiungere i dati internazionali presentati annualmente dai miei collaboratori che riguardano negli ultimi 10 anni altri 20000 casi.
    Se tutto questo non concorda con le teorie e metodi di Paolo Migone purtroppo, me ne cruccio poco e vorrei invitarlo ad evitare di essere troppo vicino all’affermazione di Hegel
    “Se i fatti non concordano con la mia teoria tanto peggio per i fatti”.
    La mia critica ai metodi di ricerca in psicoterapia a cui fa riferimento il collega sono ben esposti nei miei scritti ed in particolare nell’ultimo capitolo del DIZIONARIO INTERNAZIONALE DELLA PSICOTERAPIA che, insieme ad Alessandro Salvini, abbiamo curato. Questo saggio redatto insieme a Enrico Molinari, Gianluca Castelnuovo e lo stesso Salvini, mette in evidenza i limiti e i bias degli approcci cosiddetti Empirically supported e Common factors.
    Voglio sottolineare che al dizionario hanno contribuito i più importanti autori al mondo cosi come la stragrande maggioranza dei capi scuola Italiani e verrà pubblicato da Garzanti nel prossimo Febbraio nell’edizione italiana a cui seguiranno le altre edizioni straniere, come è nel caso di tutti i libri con la mia firma. E io sarei quello che fa fare brutte figure all’estero !
    Il Dizionario, opera fondamentale che vede al suo interno tutti i paradigmi e modelli della Psicoterapia attualmente presenti, è stato ideato con l’intento di risvegliare il dibattito e la ricerca dentro questa importante disciplina medico-psicologica. Questa è la maniera costruttiva di intervenire nel nostro campo, lascio agli altri le aggressioni e le dispute parrocchiali che servono solo a deteriorare un settore disciplinare che necessita invece di cooperazione e rispetto tra le sue tante diverse “anime” al fine di elevarne l’immagine.
    Tengo a sottolineare che avevamo invitato anche il Dr. Migone a presentare il suo contributo a questa Opera ma solamente lui e altre due persone “allergiche” al mio nome non hanno aderito.

    Da ultimo, considerate le ricorrenti accuse di non pubblicare articoli su riviste cosiddette scientifiche, invito i colleghi a consultare tra gli altri l’articolo su European Journal of Psycotherapy and Counselling Volume 12 nr.2 Giugno 2010, dal titolo “Advanced Brief Strategic Therapy: An overview of interventions with eating disorders to exemplifi theory and practise work”. In questa rassegna relativa ai protocolli di trattamento per i disordini alimentari nessuno dei referee ha mostrato le “sorprese reazioni di Migone” ai nostri risultati che mostrano come invalidanti patologie possono essere risolte in tempi brevi. Inoltre, sulla rivista Clinical Practise & Epidemiology in Mental Health, 2010, l’articolo di Gianluca Castelnuovo, Enrico Molinari, Gian Mauro Manzoni, Valentina Villa, e Gian Luca Cesa dal titolo “Brief Strategic Therapy vs Cognitive Behavioral Therapy for the Impatient and telephone – based out pantied treatment of Binge Eating Disorder: the Stratob Randomized controlled Clinical Trial” risulta che nel trattamento di pazienti con Binge Eating il mio modello di Psicoterapia è più efficace di quello cognitivo comportamentale ritenuto Gold Standard.
    Ma sino a qui ho parlato fin troppo di me e della mia Scuola, ma come indica Popper “solo con gli arroganti si deve essere arroganti”. Ora, però, parliamo solo un po’ del nostro “inquisitore”, oltre alla predica valutiamo il pulpito da cui questo viene. Il collega Migone chi è, e cosa ha fatto di così grande per arrogarsi diritti di giudizio così sentenziosi?
    I curiosi si informino e giudichino!

    Concludo questo “mio primo ed ultimo” intervento scusandomi, come fece Pascal in una lettera ad un caro amico, per aver scritto così tanto, ma non ho avuto il tempo per scriverne uno più breve”.

    Saluti
    Giorgio Nardone

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  33. Non sono uno psicologo ma faccio ricerca nel campo e sono molto interessato a questi argomenti. Aspettavo la risposta di Nardone, di cui lessi anni fa alcuni testi. Non voglio entrare nel merito delle questioni, non ne ho le competenze. Devo però dire che la risposta di Nardone mi ha grandemente deluso. Il 90% di questa risposta si può riassumere in 6 parole: “lei non sa chi sono io!” Mi aspettavo davvero di più, che una risposta (pure a una domanda-accusa stringente, sferzante forse, magari anche un po’ arrogante) fosse nel merito. Che fosse il frutto di un dibattito nel merito delle cose, invece trovarsi di fronte a sparate tipo “il mercato mi ha promosso”. Allora la cocaina e l’eroina sono molto più efficaci, riscuotono moltissimo successo e il “tam tam” di chi si ritiene scontento non c’è stato. Idem per astrologhe e cartomanti, pranoterapeuti, parapsicologi, cristalloterapeuti e via dicendo! Pure con il rispetto che ho per una persona intelligente come credo sia Nardone non posso nascondere che ritengo questo richiamo al mercato come minimo ridicolo, e certamente un argomento che (in questo luogo frequentato da pesone intelligenti) squalifica chi lo usa.
    Avrei amato un confronto serrato, magari anche tra persone che si odiano cordialmente, e non questo tono offeso da “lesa maestà”.
    Peccato, un’occasione perduta.
    MT

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  34. Avendo conosciuto nella mia vita un certo numero di persone che hanno fatto ricorso a psicoterapie di orientamento analitico e non, mi sono fatto un’idea sull’efficacia di queste pratiche.
    Per farla breve, ho potuto constatare in chi ha scelto terapeuti di orientamento analitico delle profonde modifiche della personalità che si sono mostrate e consolidate nel corso degli anni.
    Ovviamente, le persone in questione erano sempre le stesse, nel senso che i tratti del carattere, il modo di pensare, gusti e preferenze, non erano radicalmente cambiati; a cambiare però erano le possibilità che costoro avevano di fronte a sé: da persone pur di pregio ma limitate e frenate erano diventate persone più libere e consapevoli, in grado di realizzare in modo abbastanza soddisfacente il loro potenziale.
    Nelle persone che si sono rivolte a psicoterapie di tipo non analitico, di converso, non ho notato alcun significativo cambiamento, purtroppo per loro, visto che molte di esse erano in tutta evidenza afflitte da gravi problemi.
    Esistono anche casi di psicoterapie di orientamento analitico che ho constatato non aver operato particolari cambiamenti, ma si è trattato sempre di relazioni terapeutiche durate pochi anni. Il che spiega nel modo più logico il perché alcune persone decidano per lunghi periodi di tempo di andare a suonare a intervalli regolari un certo campanello: se la terapia non sortisse alcun effetto non vi sarebbe infatti alcuna ragione nel perseverare.
    Questa è la mia esperienza diretta basata su casi reali, che però ho cercato di ampliare informandomi presso persone valide di cui mi fido sulla loro esperienza riguardo alla propria sfera di conoscenze.
    Il dibattito sull’efficacia o meno della psicanalisi è quindi dal mio punto di vista quanto di più insensato e stucchevole si possa immaginare.
    Questo non significa che altre forme di intervento di tipo psicoterapeutico non siano utili ed efficaci, sia chiaro. Si tratta solo di specificare di quali ordini di problemi stiamo parlando. Ripeto che nei casi in cui il disturbo della personalità era profondo e pervasivo non ho visto alcun sostanziale cambiamento con altre forme di intervento (ma su questo punto, la mia esperienza è limitata; posso dire con cognizione di causa che la psicoanalisi funziona, ma non che non esistono altri metodi efficaci.)
    Certo, la psicoanalisi può anche non portare ai risultati voluti, e sul perché e il per come dei fallimenti, che certo ci sono, il discorso sarebbe lungo e complesso.
    Riguardo alla scientificità della psicoanalisi, che dire?
    Il discorso da fare sarebbe lungo, ma credo che l’apparato epistemologico che viene usato (o sarebbe meglio dire: fabbricato a bella posta) non può che dare risultati negativi, cioè la psicoanalisi, secondo questo scrutinio, non è una scienza.
    Ma si può andare oltre: utilizzando tale apparato, anche qualora le risultanze empiriche confermassero che la psicoanalisi è efficace, il risultato non cambierebbe. Come non cambierebbe se tali risultanze arrivassero a dimostrare che la psicoanalisi è l’unica terapia efficace.
    Nulla di male, ci mancherebbe, l’epistemologo fa il suo mestiere, ed evidentemente ritiene di farlo meglio se non si lascia distrarre da risultanze empiriche (uso il termine “empiriche” in modo tranchant, ma so benissimo che non esiste il dato nudo a cui potersi appoggiare.)
    Quello che l’epistemologo fatica a capire è la psicoanalisi non è uno strumento che, in qualche modo, esiste e pre-esiste al suo uso.
    Il coltello con il quale taglio abitualmente il salame adesso è chiuso in un cassetto, è bene affilato e so già che quando ne avrò bisogno aprirò il cassetto, lo prenderò e lo userò per tagliare.
    Il parlarne qui non modifica né la natura, né l’efficacia del coltello.
    Nel caso della psicoanalisi è diverso. Questo non significa che gli epistemologi, con i loro discorsi possono sovvertire la natura della psicoanalisi, ma ciò comunque ha degli effetti. E mi fermo qui, perché il discorso sarebbe complesso, ha a che fare con la natura simbolica dell’essere umano.
    Per essere chiari, se il criterio della scientificità o meno di un intervento sulla psiche (dove scientificità dovrebbe essere sinonimo di efficacia) fosse il ridurre tale pratica a una serie di operazioni oggettive dettate da precisi protocolli, allora anche una persona priva di qualsiasi empatia, al limite anche particolarmente ottusa, potrebbe fare il terapeuta, purché in grado di padroneggiare lunghe sequenze di passaggi logici.

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  35. Mi fa piacere che Giorgio Nardone abbia risposto, mantenendo finalmente la promessa che aveva fatto nel 2005 e che aveva ripetuto in questa occasione. Ora fornisce varie informazioni che arricchiscono il quadro. Tocca la questione della ricerca scientifica (cioè come lui concepisce la ricerca in psicoterapia, come vengono fatti i follow-up, ecc.), dei criteri di efficacia (il paragone con Lourdes, il criterio del tam-tam, ecc.), e così via. Dal suo intervento emergono anche interessanti considerazioni su cosa debba intendersi per “arroganza”. Ad esempio dice: “Il collega Migone chi è, e cosa ha fatto di così grande per arrogarsi diritti di giudizio così sentenziosi?”. Qui rispondo subito: io proprio non fatto niente di “grande”, non ho fatto tutte le cose importanti che ha fatto Nardone né ho avuto i suoi successi nazionali e internazionali, io sono un semplice terapeuta che fa del suo meglio per aiutare i pazienti e per capire come mai migliorano quando migliorano. I miei titoli sono solo questi. Io avevo fatto delle semplici domande basate sul buon senso e sulla logica, credendo che, per poter ragionare, non fosse necessario aver avuto successi sociali o di mercato. Credevo cioè che le argomentazioni avessero dignità in se stesse.
    Ma è inutile continuare in questa discussione perché mi vedrei costretto a ripetere, tali e quali, le argomentazioni che ho già fatto. Io ritengo che Nardone non abbia assolutamente risposto alle mie domande più importanti (ad esempio riguardo al concetto di terapia breve, alle varie autocontraddizioni implicate, e così via), e che la metodologia di ricerca impiegata nel suo centro sia molto approssimativa (si pensi solo ai follow-up, fatti non da ricercatori esterni da membri del gruppo se non dal terapeuta stesso, e di cui non viene descritta la metodologia, alcuni pazienti ad esempio mi hanno addirittura riferito che ricevevano delle brevi telefonate!). Sarebbe per me molto facile rispondergli dettagliatamente, ma penso che a questo punto la cosa migliore sia quella di lasciare che siano i lettori a giudicare in che misura Giorgio Nardone ha risposto alle mie domande, sulla base delle informazioni che hanno e dei loro criteri di giudizio.

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  36. Dopo aver letto il breve dibattito tra Nardone e Migone mi sento in dovere di portare la mia testimonianza per contrastare le affermazioni dei pazienti di quest’ultimo, non senza prima interrogarmi sull’utilità terapeutica dell’approfondimento di tali argomenti in seduta e sull’etica professionale di chi ne divulga le informazioni. È curioso anche notare come il Dr. Migone, che parla di scientificità, di ricerca sperimentale e di dati, porti come prova il parere dei suoi pazienti! Tuttavia, dopo aver trascorso gli ultimi cinque anni della mia vita all’interno del Centro di Terapia Strategica di Arezzo, credo di aver avuto modo di acquisire abbastanza informazioni per poter dire la mia, dato che il Prof. Nardone riceve ogni giorno molti pazienti e non sono sempre gli stessi, come capita a chi fa terapia a breve termine. Posso assicurare che i follow-up vengono eseguiti rigorosamente a distanza di tre mesi, sei mesi e un anno ed è con stupore che mi sono trovato a constatare che le persone tornano anche dopo un anno per riferire come sono andate le cose e confermare l’avvenuto cambiamento e il suo perdurare nel tempo. La seduta avviene di persona e non per telefono, in maniera breve, a volte anche con la presenza dei familiari e di solito alla fine della seduta seguono ripetuti ringraziamenti da parte dei pazienti ai quali il Prof. Nardone risponde in genere laconicamente con le stesse dieci parole “il merito è suo, io faccio solo il mio mestiere” rimandando il merito, di chiunque esso sia, totalmente al paziente, manovra prevista nella quarta fase della terapia.
    Perdonatemi se mi sono intromesso, mi sembrava doveroso intervenire e invito tutti i colleghi della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Breve Strategica, specializzandi e specializzati, a fare la stessa cosa.
    Saluti
    Giulio De Santis

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    • @Giulio De Santis,

      Scusi, ma che tipo di problemi sono trattati dal Dottor Nardone e dalla sua scuola?

      Credo che se non si delimita il campo si rischia di fare solo confusione.

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  37. A quanto pare essere psicoterapeuti non allarga i confini della mente, ma li restringe in quelle quattro mura che rappresentano la propria teorizzazione di vita che si chiama autorefernzialità….
    E l’essere psicologi non salva dal cadere nel popolare “l’erba del vicino è sempre più verde…. e pertanto va sabotata”
    Daltronde ognuna delle miriadi di teorizzazioni psicologiche nasce dall’aver preso le distanze da un collega…
    Jung e Freud hanno litigato… Freud ha preso le distanze dai suoi predecessori maestri… e così via, fino ai nostri giorni…
    Ognuno insegue il proprio delirio….

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  38. Gentile dottor Migone, mi sono spesso soffermato a leggere i suoi scritti con “esagerato” interesse e, sempre , trovandomi d’accordo con le sue conclusioni (verdetto di Dodo, eccessiva enfasi dei terapeuti comportamentali sull’efficacia dei loro risultati, sulla differenza tra ricerca clinica ed empirica e sui rischi di validità esterna dovuti al fatto che , nella ricerca, tecniche e pazienti potrebbero non corrispondere alla realtà clinica.)

    Noto, tuttavia, una certa abilità dialettica (lo consideri un complimento) nel riformulare i concetti delle correnti teoriche e metodologiche differenti a tal punto da rendere l’idea che gli autori siano TUTTI confusi o che commettano errori logici sulle loro formulazioni. Nei sui scritti, mi creda, appare davvero la psicoanalisi la regina di tutte le terapie.

    una frase che ho estrapolato mi sembra molto significativa:

    …cosa estremamente interessante, in diversi studi è stato dimostrato che quando le terapie non psicodinamiche sono efficaci ciò avviene in parte perché i terapeuti non psicodinamici utilizzano tecniche che da sempre caratterizzano l’approccio psicodinamico. Pare quindi che crolli un altro mito…

    be è una questione dialettica dal momento in cui si potrebbe dire il contrario, ossia l’interpretazione di un sintomo in realtà cos’altro è se non attribuire un altro significato al sintomo stesso, tipico della ristrutturazione cognitiva dei cognitivisti? allora è la terapia cognitiva che si avvale di tecniche psicodinamiche o il contrario? la ristrutturazione cognitiva è di matrice psicodimanica o cognitivista?

    così come è possibile riscontrare elementi di psicodinamica nella pratica strategica è possibile anche ribaltarne la situazione

    uno scritto di Haley sarà ancora più significativo:

    (..)….il cambiamento si realizza quando una persona viene posta in una situazione paradossale per uscire dalla quale è costretta a operare un cambiamento…..
    Nelle forme di terapia paradossali si trova che al sintomo del cliente, il terapeuta risponde con un ulteriore paradosso secondo il principio similia similibus curantur…

    …Se per esempio analizziamo l’interazione in uno studio di psicanalisi vediamo che il cliente giunge dal terapeuta al fine di ottenere un sollievo e per essere guidato fuori dalla situazione problematica. Scopre ben presto che il terapeuta non può dare consigli è invece lui che deve parlare per quasi tutto l’arco della seduta. E lo deve fare in un modo particolarmente strano: tramite associazioni libere (“Sii spontaneo”) che alla fine non si rivelano tali. Non solo, lo psicanalista, a differenza delle persone intorno al paziente, non proibisce al cliente di comportarsi in modo sintomatico, e la resistenza viene prontamente ridefinita come collaborazione (si dice che la resistenza è il motore della cura). (..)

    Sono argomentazione che io, spesso, ho dovuto utilizzare, si figuri, per difendere la disciplina psicoanalitica dai miei colleghi più critici. E cosa che mi meraviglia è che lei parla di mancanza di rigore scientifico degli strategici quando la psicoanalisi è la prima che ha una struttura teorica poco verificabile con concetti che in nessun modo posso essere falsificati. (Edipo, sviluppo psicosessuale, sogni)

    La ricostruzione del passato, ad esempio, può senz’altro assumere un valore terapeutico in un contesto analitico, ma l’elemento dominante è sicuramente la suggestione dal momento che oggi sappiamo come avvengono i processi di rievocazione dei ricordi e quanto questi siano fallaci (si vedano gli esperimenti di Elizabeth Loftus) Allora cos’altro stiamo facendo in realtà, una decodifica e ristrutturazione dell’esperienza su basi ARBITRARIE e SUGGESTIVE (ma se di questo un analista ne è consapevole allora siamo d’accordo). Ma lo sono davvero?

    Quando in “paradosso e controparadosso” la Selvini Palazzoli ristruttura postivamente il sintomo sa(e lo spiega) che sta attribuendo un significato arbitrario alla realtà ,ma tale significato lo utilizza strategicamente per destabilizzare la realtà attuale del paziente inducendolo ad un cambiamento.
    Bene l’interpretazione psicodinamica fa la stessa cosa e dov’è la differenza? la differenza sta nel fatto che ,probabilmente, gli analisti ci credono davvero e non la utilizzano certo a scopi strategici. Ma l’effetto non cambia, ciò che cambia sono i tempi per raggiungere i risultati (brevi per l’una, lunghi per l’altra)

    Ammanniti, in “rappresentazioni e narrazioni” parla della ricostruzione psicodinamica come ricerca di verosimiglianza più che di verità, ma non si spiega però il tempo esageratamente lungo che si utilizza per tale ricerca e se da un punto di vista clinico osserviamo pazienti che con disturbi particolarmente invalidanti come il panico o le ossessioni, dopo mesi non hanno alcun miglioramento contrariamente a quelli sottoposti ad interventi di tipo comportamentale e/o strategico, che valore ha questa ricostruzione lunga e costosa?

    Si può arrivare lo stesso in un periodo di tempo ridotto? La ricerca di questa maggior rapidità non può e non deve essere considerata come una sorta di eresia dal momento in cui, la psicoterapia, proprio come nella medicina, deve evolversi e diventare, soprattutto, più economica.

    Concordo con il fato che ci sono pazienti che non possono uscire dalla loro dimensione patologica in così poco tempo (si vedano i disturbi di personalità) ma vi sono patologie particolarmente invalidanti (panico, ossessioni, fobie) che non possono essere sottoposte ai tempi della psicoanalisi . Qui sta la differenza tra una terapia efficace ed una terapia efficace ed anche breve.
    Certo le revisioni evidenziano i risultati positivi delle tecniche psicodinamiche ma, una cosa è ottenere una remissione del sintomo in tre mesi un’altra in uno o due anni.

    La strategica, che non è solo quella nardoniana (si veda Haley, Watzklawik, ed il gruppo di Palo Alto) ha molte evidenze cliniche in tal senso. Gli strategici sono tuttavia consapevoli della scarsa (dico scarsa NON assente)ricerca empirica (esistono studi sull’intenzione paradossale)
    Ma certo la psicoanalisi (che si fonda proprio sui singoli casi clinici e su un apparato teorico non falsificabile) non è proprio nella posizione di accusare un modello di scarsa scientificità.

    Inoltre vorrei aggiungere che gran parte delle tecniche strategiche sono più o meno sovrapponibibili a quelle comportamentali

    L’ordalia di Haley, che consiste nel far seguire un comportamento indesiderato da compiti sgradevoli e/o eseguirli in condizioni frustranti, altro non è che una forma di condizionamento avversivo ,così come l’utilizzo di strategie di distrazione degli strategici somigliano, sotto certi aspetti, alla desensibilizzazione sistematica di Wolpe e ancora l’intenzione paradossale, nella cura delle ossessioni, è sovrapponibile alle tecniche di immersione e flooding dei comportamentisti . Per tanto ha le stesse basi fisiologiche e può vantare un substrato sperimentale.

    A mio Avviso l’accordo sarebbe nel considerare le terapie in modo elettivo per categorie diagnostiche. NON si può certo risolvere un disturbo di personalità in 15 sedute ma non si può proporre un trattamento analitico per un disturbo di panico o un disturbo ossessivo compulsivo. Tutti NON possono fare tutto e tutti devono scendere a patti con i propri limiti metodologici.

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    • @A.D.,
      Chiedo Scusa AD sta per Armando De Vincentiis
      Psicologo/psicoterapeuta

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  39. Buongiorno, se accettate il parere di una casalinga: io penso che per giudicare a fondo una cosa bisogna conoscerla. Consiglio di applicare
    la terapia breve e poi rifutarla se è il caso. Ma per fare questo bisogna conoscerla a fondo!
    Distinti saluti.
    marisa

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