Psichiatria, non psichiatria. La follia nella società che cambia

Autore: Carlo Viganò

Titolo: “Psichiatria, non psichiatria. La follia nella società che cambia”

Editore: Borla – Anno: 2009 – Prezzo: Euro 32. Pagine: 315

Recensione di Anna Barracco

“La psichiatria del DSM ha scelto la semplificazione. Essa però non è, come si crede, una semplificazione biologista (dove mente sarebbe uguale a corpo), ma di tipo sociologico, dove il corpo individuale (privato), è concepito come una grande allegoria del corpo sociale (pubblico) e anche viceversa. Di conseguenza si sono applicati i nomi di sintomo, disturbo, terapia, riabilitazione al termine mediano fra corpo individuale e corpo sociale: il comportamento”

Il libro di Carlo Vigano è un libro difficile. Ma non si tratta della difficoltà, dell’opacità incomprensibile cui i professionisti “psi” sono avvezzi, nell’avvicinare un testo che venga da un autore che non fa mistero del suo debito all’orientamento lacaniano. Al contrario, lo stile di Viganò è piano, tutt’uno con una lucidità e una chiarezza che è testimonianza dell’autenticità della sua posizione etica.

E’ tuttavia un libro difficile perché propone una svolta epistemologica radicale alla quale il discorso dominante sulla salute mentale non ci facilita certo il compito; per questo l’autore ci porta a questa rivoluzione epistemologica attraverso una approfondita lettura storico-clinica della follia nell’occidente.

A partire dal discorso di Foucault, Viganò infatti sostiene che non ci può essere storia della psichiatria, ma solo storia della follia e del posto che ogni società ha riservato alla follia e ai folli, come limite esterno, eccedenza, alla società umana.

Tuttavia non si tratta di un’opera sociologica e storica, ma di un’opera politica che parte da una teoria e da un’etica della clinica.

La psichiatria è profondamente in crisi, né più né meno di quanto siano in crisi le discipline “psi”, ovvero le varie terapie fondate sull’ascolto. Al di là delle diverse fortune che le lobby professionali possono ancora vantare, non è possibile non constatare la gravità di questa crisi epistemologica e pratica.

La psichiatria, che meno di cento anni fa si smarcava orgogliosamente dalla neurologia ottocentesca, a meno di un secolo da questa emancipazione, insegue oggi le neuroscienze, alla ricerca di una nuova legittimazione che permetta di ritrovare uno statuto “hard”, fondato cioè sul paradigma della “spiegazione”.

La psichiatria ottocentesca, infatti, che pure aveva trovato un posto nella medicina, profondamente rivoluzionata dalla nascita della clinica moderna (il passaggio dal corpo-cadavere del tavolo anatomico, al frammento e alla ricerca biochimica), aveva ceduto alla lusinga jaspersiana dell’abbandono del paradigma della “spiegazione” per seguire la via della “comprensione” fenomenologica.

Questo sostanziale abbandono del paradigma scientifico, che rinuncia ad una teoria della psicosi per introdurre un concetto a-teoretico di “psiche” come luogo della coscienza, ha un’unica eccezione nel pensiero freudiano.

La scoperta freudiana mette in luce come il soggetto dell’inconscio sia altra cosa rispetto all’Io, e situa la scoperta psicoanalitica non contro la scienza, non come discorso “altro” rispetto alla scienza (cioè di tipo filosofico), bensì esattamente come ciò che la scienza lascia come “resto”.

La teoria del funzionamento psichico introdotta da Freud è una teoria che utilizza il metodo della scienza, applicandola ad un particolare oggetto, l’inconscio.

Successivamente, la formalizzazione lacaniana, permetterà di meglio articolare e portare alle estreme conseguenze la scoperta freudiana, adattando appunto all’oggetto gli strumenti, grazie all’apporto della linguistica strutturale e della topologia.

Gli studi lacaniani sulla psicosi, che vengono ricostruiti da Viganò nella loro genesi e nel debito che essi mantengono nei confronti delle teorie sull’automatismo mentale di De Clerembault, dimostrano che il delirio e i fenomeni elementari non costituiscono perdita del Sé o deficit delle funzioni cognitive. Al contrario, si tratta di aggiustamenti secondari, di atti creativi e riparativi, che l’individuo mette in campo per far fronte alla rottura che il fenomeno psicotico introduce per far fronte alla crisi.

Lo psicotico, così come il nevrotico, si struttura attraverso l’incontro del corpo-organismo con il linguaggio, ed è questo incontro che fa scaturire il soggetto, che coincide con l’assunzione del corpo pulsionale. Questo incontro, se non segue le vie edipiche dell’accesso alla funzione logica del Nome-del Padre, produce nel soggetto una impossibilità a rispondere creativamente, in modo particolare alla richiesta dell’Altro sociale, e contemporaneamente un’impossibilità a stare in un legane accettabile.

Ognuno di noi nevrotici, infatti, produce questa risposta particolare alle esigenze dell’Altro, e questa risposta particolare è appunto “il soggetto”, cioè l’effetto di senso, la soddisfazione che ognuno di noi è. Potremmo dire che il soggetto coincide con il corpo vissuto, abitato, e nello stesso tempo questo particolare adattamento noi lo immettiamo nel legame sociale, nello scambio dialettico, attraverso la condivisione del linguaggio nel quale abitiamo, ma che anche usiamo, cosa che ci riesce possibile perché possediamo questo “passe-partout” che è il significante edipico.

Lo psicotico invece incontra, ad un certo punto, questa mancanza, e gli effetti di “fine del mondo” che questa scoperta produce, danno luogo al lavoro del delirio o al passaggio all’atto.

Dunque anche nella psicosi vi è un soggetto, che non coincide con le funzioni dell’Io, le quali peraltro, nella psicosi, non sono per niente alterate, come ben dimostra il lavoro di De Clérambault.

Negli ultimi anni 60 e in tutti gli anni 70 in molti paesi d’Europa ha avuto luogo la rivoluzione chiamata “68”, e questa rivoluzione ha avuto di mira l’Università, il manicomio e gli stili di vita borghesi, cioè i modi del godimento nel loro rapporto con la legge (il matrimonio, l’aborto, il corpo in genere, l’uso di droghe).

In Italia la rivoluzione basagliana, culminata con la legge omonima, ha avuto come esito il profondo ripensamento della follia in una connotazione radicalmente sociale. Anche al di là di quello che era realmente il pensiero di Basaglia, che mai volle identificarsi con la corrente antipsichiatrica, la rivoluzione italiana ha portato ad uno sbilanciamento del pensiero sulla follia che ne ha esaltato la componente sociale. La prima cosa era insomma smantellare l‘istituzione e immettere in circolazione il folle. Il discorso su cosa fosse in sé la follia, e su quali potessero essere le modalità di spiegazione e di risposta, fu lasciato all’organizzazione territoriale delle cure, e sostanzialmente ad una psichiatria di stampo esistenzialista o ad una psicoanalisi che accettava l’idea di una “psiche” coincidente con l’io e con le funzioni unificanti della coscienza, dal momento che Freud finì sostanzialmente con l’essere letto nella sua versione evoluzionistica, e dunque implicante un’idea di “normalità psichica” (le fasi dello sviluppo psicosessuale, e un’idea temporale dell’Edipo).

In Francia invece, il discorso di Lacan portò la critica al cuore dell’istituzione universitaria e permise la messa in questione del sapere psichiatrico e psicanalitico ortodosso, ad un tempo, attraverso la rilettura del testo di Freud, in particolare attraverso la distinzione fra soggetto e individuo, e l’implicazione del rapporto fra sapere e godimento sul versante soggettivo, da un lato, e di sapere e potere, sul versante universitario e politico, dall’altro.

L’importanza di questi complessi strumenti nel campo strettamente clinico, viene ben illustrata dall’autore, che mostra con chiarezza i limiti di una pseudo scienza psichiatrica che oggi è finita su un terreno mortifero: “viene proclamata una pratica di igiene mentale, di prevenzione, che in pratica ha effetti di segregazione volti alla riduzione del danno sociale, e questa pratica ha un ideale di riferimento, che è la sperimentazione (…). L’animale da laboratorio diventa il referente scientifico e si usano correttivi statistici di selezione del campione, di lettura in doppio cieco, di randomizzaizone ecc. affinché quando si deve sperimentare direttamente sull’uomo esso venga de-soggettivato fino a che sia ridotto alle pure variabili etologiche che permettano di leggere in termini “scientifici” i dati della ricerca” (Viganò, pag. 170)

La psicoanalisi non si può più prestare a sostenere questo sapere di cui la società ha bisogno per temperare l’esclusione del godimento dal linguaggio e dallo scambio.

L’esperienza dello psicoanalista, a partire dal rapporto con la psicosi, è ciò che porta appunto ad un rapporto con il godimento che non sia solo quello della legge (divieto o assenso).

Lo psicotico è infatti chi non ci sa fare con il godimento, chi non possiede un principio ordinatore in grado di addomesticare la legge “uguale per tutti”, facendola convivere con un ritorno di soddisfazione che invece non può assolutamente essere “uguale per tutti”. Per questo, lo psicotico non trova il modo di articolare la propria particolarità con l’universale della differenza sessuale, e dunque, come si dice “passa all’atto”. Mentre lo psicoanalista può e deve testimoniare che morte e sessualità non sono fuori dal linguaggio e che quindi ci si può con-vivere.

Si struttura così una particolarissima clinica, dove sintomo non è il segno di una malattia, ma del soggetto stesso, quando abbandona il valore comunicativo del discorso (fissazione), e vi si rappresenta come messaggio cifrato. In quanto formazione dell’inconscio la metafora sintomatica esprime, dolorosamente e spesso in modo insoddisfacente, la peculiarità e l’unicità di un soggetto” (Viganò, pag. 38).

La psichiatria attuale, ma anche tutte le psico-terapie che non presuppongono l’articolazione del godimento con il linguaggio, e che dunque non attingono ad una teoria del soggetto distinto dall’io della filosofia o della psicologia, finiscono per funzionare da ancelle dell’ideale sociale di “normalizzazione”, per cui la giusta misura (= satis, in latino “abbastanza”, “quanto basta”, è alla radice del termine “soddisfazione”) non è più reperita a partire dal caso, ma a partire da un ideale sociale a metà fra l’individuo e il gruppo. La stessa rinuncia alla guerra fra paradigmi differenti, la “pax” inaugurata dalla rinuncia eziologica del DSM, è in realtà un non volerne sapere, perché quanto viene apparentemente escluso a livello della teoria, torna nel reale della “terapia”, che nel binomio farmaco-riabilitazione ripropone l’osso duro di un ideale di ”normalità” intesa come norma statistica, collettiva, che di fatto relega la psicosi nella dimensione deficitaria.

Il testo di Viganò mostra, ben al di là di quanto potrebbe fare una pozione ideologica, attraverso una serie di esempi tratti dalla sua trentennale pratica di psichiatra e psicanalista nel sociale, come direttore del Dipartimento di salute mentale di Como, come supervisiore di comunità terapeutiche, come ricercatore della clinica universitaria di Affori, la fertilità e la radicale differenza di questa clinica centrata sul soggetto. Una pratica in grado di modificare radicalmente il senso della presa in cura comunitaria, e anche del lavoro d’équipe, che non si riduce dunque più allo scambio di informazioni, alla condivisione di prassi operative volte all’omologazione della risposta terapeutica, bensì diventa la possibilità di ridar voce al soggetto. L’insieme delle narrazioni, la messa in comune delle osservazioni di ciascuno, il “controllo” della posizione soggettiva e dunque del fantasma dell’operatore, permette all’équipe di ritrovare un desiderio orientato al soggetto, e dunque permette la rivitalizzazione di una domanda singolare.

Il caso di Elle, che in soli quattro mesi può scongelare alcune “lettere di godimento” ormai sedimentatesi negli anni e rimetterle nel circuito della parola, permetterebbe da solo di mostrare come una clinica del soggetto sia ben lungi dall’essere fondata sulle “chiacchiere” ed avrebbe anche un immenso potere di vera riabilitazione.

Ma il testo è ricco di esempi che permettono di intravedere con chiarezza l’immenso potenziale di questo approccio.

Che cosa impedisce oggi alla società di adottare questo diverso approccio al sapere e alla cura “psi” che si fondi sul “caso per caso” e che articoli una diversa scienza che meglio risponda all’oggetto di studio, di quanto non possano fare i metodi sperimentali applicati alle scienza della natura o la medicina che si occupa del cadavere?

Così parla l’autore: “…. ci si deve chiedere cosa impedisca allo Stato di accettare una cultura della clinica sotto transfert, che cosa lo spinge a privilegiare gli “interventi Achille”, che poi nella storia clinica concreta, regolarmente sfociano in una cronicità-Tartaruga, molto costosa, perché violenta il soggetto e ne provoca il passaggio all’atto. Per rispondere, non basta dire che la cultura attuale sponsorizza uno scientismo sociologico nelle valutazioni sanitarie perché non ne vuol sapere nulla della guarigione come impossibile. Questo è solo il vantaggio secondario. C’è poi quello primario, di struttura, che è legato al plusvalore che in questo modo le terapie-Achille si assicurano con i mezzi ideologici” (Viganò, pag. 261).

Fabio Fareri

Author: Fabio Fareri

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