Lasciatemi cantare… Meglio una chitarra oggi o uno psicologo domani?
SEGNALAZIONE
Gentili colleghi, restando in tema vorrei con voi condividere una “notizia” che ho appreso dall’edizione delle 12:25 di Studio Aperto del 25 febbraio 2010. Il servizio propone un’intervista a Don Mazzi, fondatore della Comunità di recupero per tossicodipendnti Exodus. Una dichiarazione del fondatore, in particolare, mi ha molto spiacevolmente colpita: nel servizio la giornalista sfoglia con il protagonista dell’intervista un libro di fotografie che ritrae se stesso e gli utenti in diverse situazioni e, a proposito del sostegno in comunità di soggetti tossicodipendenti, Don Mazzi dichiara: “risolve molti più problemi una chitarra che uno psicologo”. La mia riflessione non verte sulla centralità della polemica, ma sulla necessità che avverto di porre un interrogativo sul significato di alcune dichiarazioni mosse da lacune pregiudiziali e lesive di professionalità che, invece di essere considerate come integrative ed ineludibili in un’ottica di agire operativo “insieme”, vengono pubblicamente sminuite in favore della scelta conservativa di un’ottica monadica di esclusione; tale logica di esclusione mi sembra vada così a beneficio di altre professionalità e/o para-professionalità considerate e dichiarate “più efficaci”. Sono rimasta colpita dal fatto che un acuto osservatore di problematiche di natura psico-sociale, e che opera in tale settore da anni con alacrità e merito, possa divulgare, contribuendo così a screditare una professionalità quale quella dello psicologo, opinioni che mi sembra procedano in una direzione di logica esclusivista “o-o”, piuttosto che integrativa e poli-esperienziale. Quest’ultima ottica, non sono certo io ad affermarlo per prima, e non senza cognizione di causa, rappresenta invece la modalità elettiva con cui proporre ed operare interventi che abbiano una buona aspettativa di efficacia: a mio parere ciò si tradurrebbe nei termini di una cooperazione e autentica comunicazione tra le professionalità e para-professionalità che si occupano della promozione della salute e del benessere, così come della riduzione del danno o della cura e riabilitazione terapeutica di soggetti svantaggiati o portatori di una psicopatologia. E non sarebbe male, dal mio punto di vista, che personaggi di rilievo, o che si espongono alla comunicazione mediatica, lavorino nella direzione di promuovere tale messaggio, consolidandolo agli occhi e all’ascolto dei cittadini.
Dott.ssa Francesca Sandri
COMMENTO REDAZIONALE A CURA DELLA DR.SSA ANNA BARRACCO
Il ruolo dello psicologo e dello psicoterapeuta in ambito comunitario e nel lavoro di rete.
Psicologo o chitarra? Posto così il dilemma, ci si potrebbe domandare che senso possa avere dare spazio ad una segnalazione di questo tipo, se non fosse che la stessa segnalatrice argomenta in modo originale la questione, suggerendo di non voler prendere “alla lettera” quella che potrebbe sembrare una sterile polemica fra strumenti e tecniche (peraltro mai del tutto sopita, in ambito riabilitativo, si veda, a questo proposito Benedetto Saraceno: “la fine dell’intrattenimento, manuale di riabilitazione psichiatrica”), quanto di voler prendere sul serio la riflessione di fondo, che anima da sempre l’etica della cura comunitaria, e cioè la questione dell’integrazione. Integrazione di saperi, di tecniche, di interventi, ma che mira in realtà all’unica vera integrazione che dovrebbe orientare eticamente il clinico, e in generale l’operatore di salute mentale: l’integrazione del soggetto in e con se stesso, dalla quale peraltro spesso dipende, in una stretta correlazione, la possibilità di un’integrazione sociale e relazionale in senso lato, ovvero il ripristino di un legame sociale animato dal desiderio soggettivo.
Ma facciamo un passo indietro. La frase di Don Mazzi è una “boutade”, che potrebbe forse essere anche giustificata. Di fronte ad un album di ricordi, a momenti di condivisione comunitaria, alla “prova fotografica” del potere del “gruppo animativo”, la frase potrebbe in fondo avere solo il senso, volutamente estremizzato, di contrapporre l’intervento “tecnico” al potenziale umano, in senso lato.
Questo potrebbe essere più che giustificato, data la connotazione religiosa che certo non è equivoca delle Comunità di recupero fondate da Don Mazzi.
Tuttavia questa possibile tensione dialettica fra impegno sociale e comunitario da una parte e prospettiva terapeutica dall’altra, in ambito comunitario, ha una sua profondità che ritengo non si riduca neanche alla pur condivisibile tesi della segnalante: ogni strumento fa la sua parte, inutile e potenzialmente dannoso sottolineare la validità di uno a detrimento dell’altro.
Considererei la questione da tutt’altro punto di vista: quali indicazioni terapeutiche e trattamentali sono alla base del trattamento comunitario, posto che anche la Comunità è un servizio “terapeutico”, appunto, e come tale viene riconosciuto dal SSN?
Penso di poter rispondere, da psicologo sociale, che il trattamento comunitario è una sorta di “palestra”, un allenamento alla vita e al legame sociale che viene indicato per quei soggetti il cui disagio, il cui disturbo, è tale da compromettere profondamente il legame sociale, o il “funzionamento sociale” (a seconda degli orientamenti, e dunque in base al fatto che si metta l’accento sulla dimensione oggettiva o su quella soggettiva del disturbo). L’indicazione per il trattamento comunitario, richiede, come secondo requisito di base, che il soggetto sia consapevole di questa “impasse” generalizzata, e desideri interrogare i propri comportamenti; è necessario che sia dunque implicato attivamente in un processo di cambiamento. Ci dev’essere, si dice in gergo, una “domanda” del soggetto, e non a caso i percorsi di accesso al trattamento comunitario curano in modo molto sofisticato questa fase di analisi e messa in forma della domanda del soggetto.
Rispetto a questi due fondamentali elementi – la valutazione della necessità di un intervento globale sul soggetto che lo sottragga al suo ambiente naturale, nonché la messa in forma di una domanda consapevole che permetta di effettuare questo intervento complesso e certamente non indolore – dai quali dipende l’esito del processo, è difficile negare che il ruolo dello psicologo possa essere fondamentale e imprescindibile.
In seguito, il percorso comunitario si avvale di strumenti riabilitativi che, a seconda del contesto, dell’orientamento terapeutico, e non ultimo della sensibilità degli operatori e delle risorse disponibili, certo possono essere anche molto differenziati. Il percorso del soggetto è cadenzato in momenti che privilegiano in genere, inizialmente, aspetti supportivi per poi permettere al soggetto l’accesso a strati più profondi del proprio disagio. In questa fase, centrale del percorso riabilitativo-terapeutico in ambito comunitario, l’équipe curante ben si può avvalere di strumenti espressivi la cui ricaduta terapeutica può essere ed è spesso preziosissima.
Verso il termine del percorso, fondamentali diventano invece altri strumenti ancora: supporti economico-logistici, appartamenti protetti, convenzioni per tirocini e avviamento al mondo del lavoro, graduale restituzione al territorio, ovvero, caso per caso, creazione di un progetto che privilegi l’allontanamento del soggetto dal territorio di provenienza.
Al di fuori di una visione complessiva, dunque, che non tenga conto del presupposto fondamentale per cui anche il luogo comunitario (come la chitarra) è solo uno strumento terapeutico ,per quanto complesso, diventa davvero fuorviante il paragone proposto da Don Mazzi.
È chiaro che al di fuori di un progetto complessivo, al di fuori di una relazione terapeutica in grado di implicare il soggetto nel processo di cura, ogni intervento può essere vissuto come inutile, superfluo e persino dannoso. Non rari, ma anzi all’ordine del giorno, sono i casi in cui i familiari, ma anche gli operatori stessi, possono vivere come inutile e persino dannoso un intervento farmacologico che venga erogato in quanto tale. Tutti ricorderanno le polemiche nei confronti del metadone per tutti, come “farmaco sostitutivo” pensato per la “riduzione del danno” e come questa teoria, sganciata da un progetto clinico, potesse diventare di fatto solo una modalità di cronicizzazione del disturbo. Il metadone, da “farmaco sostitutivo” diventava “droga sostitutiva”. Lo stesso può sicuramente accadere anche nel caso di un intervento psicoterapeutico che si ponga al di fuori, al di sopra, o comunque non coordinato con gli altri momenti del percorso evolutivo del soggetto tossicodipendente, che si trovi o meno a vivere un periodo di inserimento in Comunità.
Le percentuali di ricaduta nel comportamento dipendente, nel caso di soggetti che hanno avuto accesso a percorsi comunitari, è in assoluto estremamente elevato e questo dato, di per sé, sarebbe già sufficiente a mettere in dubbio che il momento comunitario in sé possa essere considerato come riabilitante.
Le percentuali di successo aumentano quando il percorso iniziale (e dunque il lavoro sulla domanda) è condotto con attenzione, quando i familiari o le persone significative vengono coinvolte nel percorso, e soprattutto quando i percorsi di uscita riescono a supportare il soggetto e a integrarsi nelle reti naturali. Il successo è insomma favorito dall’attenzione che si riesce a porre sulla “rete”, e sulla possibilità che questa possa far ritrovare al soggetto un suo posto.
Lo psicologo dunque, come professionista che cura queste reti, e le loro ricadute, gli effetti sul soggetto, diventa una risorsa fondamentale e qualitativamente diversa dalle risorse riabilitative. All’interno di un processo complesso, che va dall’ingresso in Comunità alla restituzione al territorio, lo psicologo come funzione è presente, in circostanze ottimali, e si declina anzi in professionalità, interventi e persone diverse: c’è lo psicologo del SerT, che sostiene e costruisce la domanda; c’è lo psicologo di Comunità, che accompagna il soggetto nel percorso comunitario e lo sostiene nella quotidianità, contenendo, ricomponendo e restituendo la molteplicità dei significati che la vita di relazione riattualizza e “mette in scena”, per così dire, aiutando il soggetto ad elaborare risposte diverse e a riconoscere ed evitare le ripetizioni; c’è lo psicologo formatore dei gruppi di operatori della riabilitazione. C’è lo psicoterapeuta, che in un momento più avanzato del percorso può raccogliere una domanda specifica di approfondimento e di consolidamento, che in genere – peraltro – è bene che il soggetto possa rivolgere in un luogo esterno alla Comunità. C’è il supervisore, che permette agli operatori il periodico controllo della posizione etica e li aiuta ad evitare eccessivi rispecchiamenti e a tenere la “barra del timone” dell’intervento sul soggetto, c’è lo psicologo del territorio, che sostiene gli educatori nel corso dell’intervento di inserimento lavorativo e abitativo. E l’elenco potrebbe continuare.
Dunque la professione di psicologo, in ambito comunitario, permette all’équipe e a tutti i soggetti in gioco, di immergere gli “oggetti” (il farmaco, la chitarra, gli altri pazienti, la casa stessa, e la moltitudine di oggetti che si susseguono nel percorso) in un “campo” che è il campo della psiche del soggetto il quale può, all’interno di questa “palestra” modificare le proprie modalità di approccio al legame.
In questa prospettiva, diventa davvero difficile il confronto fra lo psicologo e la chitarra. Il ché beninteso non significa affatto negare che la musica, così come un grande amore, non possa avere valenze riabilitative e ricadute terapeutiche di grande significato nella vita di qualsiasi persona. Sono oggetti, in senso analitico, e dunque suscitano passioni, esattamente come la droga stessa, la quale, peraltro, in moltissimi casi, come osserva la dott.ssa Morandi, costituisce un tentativo di sopperire al disagio e un mezzo di “autocura” per tentare di accedere al legame sociale.
PARERE DELLA DR.SSA CHIARA MORANDI
Ho accettato con piacere di esprimere un breve commento all’intervento di don Mazzi poiché il tema solleva un argomento assai attuale.
Si tratta della clinica delle “nuove patologie” o per meglio dire dei “nuovi sintomi”, argomento che coinvolge noi operatori della psiche in prima persona, ma riguarda in realtà una riflessione culturale ben più ampia.
Parlare di nuovo, riferendoci ad una “patologia” quale è la tossicomania, sembra un po’ anacronistico, se pensiamo che il problema è presente fin dai tempi antichi.
Tuttavia ci sono alcuni punti su cui vorrei, con l’aiuto di altri autori, soffermarmi.
Come premessa, vorrei riprendere le parole di Eugenio Borgna, il quale sottolinea acutamente che “essere in una tossicomania è una possibilità consegnata alla condizione umana: un rischio fatale che ad essa si inerisce” . E ancora che “al di là delle sue forme e dei suoi contenuti, la dipendenza psichica e fisica da una sostanza ha in sé motivazioni diverse che non sono solo psico(pato)logiche e sociali ma anche radicalmente umane: contrassegnate fino in fondo dalla tendenza, comune a ciascuno di noi, a fuggire da ogni condizione di “vuoto” esistenziale, di perdita del senso della vita, e a riempire disperatamente questo vuoto”.
Del resto già Freud sottolineava la solitudine dell’uomo e che il compito comune, sotto il segno della civiltà, è difendersi dall’angoscia e dalla sofferenza. Definiva l’uso di sostanze stupefacenti come possibilità di sottrarsi alla pressione della realtà e un modo di indipendenza dall’altro e dalle forze che incombono su di noi esponendoci al rischio della sofferenza.
E, ancora, secondo Lacan, la droga consente di spezzare il legame con il fallo e quindi con la sessualità e di instaurare un altro tipo di godimento che evita la relazione erotica e la questione amorosa. Per Lacan l’idea della psicoanalisi sulla dipendenza si impernia proprio sulla possibilità di sfuggire all’inquietudine relativa al rapporto di coppia, perché garantisce un godimento sempre identico e sempre disponibile.
……….e potremmo continuare ancora, accontentando fautori di varie scuole e orientamenti psicoanalitici.
Come potremmo allo stesso modo accontentare gli amanti delle statistiche e i teorici che, sulle diverse declinazioni di una solo apparente omogeneità sintomatica, hanno classificato, differenziato, categorizzato, studiando personalità premorbose, cause socio-culturali, relazioni familiari e via dicendo.
Ma, andando oltre poichè non è qui la sede per approfondire tutto questo, la questione attuale che riguarda la tossicomania si fa ancor più complessa.
Se infatti consideriamo la tossicodipendenza come “nuovo sintomo” (tanto quanto ad es.l’anoressiabulimia) ci vengono in aiuto le parole di Recalcati “la radice ultima della declinazione contemporanea del sintomo non è la scena del desiderio rimosso, ma una dimensione desertica, di vuoto radicale, che sembra non avere nessuna connessione con ciò che avviene nell’Altro e che genera nel soggetto un vissuto fondamentale di vuoto e di non esistenza e la percezione di un vuoto che non si estingue mai”.
Questo mette dunque in primo piano la questione dell’Altro e principalmente la sconnessione dall’Altro della modalità attuale del sintomo.
Non credo che esista neanche più ormai questa ricerca di sfuggire alla sofferenza e di riempire il vuoto esistenziale cercando rifugio in labili apparenze e fantasmagorie che potevano avere un senso intellettual-culturale negli anni che ci hanno preceduto. (la caratteristica delle nuove droghe lo conferma).
Penso invece che ci sia l’idea di poter controllare quello stato emotivo estremo che ben definisce Maltzberger come “desperation”, fatto di colpa, ferita narcisistica, processi di perdita, solo tramite un “nuovo” paradossalmente vitale atteggiamento di morte.
Il rischio della società contemporanea è infatti questo incoffessabile gioco con la morte. Ai protagonisti di queste esperienze, la morte appare, ed è, frutto di un gesto estremo di sopravvivenza.
In questa, che abbiamo appunto definito paradossale, ricerca dell’esistenza tramite la non-esistenza, il non-essere appare come l’unica possibilità di superare il confine del tempo.
E allora mi vengono in mente le parole della riflessione heideggeriana: “Un colloquio, noi lo siamo dal tempo in cui ‘vi è il tempo’. E’ da quando il tempo è sorto e fissato che noi siamo storicamente.
Entrambi – l’essere un colloquio e l’essere storicamente – hanno lo stesso tempo, si appartengono l’un l’altro e sono il medesimo”.
Ci sono delle connessioni segrete tra l’ascoltare e il parlare, tra il linguaggio e il tempo.
Tanto quanto l’articolazione del tempo (interiore) è anche la struttura portante di un colloquio o per meglio dire di un incontro, per quello che riguarda la riflessione che stiamo facendo qui ora potremmo considerare che in realtà anche la musica, come altre forme di comunicazione non verbale, è tempo. Tempo dell’ascolto e tempo del silenzio, il tempo dell’armonia e della possibilità.
“il tempo interno, la durèe”dice Schultz “è la vera e propria forma di esistenza della musica”. E ancora “lo spettatore si trova unito al compositore da una dimensione temporale comune a entrambi, che non è altro che una forma di presente vivido e condiviso dai partners in un’autentica relazione faccia a faccia quale si instaura tra chi parla e chi ascolta”. Gli studi di musicoterapia ce lo confermano.
Silenzio e dialogo sono due categorie conoscitive, come modalità di comunicazione, non solo linguistiche ma esistenziali nel contesto di ogni rapporto con l’altro, soprattutto dove la frattura radicale della comunicazione crea nell’incontro una dicotomia spazio-temporale.
Poiché in quella che possiamo definire “incapacità di accesso al simbolico viene meno la domanda di cura come domanda di sapere e/o di senso sulla propria sofferenza, e’ vero che “la psicoanalisi perde territorio su cui esercitare il proprio residuo potere della parola” (Recalcati). L’individuo, non il soggetto, non rivolge all’Altro nessuna domanda di senso sulla propria sofferenza ma satura con il sintomo la mancanza di articolazione linguistica della domanda. non esiste più Dialogo, non esiste più Colloquio, almeno per come siamo stati educati ad intendere tutto questo.
Ma proprio perché questo mortifero senso di vuoto traduce l’assenza di un processo di soggettivazione e proprio perchè la caratteristica di queste nuove patologie è il disfunzionante rapporto con l’Altro è necessaria molta più flessibilità, come agenti di cura, sui nostri legami ai modelli di riferimento.
Si chiede in sostanza di accettare questo cambio radicale, dal soggetto che patisce a colui che parla (perché no anche con la musica), del proprio patire.
Se con questa frase un po’ infelice don Mazzi ha voluto sottolineare tutto questo, noi, “nuovi” terapeuti della psiche di fronte alla “nuova” clinica, forse un po’ più coraggiosi nell’abbandonare una certa rigidità dei modelli di riferimento, non ci sentiamo screditati , ma al contrario stimolati ad una nuova avventura, basta forse non mettere in competizione con un segno + o un – diverse modalità di aiuto.
BIBLIOGRAFIA
Borgna E. “Noi siamo un colloquio”
Gebsattel V.E. von, “Prolegomana einer medizinischen Anthropologie”
Freud S. “Disagio della civiltà”
Pozzetti R. “J. Lacan e la psicoanalisi delle dipendenze”
LeBreton D. “Passione del rischio”
Heidegger M. “La poesia di Holderlin”
Recalcati M. “Clinica del vuoto: Anoressie, dipendenze, psicosi”.