Non voglio più vivere alla luce del sole
Il disgusto per il mondo esterno di una nuova generazione perduta
Autore: Michael Zielenziger
Titolo Originale: Shutting Out the Sun. How Japan Created Its Own Lost Generation
Editore: Elliot
Prezzo: euro 22.00
Pagine: 408
Anno edizione originale: 2006
Anno prima edizione italiana: 2008
di Manuela Materdomini
«Secondo il mito della creazione del Giappone, dopo che il fratello ribelle di Amaterasu (dea del sole giapponese, ndr) le ebbe devastato la terra e saccheggiato il giardino, i templi e i campi di riso, lei si nascose in una caverna e sprofondò nel mondo dell’oscurità.»
Il saggio di Zielenziger colpisce sin dalle prime pagine perché, nel rapido rincorrersi delle parole, emergono tutta la passione e la dedizione con le quali l’autore si è dedicato alla costruzione del testo. Nella Nota per il lettore Zielenziger ci tiene a precisare che il suo libro è un’opera saggistica redatta interamente sulla base di testimonianze reali che, in effetti, arricchiscono e rendono originale il testo. Leggendo, si ha la sensazione di “ciabattare” insieme con l’autore per i quartieri affollati di Tokio, nelle caffetterie stile anni Sessanta delle desolate periferie, nelle anguste abitazioni di Keiko, Hiro, Shigei, Taka, Jun e di tutti gli altri hikikomori che Zielenziger ha conosciuto e intervistato nel corso del suo soggiorno in Giappone come corrispondente per una stimata agenzia di stampa americana. Colpito dallo stato in cui versano più di un milione di uomini e di ragazzi giapponesi, Zielenziger prova a denunciarne al resto del mondo la condizione e lo fa mediante un’analisi della struttura sociale e della posizione politico-economica del Giappone. «Ho pensato che per conoscere i ribelli che si chiudono dentro casa per sfuggire a una società del genere, dovevo esaminare più da vicino l’ecosistema che cercano di abbandonare». Con lo spirito dell’esploratore, Zielenziger viaggia per la nazione, si documenta, riorganizza i tasselli del mosaico storico del Giappone, indagandone la condizione polito-economica, le strategie diplomatiche internazionali ed il rapporto di reciproca dipendenza con gli Stati Uniti d’America. Rimarca la tendenza del sistema giapponese a rifiutare ed espellere le influenze esterne che sembrano invaderlo irrimediabilmente, la sua tendenza all’isolamento, individuando delle analogie con il fenomeno degli hikikomori: «Come l’hikikomori si chiude nella sua stanza invece di mediare in una società che trova intollerabile o troppo severa, così il Giappone sceglieva di ignorare i segnali manifesti del fatto che l’organizzazione attuale della propria economia non avrebbe potuto reggere il ciclone della globalizzazione.»
In effetti, dall’analisi svolta emerge che il fenomeno degli hikikomori, definito dall’autore stesso come una misteriosa nuova epidemia sociale e raccontato anche dal premio Oscar Miyazaki ne La Città Incantata, ha preso piede in una nazione che nel 2003 ha registrato la cifra record di suicidi: 34.427 (quasi tutti uomini e di cui una parte è composta da giovani che si incontrano sul web per pianificare un suicidio collettivo); che presenta attualmente il più basso tasso di natalità al mondo ed un concomitante rapidissimo invecchiamento della popolazione. Come una piaga, questa sindrome da adattamento lesiona l’involucro di gomma che sembra avvolgere la cultura tradizionale giapponese, notoriamente di matrice collettivistica, fondata su un modello di passività, di autonegazione, che scoraggia l’assertività, censura la creatività, premia la cieca adesione al gruppo e fonda su questi valori il sistema organizzativo politico e lavorativo. In una società tendenzialmente omosociale (nella quale cioè ancora oggi viene strenuamente mantenuta la segregazione sessuale) e organizzata in reti sociali blindate, chi prova a cercare una via più personale alla realizzazione di sé rimane isolato o viene ostracizzato. Contemporaneamente internet, i video-games, i film e i programmi televisivi occidentali offrono ai giovani giapponesi nuovi modelli di comportamento completamente diversi da quelli tradizionali, amplificando quel senso di scollamento dal sistema di appartenenza che induce gli hikikomori a ritirarsi completamente dal mondo (la parola giapponese hikikomori unisce hiku che significa “tirare” e komoru “ritirarsi”) e, paradossalmente, a rimanere talvolta in contatto con la realtà attraverso il ponte delle relazioni virtuali. Il rifiuto dei valori tradizionali è tale da spingerli a chiudersi in camera e non lasciarvi entrare nemmeno un raggio di sole. Scrive l’autore: «Sebbene cerchino disperatamente di liberarsi dai rigidi modelli educativi, lavorativi e sociali del paese, sanno che se scegliessero la strada rischiosa dell’ “emancipazione” e fuggissero verso la luce del sole, sarebbero doppiamente puniti. Scansati dal gruppo scolastico o di lavoro dal quale si sono ritirati, è probabile che non troverebbero altre reti o gruppi disposti ad accettarli.»
Il sentimento di vergogna per la mancata adesione al sistema di valori tradizionale induce spesso i familiari a non chiedere aiuto all’esterno, a tacere le emozioni legate a questo dramma. E’ molto interessante notare come mentre nella cultura giapponese l’eventualità di poter riscoprire se stessi, ascoltare i propri sentimenti, dedicarsi alla propria individualità, ingeneri la paura di un conseguente crollo del mondo circostante, in Occidente la diffusione della cultura terapeutica (v. Furedi Il nuovo conformismo) sembra annullare il limite tra il privato ed il sociale e favorire la totale condivisione sociale delle emozioni. Come se, in entrambi i casi, non potessero coesistere un universo individuale e un mondo sociale, separati da confini flessibili ma pur sempre esistenti.